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Sull’annosa querelle in tema di saggio degli interessi: tra obbligazioni pecuniarie e rischio derivante dal deprezzamento monetario

12 Giugno 2024|

Le Sezioni Unite Civili, con sentenza n. 12449, depositata il 7 maggio 2024 (procedimento R.G. n. 16260/2023) si sono pronunciate su una questione oggetto di rinvio pregiudiziale ex art. 363-bis c.p.c. sollevato dal Tribunale di Milano, Sez. III Civ. con ordinanza 25 luglio 2023 (v. anche il decreto di ammissibilità pronunciato dalla Prima Presidente il 18 settembre 2023 e la requisitoria della Procura Generale  del 24 febbraio 2024, qui pubblicati per completezza di riferimenti).

La querelle è volta a determinare la corretta interpretazione della norma di cui all’art. 1284, 4° co. c.c., sia nelle sue relazioni con la disciplina speciale contenuta nell’art. 429, 3° co. c.p.c., sia sul piano della sua riferibilità, o meno, alle sole obbligazioni pecuniarie fondate su un titolo contrattuale.

In tal senso, si veda Sicchiero, Limiti di applicabilità del quarto comma dell’art. 1284 c.c.: una lettura non condivisibile, in Ricerche giuridiche, 2019, vol. 8, n. 1, 152 ss., il quale per questa via giunge ad ampliare l’ambito applicativo dell’art. 1284, comma 4°, cod. civ., anche ai rapporti di fonte non contrattuale; Scarselli, Il nuovo art. 96, 3° comma c.p.c.: consigli per l’uso, in Il nuovo articolo 96, 3° comma c.p.c.: consigli per l’uso, in Foro it., 2010,I, 2237. Vedi, anche, Luiso, Un errore ed un autogol; brevi riflessioni a caldo su Cass. 7 maggio 2024, n. 12449, in Judicium, www.judicium.it, 9 maggio 2024, per un primo commento assai critico alla pronuncia in esame.

Si è statuito che, se il titolo esecutivo giudiziale – nella sua portata precettiva individuata sulla base del dispositivo e della motivazione – dispone il pagamento di ‘interessi legali’, senza alcuna specificazione e in mancanza di uno specifico accertamento del giudice della cognizione sulla spettanza di interessi, la misura degli interessi maturati dopo la domanda corrisponde al saggio previsto dall’art. 1284, comma 1, c.c.

Ciò si verificherebbe, stante il divieto per il giudice dell’esecuzione di integrare il titolo (Calamandrei, Processo e giustizia (prolusione al Congresso internazionale di diritto processuale civile, svoltosi a Firenze nel 1950), in Opere giuridiche, I, Morano Editore, 1965, 577; Cavallaro, Il valore del lavoro. La disciplina dei crediti retributivi tra rivalutazione monetaria, interessi legali e interessi “punitivi”, in Accademia, www.accademiaassociazionecivilisti.it, fasc. n. 4). E vale per il periodo successivo alla proposizione della domanda giudiziale, secondo il saggio previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali (ex art. 1284, comma 4, c.c.).

Occorre, per comprendere la rilevanza sistematica della questione, premettere brevemente taluni elementi ricostruttivi in fatto.

Una Società Fiduciaria per Azioni propose innanzi al Tribunale di Milano opposizione al precetto, notificato sulla base di sentenza emessa dal medesimo Tribunale, per il pagamento della somma di euro 116.819,15, oltre agli interessi maturandi sulla sorte capitale; si denunciava, in particolare, l’erroneo calcolo degli interessi di mora dal momento in cui era stata proposta la domanda giudiziale, nonostante il titolo esecutivo giudiziale non recasse la condanna al pagamento degli stessi con la decorrenza indicata (né vi era stata domanda in tal senso) ed il credito riconosciuto dal titolo giudiziale escludesse l’applicazione dell’art. 1284, comma 4, cod. civ., trattandosi di credito risarcitorio ai sensi dell’art. 2049 cod. civ.

La parte ricorrente aggiunse che il giudice dell’esecuzione non poteva integrare il titolo esecutivo giudiziale della previsione mancante circa gli interessi.

Nel corso di un giudizio di opposizione a precetto, il Tribunale effettua un rinvio pregiudiziale degli atti ai sensi dell’art. 363-bis c.p.c. per la risoluzione della seguente questione di diritto: se in tema di esecuzione forzata – anche solo minacciata – fondata su titolo esecutivo giudiziale, ove il giudice della cognizione abbia omesso di indicare la specie degli interessi al cui pagamento ha condannato il debitore, limitandosi alla loro generica qualificazione in termini di “interessi legali” o “di legge” ed eventualmente indicandone la decorrenza da data anteriore alla proposizione della domanda, si debbano ritenere liquidati soltanto gli interessi di cui all’art. 1284 primo comma c.c. o – a partire dalla data di proposizione della domanda – possano ritenersi liquidati quelli di cui al quarto comma del predetto articolo.

