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Tanto tuonò che piovve: l’amministrazione giudiziaria di aziende per agevolazione colposa del reato di sfruttamento di manodopera

18 Maggio 2024|

L’amministrazione giudiziaria trova originaria disciplina nell’art. 24 del d. l. n. 306/1992, convertito dalla l. n. 356/1992, approvata subito dopo la strage di Capaci. Dopo tale tragico evento, sono stati introdotti numerosi istituti diretti a contrastare più efficacemente la criminalità mafiosa e, più in generale, qualsiasi altra attività delittuosa avente scopo di lucro.

Veniva così introdotto un inedito strumento di intervento preventivo su attività economiche, anche lecite, che non si presentavano nella disponibilità nemmeno indiretta degli indiziati di mafia, ma che potevano offrire – comunque – un contributo agevolatore in favore degli stessi.

In presenza di “sufficienti elementi” per ritenere che l’esercizio di determinate attività economiche fosse sottoposto alle condizioni di intimidazione di tipo mafioso o potesse  comunque agevolare l’attività di soggetti indiziati di mafia ovvero di persone sottoposte a procedimento penale per gravi delitti (629, 630, 648-bis e 648-ter c.p.), il Tribunale, mediante la misura di prevenzione dell’amministrazione giudiziaria, poteva disporre “la sospensione temporanea dall’amministrazione dei beni” nominando un amministratore che avrebbe avuto la direzione dell’attività aziendale al fine di ricondurla, poi, nell’ambito della legalità.

Nel tempo l’istituto dell’amministrazione giudiziaria è confluito nell’art. 34 del D. lgs. n. 159/2011, come sostituito dalla Legge 161/2017, e i delitti che ne consentono l’applicazione sono stati incrementati, fino a ricomprendere il reato di “intermediazione illecita e sfruttamento di manodopera” ex art. 603 bis c.p.

Qualora, difatti, sussistano sufficienti indizi per ritenere che il libero esercizio di determinate attività economiche, comprese quelle di carattere imprenditoriale, sia direttamente o indirettamente connesso all’agevolazione di attività di persone sottoposte a procedimento penale per il reato di cui all’art. 603-bis c.p., il Tribunale competente può disporre, nei confronti dei soggetti agevolatori, l’applicazione dell’amministrazione giudiziaria delle aziende o dei beni utilizzati o utilizzabili, direttamente o indirettamente, al fine di contrastare, mediante la predetta misura di prevenzione, condotte illecite nel mercato del lavoro.

Nella vicenda in esame il Tribunale di Milano – Sezione Autonoma Misure di Prevenzione – ha riconosciuto, con decreto del 3 aprile 2024, i presupposti applicativi dell’amministrazione giudiziaria ex art. 34 D. lgs. 159/2011, richiesta dalla Procura meneghina, nei confronti di una nota casa di moda che ha agevolato colposamente, mediante l’omesso controllo della propria filiera produttiva, soggetti ritenuti responsabili del reato di intermediazione illecita e sfruttamento di manodopera ex art. 603 bis c.p.

In particolare, le indagini hanno disvelato un complesso meccanismo di esternalizzazione della produzione consistente nell’affidamento da parte della casa di moda, mediante contratti di appalto, dell’intera produzione a società appaltatrici che a loro volta affidavano la produzione di borse e pelletteria a ditte terze, nel caso di specie ad opifici cinesi.

La società appaltatrice disponeva, invero, solo formalmente dell’adeguata capacità produttiva, avendo di fatto una capacità imprenditoriale calibrata esclusivamente sulla creazione del prototipo e dei campionari e non – viceversa – sulla produzione dell’intera linea.

Pertanto, la società appaltatrice, al fine ridurre i costi e competere sul mercato, prediligeva, come soluzione più economica, esternalizzare le commesse ad altre ditte, nella fattispecie gli opifici cinesi, ritenute responsabili, tuttavia, di reiterate condotte di sfruttamento di lavoratori in stato di bisogno e di necessità.

I conduttori di fatto dei laboratori cinesi reclutavano, difatti, connazionali clandestini con difficoltà di emancipazione nel territorio italiano e ricevevano – solitamente – istruzioni direttamente dalla società appaltatrice.

La Procura, nella richiesta al Tribunale, ha evidenziato come il modus operandi descritto, adottato sempre più dai grandi marchi e non unicamente dalla casa di moda in questione, nascondeva e nasconde, invero, complesse strutture di appalto in cui la generalizzata carenza nei modelli organizzativi ex D. lgs. 231/01 e di sistemi di internal audit adeguati giustifica i presupposti applicativi dell’art. 34 del D. Lgs. 159/2011, come modificato dalla Legge 161/2017, atteso che tali lacune organizzative hanno agevolato colposamente, mediante omesso controllo da parte della casa di moda sulle società fornitrici, soggetti raggiunti da consistenti elementi probatori in ordine al delitto di sfruttamento di manodopera ex art. 603 bis c.p.

