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Un ennesimo caso di licenziamento ritorsivo annullato dal giudice, con reintegra e risarcimento pieno del danno

23 Maggio 2024|

1. I fatti di causa

Così è riassunta, sinteticamente, la lunga vicenda, assai complessa in punto di fatto, che ha portato alla sentenza in commento e si è dipanata nel corso dell’ultimo decennio.

Un lavoratore, che era stato allontanato dal lavoro dopo avere operato in via continuativa con contratti a progetto dal 2005 al 2012, si era visto riqualificare sin dall’inizio il rapporto come subordinato a tempo indeterminato con qualifica di quadro e ricostituire il rapporto con sentenza del 7.3.2014 del Tribunale di Roma.

Reintegrato nel suo posto di lavoro, dopo pochi giorni, in data 26.3.2014, veniva licenziato nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo, recesso che veniva annullato da Tribunale di Roma con ordinanza 7.9.2016 (confermata nei successivi gradi del giudizio).

Il lavoratore veniva formalmente reintegrato con comunicazione del 16.9.2016, ma senza essere riammesso al lavoro e, in data 4.11.2016, veniva nuovamente licenziato per giustificato motivo oggettivo.

Anche tale licenziamento veniva dichiarato nullo perché operato in frode alla legge, con ordine di ricostituzione del rapporto di lavoro, decisione condivisa dalla Corte di appello di Roma con sentenza 33033 del 22.7.2919, confermata in Cassazione.

Del tutto inutili si rivelavano le diffide del lavoratore ad essere riammesso in servizio, notificate al datore in data 20.9.2019 e 20.2.2020.

Del tutto improvvisamente, dopo tre anni di silenzio e poco prima delle ferie estive, in data 27.6.2022. il datore di lavoro inviava al lavoratore una raccomandata invitandolo a prendere servizio per il giorno 17.5.2022.

Trovandosi in quel periodo al di fuori del suo domicilio, dapprima per fornire assistenza ad un familiare malato, successivamente per impegni giudiziari e, indi, per motivi di salute e per sopravvenuta positività al Covid, il lavoratore non prendeva visione né dell’invito di riprendere servizio, ricevuto in sua assenza dalla portiera né della successiva contestazione di mancata presentazione al lavoro pervenuta il 26.7.2022, il cui avviso postale veniva trovato dal fratello il 29.7.2022.

Avvertito solo in tale data delle due comunicazioni aziendali, reperite dal fratello, non appena negativizzatosi dal Covid, si presentava in azienda l’1.8.2022, presentando giustificazioni scritte, con allegati certificati medici che confermavano la malattia e la successiva positività al Covid.

Veniva quindi reintegrato in azienda lo stesso giorno, ricevuto dal responsabile del personale e dall’amministratore unico che gli comunicavano che avrebbe operato sotto la direzione di una dirigente «per individuare eventi a carattere internazionale e che il lavoro sarebbe iniziato il 22 agosto, dopo la chiusura estiva del 5 successivo». Gli venivano anche attivati l’accesso al pc ed alla posta aziendale e veniva visitato dal medico aziendale per verificare la sua idoneità al lavoro.

Il 4 agosto 2022, veniva però licenziato in ragione della contestata assenza ingiustificata.

Impugnava il licenziamento ritenendolo illegittimo e ritorsivo, con richiesta di ricostituzione del rapporto e svolgendo nello stesso giudizio anche domande di risarcimento del danno per demansionamento professionale lesivo della sua dignità e professionalità aziendale per oltre tre anni, a seguito della forzata inattività tra il primo ordine giudiziale di reintegra (dall’8.9.2016 al 4.11.2016) e dal secondo licenziamento al richiamo in servizio (dall’8.7.2019 al 14.7.2022).

Deduceva anche l’ingiustificatezza di non averlo fatto ruotare nel periodo di applicazione del FIS (Fondo integrazione salariale) nel periodo di applicazione dell’istituto per il Covid (dal 23.3.2020 al 31.1.2022), risultando l’unico dei cinque quadri con funzioni commerciali, nonostante lo svolgimento di fiere e convegni in quel periodo.

Nell’ipotesi non applicazione della reintegra, chiedeva la liquidazione massima del danno.

La società si costituiva rilevando, circa il dedotto demansionamento per inattività che dal 2019 e il 2020 erano intercorse trattative tra le parti per la definizione del contenzioso e che, nel 2020, la ripresa del rapporto non era stata possibile per l’intervenuta emergenza Covid che aveva comportato la chiusura degli uffici con sospensione di tutte le attività, come per gli altri dipendenti che erano stati posti in Fis.