Si veda, in proposito, Dani, L’ambito applicativo del nuovo art. 1284 c.c., in Le Corti fiorentine. Atti dalla giornata di Studi del 22 novembre 2019 “Le Corti Fiorentine: dialogo tra giurisprudenza e dottrina – Anno V, II, 2020, 144 s.; vedasi anche Capponi, L’art. 1284, comma 4, c.c. e l’esecuzione forzata, in Judicium, www.judicium.it, 24 gennaio 2023. L’A. giudica incomprensibili le ragioni per cui il Collegio abbia devitalizzato il potenziale applicativo di una norma pensata per limitare l’abuso del processo e indurre il debitore all’adempimento; e, altresì, reputa sorprendente che sia proprio la Cassazione, una delle principali vittime dell’accesso alla giustizia come strumento per ritardare l’adempimento delle obbligazioni, a difendere un’interpretazione restrittiva della norma, in conflitto aperto con la sua ratio giustificatrice).

Il giudice della nomofilachia, in altri termini, è stato chiamato a decidere se la mera previsione degli ‘interessi legali’ nella pronuncia di condanna da parte del giudice della cognizione, possa essere interpretata, per la parte di interessi decorrenti dopo il momento della proposizione della domanda giudiziale, nei termini del saggio di interessi previsto dal comma quarto dell’art. 1284 c.c., oppure se, per l’assenza di specificazioni nella decisione, il saggio degli interessi debba restare limitato a quello previsto dal primo comma della medesima disposizione.

Di particolare interesse dogmatico è l’ordinanza di rinvio del Tribunale di Milano  che ha avuto il pregio di elaborare una sintetica ricostruzione degli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali sul punto.

In primo luogo, secondo un primo indirizzo ermeneutico, si è ritenuto che, stante la portata generale dell’art. 1284 c.c., rubricato “saggio degli interessi”, una volta che il giudice di merito abbia condannato al pagamento di “interessi legali”, il relativo tasso possa individuarsi anche in fase esecutiva in base a elementi univoci; in tale prospettiva, si è ipotizzato così che l’espressione “interessi legali” operi un rinvio mobile:

–  ai diversi saggi d’interesse previsti nei diversi commi dell’unico articolo 1284 c.c.:

– al tasso di cui al primo comma dalla decorrenza prevista in sentenza alla proposizione della domanda;

– al tasso di cui al quarto comma per il periodo successivo.

Ciò si verificherebbe, atteso che il predetto comma prevede “se le parti non ne hanno determinato la misura, dal momento in cui è proposta domanda giudiziale il saggio degli interessi legali è pari a quello previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”(Pasquino, Termini di pagamento e computo degli interessi, in La nuova disciplina dei ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, a cura di A.M. Benedetti – Pagliantini, Giappichelli, 2013, 73).

Potrebbe, in altre parole, assumersi che l’individuazione di quale comma dell’art. 1284 c.c. sia applicabile alla fattispecie sia possibile anche in sede esecutiva; ciò avverrebbe indipendentemente da un’espressa previsione – anche implicita – da parte del Giudice che ha formato il titolo.

Si precisa che, in concreto, potrebbe trattarsi di una conseguenza che la legge ricollega alla fattispecie in maniera automatica, secondo un meccanismo simile a quello già sperimentato in relazione alla debenza di interessi legali anche in assenza di previsione in sentenza o in relazione al rimborso dell’IVA sulle spese legali versata al difensore dalla parte vittoriosa, cui la stessa “ha diritto, senza bisogno di specifica richiesta o di apposita pronuncia del giudice” (cfr. Oriani, Il principio di effettività della tutela giurisdizionale, Esi, 2008; Pagni, La giurisdizione tra effettività ed efficienza, cit., 401 ss.; A. Proto Pisani, Il principio di effettività nel processo civile italiano, in Giusto proc. civ., 2014, 825 ss.).

In sede esecutiva (o di opposizione esecutiva, condividendo il relativo giudice gli stessi margini di apprezzamento del titolo esecutivo del giudice dell’esecuzione), il titolo esecutivo di natura giudiziale deve essere oggetto di mera interpretazione, non potendosi effettuare in relazione a quanto ivi indicato alcuna valutazione di merito: “nel giudizio di opposizione all’esecuzione, la sentenza posta alla base della promossa esecuzione costituisce giudicato esterno, rispetto al quale il giudice della opposizione può compiere solo una attività interpretativa, volta ad individuarne l’esatto contenuto e la portata precettiva, sulla base del dispositivo e della motivazione, con esclusione di ogni riferimento ad elementi esterni, non avendo alcuna possibilità di integrare una pronuncia eventualmente carente o dubbia facendo riferimento a norme di diritto o ad un determinato orientamento giurisprudenziale” (Pardolesi – Sassani, Il decollo del tasso di interesse: processo e castigo, in Foro it., 2015, 65).