Ciò che emerge dall’attività investigativa è, difatti, un’articolata realtà in cui la casa moda diviene attrice di una politica di impresa gravemente deficitaria sotto il profilo del controllo discendendo, dallo stesso, un c.d. decoupling organizzativo (letteralmente “disaccoppiamento”) in forza del quale, in parallelo alla struttura formale dell’organizzazione volta al rispetto delle regole istituzionali, si affianca un’altra struttura informale volta a seguire le regole dell’efficienza e del business, in aperta violazione dei diritti dei lavoratori.

Difatti, gli opifici cinesi, cui veniva affidato il confezionamento di borse e di articoli di pelletteria dalla società appaltatrice, operavano sistematicamente in netta violazione della normativa a tutela dei lavoratori in modo tale da ottenere un abbattimento dei costi ed un perfezionamento del risultato e, di conseguenza, del guadagno.

Pertanto, alla luce dei sopralluoghi esperiti presso gli opifici, la Procura lombarda ha ritenuto correttamente integrato il reato di intermediazione e sfruttamento di manodopera in ragione della sussistenza di concordanti e specifici indici di sfruttamento posti dal legislatore al centro della condotta tipica di cui all’art. 603 bis c.p.

Nell’interpretazione fornita dalla Pubblica Accusa a tali spie di sfruttamento è stato di fatto assegnato un ruolo sostanziale e tipizzante, attribuendovi essenziale rilevanza nella perimetrazione del fatto costitutivo del reato.

Difatti, dagli accertamenti svolti, è emersa la generale tendenza, da parte dei predetti opifici, alla violazione dei diritti inviolabili dei lavoratori consistita nelle violazioni di norme in materia di igiene e sicurezza sui luoghi di lavoro, nella ripetuta sottoposizione dei lavoratori a condizioni alloggiative degradanti, nella difformità degli orari di lavoro rispetto a quelli contrattualmente previsti, nella reiterata retribuzione oraria nettamente inferiore a quella prevista dai CCNL artigiano – tessili, nell’evasione delle imposte dirette relative al costo dipendenti (contributi, assicurazioni infortuni, Irpef, addizionali comunali e regionali, ecc..) nonché nell’installazione di un impianto di videosorveglianza in assenza dell’autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro o di accordo sindacale.

Oltre al sopralluogo esperito presso gli opifici, veniva effettuato ulteriore sopralluogo presso la sede operativa della società appaltatrice da cui emergeva, confermando il ragionamento probatorio della Procura, che la predetta società non era fornita di un reparto di produzione e che – di conseguenza – la produzione di borse e prodotti veniva completamente esternalizzata a sub fornitori, ovvero gli opifici cinesi ove erano poste in essere le condotte intrinsecamente lesive dei diritti lavoratori. Dall’accertamento compiuto presso la sede della società appaltatrice è altresì emerso, acuendo gli elementi probatori circa il colposo omesso controllo sulla filiera produttiva, che la casa di moda, società appaltante, aveva compiuto un unico audit presso la società appaltatrice da cui si evinceva, ictu oculi, la mancanza dell’unico requisito necessario ad ottemperare le obbligazioni contrattuali commerciali sottoscritte ovvero la mancanza di un reparto di produzione nella società appaltatrice da cui è derivato, evidentemente, l’affidamento della produzione a società terze.

La Procura, in ragione dell’emersione di condotte di sfruttamento e di approfittamento, ha chiesto pertanto al Tribunale di disporre nei confronti della nota casa di moda, società appaltante, l’amministrazione giudiziaria dei beni ex art. 34 del d. lgs. 159/2011 limitatamente ai rapporti con le società fornitrici.

È fuor di dubbio, difatti, che la società cui è stata applicata la misura di prevenzione non abbia mai effettivamente controllato la catena produttiva verificando la reale capacità imprenditoriale delle società con le quali stipulare i contratti di fornitura e le concrete modalità di produzione dalle stesse adottate. Difatti, la casa di moda è rimasta inerte dinanzi alla piena conoscenza della esternalizzazione della produzione da parte delle società fornitrici ed ha – al contempo – omesso di assumere iniziative come la regolare verifica della filiera dei sub-appalti o di autorizzazione alla concessione degli stessi, sino alla eventuale rescissione dei legami commerciali, con ciò realizzandosi, quantomeno sul piano di rimprovero colposo determinato dall’inerzia della società, la condotta agevolatrice richiesta dalla fattispecie ex art. 34 del D. lgs. 159/2011 (e successive modifiche) per l’applicazione della misura di prevenzione dell’amministrazione giudiziaria.

L’inedito strumento dell’amministrazione giudiziaria, in ragione della sua funzione di misura preventiva, dovrà pertanto non unicamente intervenire sui rapporti con le imprese fornitrici della casa di moda, in modo da evitare che la filiera produttiva si articoli attraverso appalti e sub appalti con realtà imprenditoriali che adottino sistematicamente condotte di sfruttamento dei lavoratori ex art. 603 bis c.p., ma dovrà contrastare, soprattutto, politiche di impresa più ampie caratterizzate, sovente, da condotte di radicata devianza nel mercato del lavoro.

Silvia Maglione, avvocato in Milano

Visualizza il documento: Trib. Milano, sez. aut. misure prevenzione, decreto 3 aprile 2024

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