Osservava che la richiesta di danno era non quantificata e/o dimostrata e che non vi era alcun obbligo di rotazione in caso di Fis. In ogni caso nel settore ove operava il ricorrente gli eventi erano gestiti dagli organizzatori e la Società si limitava a mettere a disposizione gli stand che impegnavano solo il personale a ciò specializzato, senza contare che, comunque, gli eventi che si sono succeduti concernevano settori dove il ricorrente non aveva mai operato (da qui l’impossibilità della dedotta rotazione) e che anche tutti gli altri quadri erano stati posti in Fis per oltre due terzi del periodo e, infine, che occorreva contare anche il periodo di inattività per godimento delle ferie.

L’intenzione di licenziarlo per ritorsione era poi insussistente, essendo invece evidente la volontà di reintegrarlo, come dimostrava l’invito a prendere servizio comunicato con venti giorni di anticipo.

La volontà di licenziarlo si era concretizzata solo dopo la sua assenza ingiustificata.

Quanto al licenziamento, osservava la mancanza di prove documentali delle affermazioni giustificative dell’assenza del ricorrente e che lo stesso, comunque, una volta presa conoscenza delle comunicazioni aziendali, aveva omesso di avvertire tempestivamente il datore del suo stato di malattia, concretizzando così l’ingiustificatezza dell’assenza.

Sulle richieste economiche rilevava che il ricorrente aveva già agito in via monitoria per le sue spettanze nelle more del giudizio e che le ferie non maturano nel corso della Fis.

2. La sentenza del Tribunale di Roma 10 aprile 2024,n.4272

A) La prima questione affrontata dal Tribunale riguarda la lamentela del ricorrente di non essere stato utilizzato dall’azienda durante i periodi di Covid nelle residue attività svolte dalla Società nella fase pandemica, perché posto in Fis a differenza degli altri quadri in servizio, con conseguente danno retributivo e alla professionalità.

Il Tribunale ritiene parzialmente fondata la domanda, poiché, dall’istruttoria esperita attraverso la testimonianza dei colleghi quadri del ricorrente, risulta che in effetti, nel corso del periodo che va dal 23 marzo 2020 al 31 gennaio 2022, l’attività della Società non era affatto cessata e aveva anzi visto gli altri quadri, colleghi del ricorrente, collocati in Fis per i due terzi della durata complessiva delle sospensioni e avevano quindi in parte lavorato.

Sicché il ricorrente era stato “discriminato” rispetto agli quadri e aveva diritto al risarcimento del danno, da quantificarsi nella differenza tra quanto percepito come trattamento FIS e quanto gli sarebbe spettato per la normale retribuzione ove fosse stato correttamente impiegato. Non però per l’intero periodo di utilizzo Fis ma unicamente per quello minore di svolgimento degli eventi indicati nel ricorso e confermati dall’attività svolta da un collega quadro quale teste (nove mesi) ai quali avrebbe potuto partecipare e che non risultano specificamente contestati dalla società in sede di costituzione.

Non era quindi in discussione lo svolgimento di tali attività, né provate le dedotte impossibilità di svolgimento (di presenza o via streaming).

Di nessun pregio venivano poi ritenute le ulteriori eccezioni della società convenuta.

Non aveva rilevanza, infatti, che il ricorrente fosse l’unico quadro privo di uno specifico ruolo, poiché tale circostanza era addebitabile al datore di lavoro in relazione alla sua mancata utilizzazione negli anni precedenti, così come quella che il ricorrente non avesse specializzazione nel settore degli eventi programmati nel periodo di utilizzo Fis.

Il teste sentito sul punto aveva infatti confermato che lo stesso aveva svolto, nel periodo iniziale del rapporto, come dedotto nel ricorso, compiti ampi che ricomprendevano diversi settori di attività e che avrebbero consentito il suo proficuo utilizzo. Ancora, il fatto che il ricorrente risiedesse a Sesto S. Giovanni era del tutto ininfluente, essendo pacifico che lo stesso disponeva di uno specifico alloggio a Roma, che si era procurato proprio in ragione del rapporto intrapreso con la società convenuta.