Secondo i giudici, infatti, vi è la “distinzione, propria della tradizione del nostro ordinamento processuale, tra il piano della cognizione e quello dell’esecuzione … di cui … rimane tuttora espressione il fatto che i poteri cognitivi riconosciuti dal codice di rito al giudice dell’esecuzione siano, comunque, funzionali all’espletamento dell’esecuzione stessa” (Vettori, Il diritto ad un rimedio effettivo nel diritto privato europeo, in Pers. merc., 2017, 19 ss.; Zoppini, L’effettività invece del processo, in Riv. dir. proc., 2019, 677).

Può aggiungersi, in tale prospettiva, che l’esatto contenuto della sentenza non va individuato alla stregua del solo dispositivo, ma integrando lo stesso con la motivazione, nella parte in cui questa riveli l’effettiva volontà del giudice, con la conseguenza che, nel caso di contrasto, è per l’appunto alla motivazione che va data prevalenza.

A tal riguardo, secondo i giudici, quando il contenuto del titolo si presenti obiettivamente incerto o ambiguo, è consentita anche l’interpretazione extra-testuale del provvedimento azionato sulla base degli elementi ritualmente acquisiti nel processo in cui esso si è formato, purché le relative questioni siano state trattate nel corso dello stesso e possano intendersi come ivi univocamente definite, essendo mancata, piuttosto, la concreta estrinsecazione della soluzione come operata nel dispositivo o nel corpo del provvedimento.

Resta invece esclusa la possibilità di integrare un provvedimento carente o dubbio facendo riferimento a regole di diritto o ad indirizzi giurisprudenziali, poiché in tal modo il giudice dell’esecuzione (o quello dell’opposizione all’esecuzione) finirebbe per sovrapporre una propria valutazione della fattispecie a quella del giudice di merito.

Tuttavia, si rileva, sul piano applicativo, che accade nella pratica che il giudice del merito disponga il pagamento di “interessi legali” e nella motivazione non si rinvengano riferimenti utili a chiarire come abbia inteso determinarne il tasso, se: – solo ai sensi del primo comma dell’art. 1284 c.c. o – per il periodo successivo alla proposizione della domanda, anche ai sensi del quarto comma, che recita: “Se le parti non ne hanno determinato la misura, dal momento in cui è proposta domanda giudiziale il saggio degli interessi legali è pari a quello previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”, con applicazione, quindi, di diversi tassi di interesse a seconda del periodo (prima o dopo la proposizione della domanda).

In questi casi, si pone la delicata questione se, per riconoscere interessi al tasso di cui al quarto comma sia necessaria un’indicazione, anche implicita, in tal senso nel titolo esecutivo o se, viceversa, ove dal titolo sia dato evincere con certezza la presenza di tutti i presupposti per la sua applicazione, sia possibile applicarlo automaticamente anche in assenza di determinazioni, esplicite o implicite, da parte del giudice del merito, dovendosi intendere l’espressione “interessi legali” come un rinvio ai diversi tassi di cui ai diversi commi dell’art. 1284 c.c. (Vedasi Romano – Fuschino, L’aumento del saggio di interesse moratorio e i suoi effetti sul tasso di litigiosità, in Foro it.,  I, 2015, 70 ss.).

Vi è, tuttavia, un altro indirizzo secondo cui la formula dei commi 4 e 5 dell’art. 1284 è chiara nel predeterminare la misura degli interessi legali, nel caso in cui il credito venga riconosciuto da una sentenza a seguito di un giudizio anche arbitrale, senza necessità di apposita precisazione del loro saggio in sentenza.

In relazione ad impugnazioni che denunciavano l’omesso riconoscimento, da parte del giudice del merito, degli interessi legali di cui al quarto comma, si è risposto che il provvedimento doveva ritenersi integrato da quest’ultima previsione.

La Corte di Cassazione ha avuto modo di affermare che il giudice del merito deve indicare che specie di interessi legali sta comminando, non potendosi limitare alla generica qualificazione in termini di “interesse legale” o “di legge”, con la conseguenza che qualora non vi abbia provveduto, si devono intendere dovuti solamente gli intessi di cui all’art. 1284 c.c., essendo quest’ultima norma di portata generale rispetto alla quale le altre varie ipotesi di interessi previste dalla legge hanno natura speciale.

Difatti, l’applicazione di una qualsiasi delle varie ipotesi di interessi legali diversa da quelli di cui all’art. 1284 c.c. presuppone l’accertamento nel merito degli elementi costitutivi della relativa fattispecie speciale: un simile accertamento attiene al merito della decisione e non può essere risolto in sede esecutiva.

Le Sezioni Unite nella pronuncia in commento traggono la conclusione che il giudice dell’esecuzione, al cospetto del titolo esecutivo giudiziale, non ha poteri di cognizione, ma deve limitarsi a dare attuazione al comando contenuto nel titolo esecutivo medesimo, mediante un’attività che ha, sul punto, natura rigorosamente esecutiva. Si tratta pertanto di attività di interpretazione (lato sensu, perché svolta in sede esecutiva), e non di integrazione, in quanto volta ad estrarre il contenuto precettivo già incluso nel titolo esecutivo ed in funzione non di risoluzione di controversia, e cioè cognitiva in senso stretto, ma di esecuzione del comando disposto dal titolo. Se dunque il richiamo agli ‘interessi legali’ nel titolo esecutivo giudiziale possa avere – dopo la proposizione della domanda – la valenza del saggio previsto per i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, è questione che attiene a ciò che deve intendersi già incluso nel titolo esecutivo, senza che il suo riconoscimento da parte del giudice dell’esecuzione possa avere una valenza integrativa derivante da cognizione.

Si tratta di un potere in definitiva, che non è di accertamento (cognizione) in senso proprio, ma di precisazione dell’oggetto del titolo esecutivo, allo scopo di dare attuazione al relativo comando.

La Suprema Corte nella ricostruzione del proprio iter argomentativo prende le mosse dalla Cass. Sez. Un. 6 aprile 2023, n. 9479: tale pronuncia ha il pregio di enucleare in maniera definita la distinzione fra il piano della cognizione e quello dell’esecuzione comporta che i poteri cognitivi riconosciuti dal codice di rito al giudice dell’esecuzione sono, comunque, funzionali all’espletamento dell’esecuzione stessa. La questione posta attiene, così, rigorosamente al profilo di identificazione del contenuto del titolo esecutivo giudiziale in funzione della sua esecuzione.

Le Sezioni Unite, nel proprio percorso argomentativo, partono infatti dalla premessa che il quarto comma dell’art. 1284 c.c., relativo ai c.d. ‘super interessi’, non integra un mero effetto legale della fattispecie costitutiva degli interessi, ma rinvia ad una fattispecie, i cui elementi sono in parte integrati da ulteriori presupposti, suscettibili di autonoma valutazione giudiziale rispetto al mero apprezzamento della spettanza degli interessi nella misura legale.

In sostanza, oggetto di accertamento, a seguito della introduzione della controversia con la deduzione in giudizio di un determinato rapporto giuridico, sarà anche la ricorrenza dei presupposti applicativi dell’art. 1284, comma 4, che consente l’applicazione del saggio degli interessi legali previsto dalla legislazione speciale per i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali.

Le Sezioni Unite analizzano, dunque, la varietà dei presupposti applicativi, previsti dal citato articolo, degli interessi maggiorati oggetto dell’attività di accertamento del giudice della cognizione, fra cui:

–  a) la natura della fonte dell’obbligazione, che, in base all’art. 1173 cod. civ., può essere la più varia (obbligazioni contrattuali o derivanti da responsabilità extracontrattuale; crediti di lavoro, con la specifica disciplina di cui all’art. 429, comma 3, c.c.; crediti in materia di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo di cui alla l. n. 89/2001; crediti per gli alimenti e derivanti da obblighi familiari);

– b) se vi sia una valida ed efficace determinazione contrattuale della misura degli interessi, prevista dall’art. 1284, comma 4, quale circostanza la cui esistenza impedisce la produzione degli interessi nella misura prevista dalla legge speciale;

– c) l’identificazione della domanda giudiziale, quale momento rilevante per la decorrenza degli interessi legali in questione (può infatti essere controverso se l’epoca della domanda giudiziale debba risalire ad una domanda cautelare, come, ad esempio, l’istanza di sequestro conservativo di cui all’art. 671 c.p.c.; o se la decorrenza vada applicata sin dal momento della domanda di mediazione ante processo.

Per la Corte di Cassazione, quindi, è necessario svolgere l’accertamento, propriamente giurisdizionale, di corrispondenza della fattispecie concreta a quella astratta di spettanza degli interessi maggiorati: tale giudizio sussuntivo, risolutivo sul punto della controversia, e che è suscettibile di diventare cosa giudicata, ricade nell’attività di cognizione, che fonda il titolo esecutivo giudiziale e che deve essere necessariamente svolta ai fini del provvedimento da emettere sulla domanda (Pardolesi, Debiti di valuta, “danno da svalutazione” (e il “disgorgement” che non t’aspetti), in Foro it., 2008, I, 2794; Consolo, Un d.l. processuale in bianco e nerofumo sullo equivoco della «degiurisdizionalizzazione», in Corr. giur., 2014, 1182, il quale pure criticamente rileva come il creditore potrebbe «lucrare non poco sul trascorrere del tempo nel perdurante (ma vantaggioso, allora) inadempimento del debitore»).