Infine, per quanto concerne l’obbligo di rotazione il giudice, preso atto che la normativa speciale che regolava l’istituto del Fis non prevedeva tale modalità di utilizzo, osserva comunque che il «il potere di scelta dei lavoratori di porre in Cassa Integrazione Guadagni, riservato al datore di lavoro, non è incondizionato, ma è sottoposto al limite (di carattere interno derivante dalla necessaria sussistenza za del rapporto di coerenza fra le scelte effettuate e le finalità specifiche cui è preordinata la cassa e dall’obbligo di osservare i doveri di correttezza e buona fede imposti dagli artt. 1175 e 1375 cc, nonché all’ulteriore interesse (di carattere esterno) derivante dal divieto di discriminazione fra lavoratori per motivi sindacali, di età, di sesso, di invalidità o di presunta ridotta capacità lavorativa. Incombe pertanto l’onere di provare in nesso di causalità tra la sospensione del singolo lavoratore e le ragioni per le quali la legge gli riconosce il potere di sospensione (Cass. 8898/2003, (Cass. 2289/2021)» (sul punto v. anche PALLA, Determinazione dei criteri di scelta dei lavoratori da sospendere in cassa e conseguenze (risarcitorie) della loro genericità o violazione, in Labor, 7.2.2023).

Risultava invece dalla istruttoria esperita la mancata prova di un nesso di causalità tra la sospensione a zero ore del solo lavoratore in causa, formalmente giustificata per una sospensione dell’attività della Società che, invece, era risultata solo parziale.

Ne consegue che, per tutte le ragioni esposte, il mancato utilizzo del ricorrente si presentava non conforme a correttezza e il giudice liquida le differenze retributive richieste nella misura di un terzo degli importi indicati nel ricorso (€ 60.307,00), non contestati, ovvero per i nove mesi nei quali il ricorrente avrebbe potuto essere utilmente impiegato in azienda.

B) Viene parimenti accolta la domanda di risarcimento del danno alla professionalità e alla dignità del lavoratore per impedimento della sua attività per i periodi dal settembre al novembre 2016 («intervallo di tempo intercorso tra il primo ordine giudiziale di reintegrazione ex art. 18 S.L. e il successivo licenziamento per GMO») e dal luglio 2021 al luglio 2022 («intervallo di tempo trascorso tra il secondo ordine giudiziale di reintegrazione ex art. 18 S.L. e la successiva convocazione in servizio per il giorno 15.7.2022»).

Tali periodi di inattività risultano imputabili al datore di lavoro, atteso il dovere di quest’ultimo di adibire il lavoratore alle mansioni per le quali era stato assunto, con conseguente obbligo di risarcimento ex art. 1218 c.c., in assenza di prova dell’impossibilità, a lui non imputabile, della prestazione dovuta.

Le ragioni addotte dal datore nel caso di specie non erano di rilevanza. L’obbligo a cui era tenuto non poteva certamente venire meno per le dedotte trattative in corso nel periodo tra quello della sentenza della Corte di appello del luglio 2019 e l’inizio della pandemia, nel 2020, peraltro rimaste senza dimostrazione alcuna, non trattandosi di una circostanza che potesse esentare il datore dall’utilizzo del lavoratore nelle sue mansioni di competenza, tanto più che quest’ultimo era stato formalmente reintegrato e regolarmente retribuito sin dal settembre 2016, quando il precedente licenziamento del 2015 era  stato annullato e al quale aveva fatto seguito l’ulteriore recesso del novembre 2016, poi dichiarato nullo perché operato in frode alla legge.

Neanche dopo quest’ultima pronuncia, nonostante le ripetute diffide del lavoratore, il rapporto era stato di fatto ricostituito.

Neppure l’avvento della pandemia pareva idoneo a giustificare il comportamento del datore, per quanto si è già esposto.

Per quanto riguarda invece il danno liquidato a tale titolo, basato sul mancato parziale impiego del lavoratore (differenza tra trattamento Fis e retribuzione ordinaria) lo stesso non si sovrappone al risarcimento dovuto per la lesione della professionalità, disciplinata dall’art. 2113 c.c. (il giudice cita Cass. 20466/2020 e 11142/2008, dove si afferma il principio secondo cui, in caso di applicazione illegittima della cassa integrazione si verifica la violazione «del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell’immagine, della dignità e della professionalità del dipendente»).

Tanto vale, ovviamente, anche per i nove mesi dei quali si è trattato nel punto precedente, mentre il mancato utilizzo del lavoratore nell’oggettiva impossibilità dovuta all’evento pandemico, fa venir meno la lamentata inadempienza per il relativo periodo.