In conclusione, il titolo esecutivo giudiziale, nel dispositivo e/o nella motivazione, deve contenere l’accertamento di spettanza degli interessi legali maggiorati nella misura indicata: dal punto di vista del giudice dell’esecuzione, la mera previsione, nel dispositivo e/o nella motivazione del titolo esecutivo, di condanna al pagamento degli ‘interessi legali’, è inidonea ad integrare tale accertamento, in ragione dell’autonomia relativa della fattispecie produttiva degli interessi maggiorati, rispetto alla ordinaria produzione degli interessi legali.

Se il titolo esecutivo nulla dice al riguardo, quindi, il creditore non potrà pertanto conseguire in sede di esecuzione forzata il pagamento degli interessi maggiorati, stante il divieto per il giudice dell’esecuzione di integrare il titolo, ma potrà affidarsi al solo rimedio impugnatorio.

Sotto il profilo ricostruttivo e per una completa panoramica, occorre evidenziare che, a distanza di pochi giorni dalla sentenza n. 12449/2024, le Sezioni Unite si sono pronunciate a seguito del rinvio pregiudiziale ex art. 363-bis c.p.c. disposto dal Tribunale di Parma (ordinanza 3 agosto 2023) per la risoluzione della questione di diritto riguardante l’applicazione della disciplina prevista dall’art. 1284, comma 4, c.c. «ai crediti di lavoro e alle obbligazioni derivanti da responsabilità extracontrattuale».

Nello specifico, due sono le questioni pregiudiziali sottoposte all’esame della Corte: se gli interessi legali, contemplati dall’art. 429, comma 3, c.p.c., spettino, dal momento della proposizione della domanda giudiziale, sulla base del saggio previsto dall’art. 1284, comma 4, c.c., e se tale disposizione trovi applicazione anche nel caso di obbligazione derivante da responsabilità extracontrattuale. Si tratta di questioni poste sulla base di titolo esecutivo giudiziale, che reca l’indicazione «oltre interessi e rivalutazione dal dovuto al saldo effettivo».

I quesiti interpretativi posti dal rinvio pregiudiziale attengono, dunque, ai poteri di interpretazione/integrazione del titolo esecutivo giudiziale e, in particolare, all’art. 1284, comma 4, c.c., secondo cui “Se le parti non ne hanno determinato la misura, dal momento in cui è proposta domanda giudiziale il saggio degli interessi legali è pari a quello previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali”.

Con riguardo a questa seconda questione oggetto di rinvio pregiudiziale, la Prima Presidente, con suo decreto 18 settembre 2023 (procedimento R.G. n. 16885/2023) pur dando atto della sussistenza di profili di problematicità, collegati al fatto che la questione oggetto di rinvio pregiudiziale ha dato vita ad un contrasto giurisprudenziale anche in sede di legittimità, ha ritenuto di non poter escludere, prima facie, l’ammissibilità del quesito in considerazione della ratio del nuovo istituto poiché l’esistenza di un attuale ed effettivo contrasto pone in luce l’instabilità e la mancanza di un intervento nomofilattico chiarificatore in funzione dell’interpretazione uniforme delle norme.

Ne è scaturita la pronuncia delle Sezioni Unite  13 maggio 2024, n. 12974 – procedimento R.G. n. 16885/2023.

Sul punto, per una completa ricostruzione della questione, di particolare rilievo metodologico è la precedente sentenza delle Sezioni Unite n. 12449/2024: si è statuito come sia venuta meno la condizione di ammissibilità del rinvio costituita dalla necessità della questione di diritto per la definizione anche parziale del giudizio (art. 363 bis, comma 1, n. 1, c.p.c.), condizione che deve concorrere, con le altre condizioni previste, ai fini dell’ammissibilità del rinvio.

Le Sezioni Unite, nel proprio percorso argomentativo, partono infatti dalla premessa che il quarto comma dell’art. 1284 C.c., relativo ai c.d. “super interessi”, non integra un mero effetto legale della fattispecie costitutiva degli interessi, ma rinvia ad una fattispecie, i cui elementi sono in parte integrati da ulteriori presupposti, suscettibili di autonoma valutazione giudiziale rispetto al mero apprezzamento della spettanza degli interessi nella misura legale.

In particolare, «ove il giudice disponga il pagamento degli “interessi legali” senza alcuna specificazione, deve intendersi che la misura degli interessi, decorrenti dopo la proposizione della domanda giudiziale, corrisponde al saggio previsto dall’art. 1284, comma 1, c.c., se manca nel titolo esecutivo giudiziale, anche sulla base di quanto risultante dalla sola motivazione, lo specifico accertamento della spettanza degli interessi, per il periodo successivo alla proposizione della domanda, secondo il saggio previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali».