Il risarcimento quindi, limitato a complessivi 25 mesi («dall’8.9.2026 al 4.11.2016, dall’8.8.2019 al 23.3.20, per 9 mesi tra il 23.3.20 e il 31.1.2022 e 1.2.22 al 14722»), va valutato tenendo conto che si è trattato di totale inattività e non di semplice demansionamento.

In tal caso, come giudice ricorda, la Cassazione ha precisato (Cass. 6973/2012, Cass. 31186/2021, richiamando i suoi precedenti) che «il comportamento del datore che lascia in condizioni di inattività il dipendente non solo viola l’art. 2103 c.c., ma è allo stesso tempo lesivo del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell’immagine e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza; tale comportamento comporta una lesione di un bene immateriale per eccellenza, qual è la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo e tale lesione produce automaticamente un danno (non economico, ma comunque) rilevante sul piano patrimoniale (per la sua attinenza agli interessi personali del lavoratore), suscettibile di valutazione e risarcimento anche in via equitativa» (sul punto v., in generale, TAMBASCO, Sulla liquidazione del danno da discriminazione e dequalificazione, in Labor, 13.01.2022).

Sulla scorta di tali principi il Tribunale, considerato come incontestato (a) che il ricorrente sin dal ripristino del rapporto di lavoro e nel corso dei contratti a progetto risalenti al 2005, si è occupato di «organizzare eventi e fiere mediante la creazione di consorzi e newco», (b) che la forzata inattività, in un settore specifico e circoscritto come quello delle fiere, che si svolgono unicamente nelle grandi città, è di particolare impatto sulla professionalità (c), che l’età del lavoratore al momento del suo demansionamento, avvenuto all’età di 50 anni, quindi all’inizio della fase terminale della sua carriera, è maggiormente pregiudizievole e, infine, che (d) per il lungo periodo accertato, rileva il forte impatto del comportamento del datore «sulla dignità personale e sull’immagine del lavoratore, oltre che sulla sua professionalità, impoverita dalla protratta inattività e dalla conseguente perdita di contatti con gli operatori» dello specifico settore fieristico.

In questa particolare situazione ritiene quindi di liquidare equitativamente il danno spettante al lavoratore in causa nella misura del 40% delle retribuzioni, prendendo a riferimento, per l’intero periodo di demansionamento la retribuzione incontestata di € 7.866,00 per i 25 mesi sopra calcolati per un complessivo importo di € 196.650,00.

C) Venendo infine al licenziamento del 4 agosto 2022, comminato con riferimento all’assenza ingiustificata contestata con le lettera del 26.7.22 a fronte dell’invito a ripresentarsi al lavoro a Roma effettuato con comunicazione del 27.6.2022, nella sentenza si ricorda che il lavoratore, inattivo da quasi tre anni, dopo la reintegra disposta dalla Corte di appello di Roma, nonostante le ripetute richieste del lavoratore di dare esecuzione all’ordine di ricostituzione del rapporto, lo stesso non aveva adempiuto in ragione della mancata conoscenza dell’invito per i fatti personali che avevano riguardato la sua famiglia e per il successivo stato di malattia che lo aveva colpito. Tali fatti erano stati confermati dall’istruttoria esperita attraverso la testimonianza del fratello del ricorrente e dalla documentazione esibita nel corso del processo che confermava gli avvenimenti esposti, positività Covid compresa.

È pacifico che il ricorrente avesse ricevuto al suo domicilio la comunicazione di dover riprendere servizio il 15.7.2022, nonché la contestazione dell’assenza ingiustificata, pervenute la prima il 28.6.2022 e la seconda il 26.7.2022 al suo domicilio di Sesto S. Giovanni. Era però altrettanto pacifico che tali missive non erano state ricevute dallo stesso personalmente, avendo potuto prenderne piena conoscenza di entrambe solo il 29.7.2022, avvertito dal fratello, che le aveva reperite presso la portiera di nuova assunzione e all’ufficio postale.

Il giudice rileva che il Ccnl di settore prevede il licenziamento in caso di assenza ingiustificata protratta per più di tre giorni. La norma, osserva il Tribunale ha quale presupposto la consapevolezza di dovere prendere servizio e, dunque, la coscienza di sottrarsi ad un obbligo impostogli dal contratto, il che comporta «una negligenza grave perché sintomo di mancanza di affidabilità e disinteresse da parte del lavoratore medesimo per le sorti aziendali, sì da risultare irreparabilmente compromesso il rapporto di fiducia».