Ciò posto si ritiene che il rinvio pregiudiziale in parte qua non sia ammissibile perché la questione è stata già risolta dalla Corte di Cassazione, sebbene con esiti diversi, contrapponendosi ad un orientamento che limita l’applicabilità dell’art. 1284, comma 4, c.c. alle sole obbligazioni contrattuali un più recente arresto secondo il quale il saggio di interessi di cui all’art. 1284, comma 4, c.c., non è applicabile alle sole obbligazioni di fonte contrattuale, ma anche a quelle nascenti da fatto illecito o da altro fatto o atto idoneo a produrle, valendo la clausola di salvezza iniziale (che rimette alle parti la possibilità di determinarne la misura) ad escludere il carattere imperativo e inderogabile della disposizione e non già a delimitarne il campo d’applicazione (v., in proposito, la Requisitoria della Procura Generale del 24 febbraio 2024 – procedimento R.G. n. 16885/2023-anche questa, per completezza di riferimenti, qui pubblicata).

Tale contrasto esclude che possa affermarsi che la questione non sia stata affrontata dalla Corte di cassazione, ma esclude anche che non sia stata “risolta” (cfr. art. 363 bis, comma 1, n. 1, c.p.c.) dal giudice di legittimità.

Il tema è, dunque, ancora una volta, quello della “integrazione” del titolo esecutivo, poiché l’integrazione extra-testuale del titolo esecutivo non è consentita tutte le volte in cui è univoca e certa la struttura del comando e quando gli ulteriori eventuali elementi avrebbero potuto (e dovuto) essere sottoposti nel giudizio in cui quel titolo è stato reso.

Secondo il costante orientamento della Corte in sede esecutiva o di opposizione esecutiva il titolo di natura giudiziale deve essere oggetto di mera interpretazione, non potendosi effettuare in relazione a quanto ivi indicato alcuna valutazione di merito (Giorgianni, L’inadempimento. Corso di diritto civile, Milano, 1975, 160).

Nel giudizio di opposizione all’esecuzione, la sentenza posta alla base della promossa esecuzione, invero, costituisce giudicato esterno, rispetto al quale il giudice della opposizione può compiere solo una attività interpretativa, volta ad individuarne l’esatto contenuto e la portata precettiva, innanzitutto sulla base del dispositivo e della motivazione.

La Suprema Corte, infatti, ribadisce che vi è la “distinzione, propria della tradizione del nostro ordinamento processuale, tra il piano della cognizione e quello dell’esecuzione di cui rimane tuttora espressione il fatto che i poteri cognitivi riconosciuti dal codice di rito al giudice dell’esecuzione siano, comunque, funzionali all’espletamento dell’esecuzione stessa”.

Non sono mancate, invero, pronunce che hanno previsto che, entro determinati limiti, il titolo esecutivo possa essere anche integrato in virtù di elementi extra-testuali, ma sempre che essi siano espressamente richiamati e costituiscano espressione di dati pacificamente acquisiti al processo (ad esempio la busta paga del lavoratore cui il titolo si richiama o la consulenza tecnica).

Facendo applicazione di tali principi la Suprema Corte, pronunciandosi sempre in relazione a fattispecie alle quali non poteva essere applicato ratione temporis l’art. 1284 comma 4 c.c., ha ritenuto che:

− se il titolo esecutivo si limita a disporre che gli interessi dovuti sono quelli previsti dalla legge, deve presumersi che quel titolo abbia fatto riferimento agli interessi di cui all’art. 1284, comma 1, c.c. (Cass. n. 23846 del 2023);

− gli interessi sono dovuti nella misura prevista dal d.lgs. n. 231 del 2002 solo quando tale ultima previsione di legge sia stata espressamente richiamata dal titolo esecutivo;

− ove gli interessi siano stati fissati dal titolo esecutivo di formazione giudiziale richiamando una speciale disposizione di legge essi debbono essere necessariamente computati facendo esclusivo riferimento al testo normativo cui il titolo ha fatto rinvio;

− il giudice dell’opposizione all’esecuzione non può procedere ad una integrazione e/o correzione del titolo esecutivo al fine di applicare interessi legali diversi da quelli previsti dal citato art. 1284, comma 1, c.c.; ciò in quanto tutti gli interessi diversi da quelli previsti dall’art. 1284 comma 1 c.c. non maturano automaticamente, ma occorre che il giudice di merito accerti gli elementi costitutivi della relativa fattispecie speciale;

− il creditore che non abbia ottenuto la esplicitazione di una condanna al pagamento di interessi legali (previsti dal d.lgs. n. 231 del 2002 o da altra legge speciale), diversi da quelli contemplati dall’art. 1284 comma 1 c.c., deve impugnare la sentenza in quanto quest’ultima non è suscettibile di integrazione, interpretazione o correzione in sede esecutiva.

Riassumendo, quando l’art. 1284, comma 4, c.c. non era ancora vigente, gli interessi legali genericamente indicati dal titolo esecutivo giudiziale di condanna non potevano che essere computati ai sensi dell’art. 1284 comma 1 c.c.

Il titolo esecutivo non può, infatti, essere interpretato e/o integrato oltre il suo tenore letterale. Né a tal fine può soccorrere il richiamo alla domanda giudiziale o le difese svolte dalle parti nel corso del giudizio atteso che l’esecuzione forzata è funzionale alla attuazione di diritti certi.

Entrato in vigore il comma 4 dell’art. 1284 c.c., due sono le soluzioni prospettabili.

Se si ritiene che l’art. 1284, comma 4, c.c. configuri una disposizione di carattere generale che regola la misura degli interessi per così dire processuali che maturano sul capitale a far data dalla domanda giudiziale indipendentemente dal fatto che l’obbligazione presupposta abbia natura contrattuale o extracontrattuale, è legittimo sostenere che, dinanzi ad una condanna al pagamento di interessi legali, tali interessi possano essere computati, a decorrere dall’instaurazione del giudizio e sino al soddisfo al tasso maggiorato previsto per le transazioni commerciali.

In sostanza, la natura generale della disposizione cui si è fatto cenno consentirebbe di presumere che la condanna al pagamento degli interessi legali sia riferibile all’art. 1284, comma 1, c.c. sino alla domanda giudiziale e all’art. 1284, comma 4, c.c. dalla domanda giudiziale al momento del pagamento.

E ciò in quanto si tratterebbe di una conseguenza che la legge ricollega alla fattispecie in maniera automatica, secondo un meccanismo simile a quello già sperimentato in relazione alla debenza di interessi legali anche in assenza di previsione in sentenza o in relazione al rimborso dell’IVA sulle spese legali versata al difensore dalla parte vittoriosa, cui la stessa “ha diritto, senza bisogno di specifica richiesta o di apposita pronuncia del giudice”.

Per la fattispecie di interesse nel ricorso sub iudice, ciò, ovviamente, presuppone la risoluzione della questione a monte relativa all’applicabilità dell’art. 1284, comma 4, c.c. anche ai crediti di lavoro.

Se si ritiene, invece, che l’art. 1284, comma 4, c.c. abbia un ambito applicativo limitato, è inevitabile affermare che non vi siano le condizioni per presumere che gli interessi legali a far data dalla domanda giudiziale siano quelli dell’art. 1284, comma 4, c.c.

Nello stesso senso, si sono espressi, tra gli altri, Pardolesi, Sassani, Il decollo del tasso d’interesse: processo e castigo, in Foro it., 2015, V, 69; Bivona, Gli interessi moratori legali su “crediti litigiosi” tra efficienza del processo ed effettività della tutela giurisdizionale, in NGCC, I, 2023, 1095. Che la pena privata abbia modernamente una funzione di dissuasione dall’inadempimento è stato argomentato da Moscati, Nota minima la tua pena e colpa nel diritto privato, 2016, I, 547-570.

La tesi preferibile è quella secondo cui l’art. 1284, comma 4, c.c. configuri una disposizione di sistema applicabile ad ogni controversia).

Nella medesima prospettiva si pone la successiva pronuncia delle Sezioni Unite 13 maggio 2024, n. 12974.

Le Sezioni Unite civili, in particolare, pronunciandosi su questioni oggetto di rinvio pregiudiziale ex art. 363-bis c.p.c., hanno rilevato che, secondo la sentenza n. 12449 del 7 maggio 2024, in assenza di specificazioni, gli interessi legali decorrenti dopo la proposizione della domanda giudiziale devono essere calcolati secondo il saggio previsto dall’art. 1284, comma 1, c.c.

Alla luce di tale principio, per le Sezioni Unite Civili del 13 maggio 2024 la risoluzione della questione di diritto posta non ha rilievo per la definizione del giudizio.

In tale ottica, notevole rilevanza assumono alcuni percorsi ricostruttivi operati nella Requisitoria del Procura Generale sopra citata.

Essa ripercorre, efficacemente e succintamente, il dibattito annoso sulla questione.

Si precisa che, in base a un primo e più tradizionale orientamento, dovrebbe escludersi l’applicabilità degli interessi moratori ai crediti di lavoro in virtù della disciplina speciale, prevista dall’art. 429, comma 3, c.p.c., secondo cui il giudice che pronuncia condanna per crediti di lavoro deve sempre applicare, oltre agli interessi legali, anche la rivalutazione monetaria, così proteggendo il lavoratore dagli effetti pregiudizievoli del deprezzamento. L’orientamento restrittivo si riconduce ad una tesi della giurisprudenza maturata prima dell’entrata in vigore del comma 4 dell’art. 1284 c.c. e sostiene che i crediti di lavoro godono di “regime giuridico speciale rispetto a quello generale, delle obbligazioni pecuniarie”.