Ciò non di meno, ritiene in sostanza il giudice che non si sia trattato nella specie di condotta intenzionale del lavoratore di sottrarsi ai propri obblighi, ma di una negligenza dello stesso che si è allontanato dalla propria resistenza senza provvedere ad accertarsi delle eventuali comunicazioni del datore di lavoro (l’interessato non si era avveduto dell’avviso postale della seconda lettera neppure nel corso di un fugace rientro a Sesto S. Giovanni avvenuto il 4 luglio).

Tali considerazioni portano i fatti descritti (che il giudice ritiene documentalmente provati o confermati dall’istruttoria orale, che viene analiticamente esaminata e illustrata) al di fuori della fattispecie prevista dal Ccnl che, come accennato, presuppone il dolo del lavoratore consistente nella consapevolezza di disattendere le esigenze del datore di lavoro a cui è legato dal vincolo contrattuale di corretta collaborazione ai fini del buon andamento aziendale, posizionandosi in un’area di negligenza che, a differenza della fattispecie contrattuale invocata dal datore di lavoro, non pare tale, né sotto il profilo oggettivo che sotto quello soggettivo, idonea a rompere il rapporto di fiducia.

Né infirmano tale complessiva valutazione i due aspetti dedotti dalla difesa aziendale e consistenti, uno, nella mancanza di un obbligo del datore, sostenuta dal lavoratore, di avvertirlo con altri mezzi (telefonicamente o  con mail), un volta verificata la sua mancata presentazione al 15 luglio 2022 (obbligo ritenuto giuridicamente insussistente) e, due, nel fatto che il lavoratore aveva depositato in causa una certificazione medica «non attendibile» nella misura in cui attestava, in data 18.7.2022, una inidoneità a riprendere servizio lavorativo (laddove era lo stesso lavoratore che affermava di avere avuto conoscenza dell’invito della società convenuta solo a fine luglio).

Sempre il Ccnl, poi, dispone che il legittimo impedimento debba essere comunicato al datore di lavoro per iscritto (anche a mezzo mail) entro 48 ore al fine di poter disporre i relativi controlli. Nella specie, aveva osservato il datore di lavoro, l’avviso alla Società, rispetto al momento nel quale il lavoratore affermava di avere avuto conoscenza degli inviti a riprendere servizio e della contestazione, risalendo al 29 luglio, avrebbe dovuto essere giustificato entro il successivo 31 luglio 2022, mentre invece il lavoratore solo il 1° agosto, ripresentatosi in azienda dopo l’accertata denegativizzazione dal Covid, ha di fatto comunicato l’impedimento al datore.

Anche questa circostanza non pare rilevante nella vicenda, considerato che il termine indicato scadeva di domenica e, dunque, il lavoratore ha ritenuto corretto comunicare la circostanza il giorno successivo di persona, consegnando la relativa documentazione giustificativa.

Inoltre, il fatto non era specificamente oggetto della contestazione ricevuta al domicilio del ricorrente, come documentalmente accertato, il 26 luglio, così come non risultava contestata la circostanza che il lavoratore avesse lasciato il proprio domicilio nel luglio 2022 per motivi personali, poiché il ccnl pone l’obbligo al prestatore di comunicare il cambio di domicilio e non l’assenza da quello abituale dove, infatti, le comunicazioni aziendali risultavano regolarmente ricevute.

A ciò si aggiunga che i fatti di causa vanno calati nel contesto complessivo della vicenda, che aveva visto il lavoratore in causa licenziato per tre volte e ogni volta per motivi insussistenti in fatto e per di più caratterizzati da motivi del tutto ritorsivi e discriminatori. Tali poi, in particolare, si erano presentati anche quelli relativi al voluto demansionamento operato dal datore per più anni.

Più in particolare, poi, la protratta volontà del datore di non utilizzare il ricorrente nell’attività aziendale aveva concorso nella convinzione del ricorrente, che più volte aveva senza esito richiesto la ripresa del rapporto, dell’improbabilità che il datore lo convocasse al lavoro in prossimità delle ferie estive nel corso delle quali, in effetti, non è ragionevolmente prevedibile lo svolgimento di eventi fieristici.

Si aggiunga infine che la interruzione delle trattative delle quali lo stesso datore aveva dato atto essersi svolte in precedenza aveva concorso certamente al “calo di attenzione” del lavoratore nella convinzione della improbabilità di «un possibile mutamento dell’atteggiamento aziendale sino a qual momento contrario al suo rientro in servizio».