Secondo, invece, un più recente orientamento, l’articolo 429, comma 3, c.p.c., operando un rinvio all’integrale disciplina dell’art. 1284 c.c., sia quindi agli interessi legali (comma 1) che agli interessi moratori (comma 4), consentirebbe di applicare questi ultimi anche ai crediti di lavoro.

Volendo ricapitolare, dunque, il significato delle pronunce che abbiamo brevemente ripercorso, è possibile affermare che il meccanismo dell’art. 429 comma 3° c.p.c. possiede, nell’opinione della giurisprudenza costituzionale, una triplice funzione: anzitutto, di conservazione del valore della prestazione dovuta al lavoratore, allo scopo di ripristinarne il potere di acquisto in termini di beni reali; in secondo luogo, di recupero dell’arricchimento illegittimamente conseguito dal datore di lavoro mediante l’inadempimento; in terzo luogo, di “remora” all’inadempimento stesso. Tutte e tre, dice la Corte, concorrono a con figurare una forma speciale di tutela, che è costituzionalmente necessitata e si riflette sulla stessa natura dell’obbligazione retributiva (Ascarelli, I debiti di valore, in Id., Studi giuridici sulla moneta, Milano, 1952, 82-83).

Si deve ricordare che le stesse Sezioni Unite della Corte di cassazione, chiamate a dirimere il contrasto nuovamente insorto nella Sezione Lavoro sulle modalità di calcolo della rivalutazione monetaria e degli interessi, pur non mancando di rilevare che il debito di valore costituisce “categoria non legale, comunemente accettata per decenni nella pratica del foro ma ultimamente da qualcuno contestata”, hanno deciso di comporlo affermando che gli interessi debbono calcolarsi sulla somma via via rivalutata: che è, com’è noto (e come le stesse Sezioni Unite non hanno mancato di ricordare), la modalità tipica con cui si procede al risarcimento del danno nelle obbligazioni da illecito extracontrattuale, che dei debiti di valore costituiscono esempio paradigmatico (Franceschelli, Sull’immediata efficacia delle norme in tema di rivalutazione dei crediti di lavoro nel nuovo processo, in RGL, 1973, I, 501).

La questione, ai nostri fini, potrebbe essere tutt’altro che irrilevante.

È noto, infatti, che nei debiti di valore gli interessi legali non costituiscono oggetto di un autonomo diritto del creditore, come invece nei debiti di valuta, ma svolgono piuttosto una funzione “compensativa”. Essa tende a reintegrare il patrimonio del danneggiato per com’era all’epoca del prodursi del danno, di modo che la loro attribuzione costituisce, unitamente alla rivalutazione monetaria, una mera tecnica liquidatoria del valore perduto a causa dell’illecito; e proprio per ciò, è stato recentemente affermato, in una vicenda in cui si invocava l’applicazione dell’art. 1284 comma 4° c.c. a far data dalla proposizione della domanda giudiziale di risarcimento dei danni da illecito extracontrattuale, che, a tal fine, è necessario dedurre e dimostrare che il maggior saggio degli interessi di cui al 4° comma dell’art. 1284 sia più adeguato all’entità effettiva del danno subito: gli interessi “compensativi”.

Infatti, essi hanno fondamento e natura differenti da quelli moratori regolati dall’art. 1224 c.c., giacché valgono a reintegrare il pregiudizio derivante dalla mancata disponibilità della somma equivalente al danno subito nel tempo intercorso tra l’evento lesivo e la liquidazione e la loro corresponsione non è in alcun modo automatica o presunta iuris et de iure. A tal uopo, occorre, invece, che il danneggiato provi, anche in via presuntiva, il mancato guadagno derivatogli dal ritardato pagamento (Si veda al riguardo Graziani, La teoria del circuito monetario, Milano, 1996, 12-13).

Giuseppe Maria Marsico, dottorando di ricerca in diritto privato e dell’economia e funzionario giuridico-economico-finanziario

Visualizza i documenti: Cass., sez. un., 7 maggio 2024, n. 12449 (r.g.n. 16260/2023); Cass., sez. un., 13 maggio 2024, n.12974 (r.g.n. 16885/2023); Cass., Prima Presidente, decreto 18 settembre 2023 (r.g.n. 16260/2023); Cass., Prima Presidente, decreto 18 settembre 2023 (r.g.n. 16885/2023); Requisitoria P.G. 24 febbraio 2024 (r.g.n. 12260/2023); Requisitoria P.G. 24 febbraio 2024 (r.g.n. 16885/2023); Trib. Milano, sez. IIIª, ordinanza rinvio pregiudiziale, 25 luglio 2023; Trib.Parma, sez. Iª, ordinanza rinvio pregiudiziale, 3 agosto 2023

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