Il ricorrente, comunque, si era affrettato a presentarsi al lavoro con la giustificazione di parte del ritardo della messa a disposizione che confermano ulteriormente un comportamento certamente negligente, ma non tale da giustificare la rottura del rapporto di lavoro operata.

Considerazione rafforzata, infine, dal comportamento del datore stesso che nei primi giorni di agosto aveva inizialmente accolto le giustificazioni del lavoratore prospettandogli l’inserimento in specifiche attività della fiera, attivando il suo account aziendale e di posta elettronica e invitandolo a farsi visitare dal medico del datore di lavoro, circostanze confermative dell’iniziale volontà di ripresa del rapporto (e, di conseguenza, di positiva valutazione delle giustificazioni).

3. Le conseguenze dell’illegittimità del licenziamento

Così ricostruita la complessa vicenda fattuale, il giudice ritiene quindi ingiustificato il licenziamento, «poiché il fatto materiale contestato risulta, nei limiti anzidetti, sussistente ma non idoneo, perché sproporzionato, a legittimare il licenziamento».

Attesa la domanda di nullità del recesso, si fa però carico di verificare se ricorre il motivo illecito che il lavoratore deduce per sostenere l’applicabilità della tutela reintegratoria apprestata dall’art.18, commi 1 e 2, Stat. Lav., come modificato dall’art. 1, comma 42, legge n. 92/2012 e tanto perché la Cassazione (si citano le pronunce 30429/2028 e 9468/2019) ha chiarito che «ai fini della nullità del licenziamento per motivo illecito ex art. 1345 c.c., il carattere determinante del motivo, anche non necessariamente unico, può restare escluso dall’esistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo oggettivo solo ove questi risultino non solo allegati dal datore di lavoro, ma anche comprovati e, quindi, tali da poter da soli sorreggere il licenziamento, malgrado il concorrente motivo illecito» (su cui AIELLO, La Suprema Corte conferma l’«efficacia determinativa esclusiva» dell’intento ritorsivo datoriale a tutela del lavoratore licenziato per motivo illecito, in Labor, 8.4.2024).

Ripercorre pertanto l’iter della vicenda: i susseguenti licenziamenti, tutti annullati, il rifiuto di ricostituire in concreto il rapporto e lo stato di inattività cui è stato costretto il lavoratore e ritiene che «che l’effettivo determinante motivo del licenziamento intimato al ricorrente sia stato quello di punirlo per non essersi arreso alla volontà della società di estrometterlo dal contesto lavorativo».

Dichiara quindi la nullità del licenziamento con condanna al pagamento di tutte le retribuzioni maturate dal licenziamento sino alla rintegra, oltre a quelle del luglio 2022.

Le somme richieste a titolo di competenze di fine rapporto, ottenute con un decreto ingiuntivo non costituivano una duplicazione delle domande, riguardando titoli diversi non oggetto del giudizio.

4. Conclusioni

La decisione in commento, particolarmente motivata e in modo approfondito, è pienamente condivisibile sotto il profilo del risarcimento del danno, sia per il mancato utilizzo nel periodo di Fis che per mancata ottemperanza agli ordini di reintegra nel posto di lavoro.

Lo stesso può dirsi anche con riferimento alla ritenuta nullità del recesso, ancorché alcuni comportamenti del lavoratore appannino le ottime ragioni valorizzate dal giudice a giustificazione di condotte che, formalmente e astrattamente valutate, potrebbero portare ad un giudizio non positivo su atteggiamenti del lavoratore sicuramente da valutarsi come inadempienze, tanto più che lo stesso rimaneva inattivo, ma comunque retribuito regolarmente dal datore (partecipato pubblico, peraltro, lo si dice incidenter tantum).

È certo, comunque, che lo sciagurato comportamento del datore di lavoro abbia indubitabilmente pesato sulla bilancia del giudizio, facendo optare il giudice per la tutela piena e non per quella attenuata (per un caso non dissimile, si veda POSO, In fatto e in diritto. Tutto quello che c’è da sapere sul licenziamento (ingiustificato e) ritorsivo, in una sentenza-trattato, con dovizia (anche troppa) di particolari e citazioni, del Tribunale di Trento, in Labor, 23.3.2023).

Sergio Galleano, avvocato in Milano e Roma

Visualizza il documento: Trib. Roma, 10 aprile 2024, n. 4272

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