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Sul risarcimento del danno alla salute derivante da sangue infetto: tra allocazione dell’onus probandi, posizione di garanzia e responsabilità civile del datore di lavoro

20 Maggio 2024|

La Corte di Cassazione, con la pronuncia in commento (ordinanza 15 aprile 2024, n. 10043), ha statuito il principio per cui, con riferimento a una controversia relativa ai danni patiti da un lavoratore in conseguenza di un’infezione contratta per causa di servizio, ove sia stata accertata in sede di equo indennizzo la derivazione causale della patologia dall’ambiente di lavoro, e tale accertamento venga ritenuto utilizzabile dal giudice di merito, opera a favore del lavoratore l’inversione dell’onere della prova prevista dall’art 2087 c.c., di modo che grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi dell’evento dannoso (Montanari Vergallo-Frati, La tutela risarcitoria dei pazienti danneggiati da emotrasfusioni infette, in Riv. it. med. leg., 2009, 39).

La Corte d’appello di Catanzaro ha respinto l’appello proposto avverso la sentenza del Tribunale di Cosenza la quale, a propria volta, aveva disatteso la sua domanda risarcitoria.

L’appellante, infatti, aveva agito nei confronti della Regione Calabria – quale successore dell’ASL 2 di Castrovillari – addebitando al datore di lavoro il danno da contagio dal virus dell’epatite C che il ricorrente assumeva di aver contratto mentre prestava servizio alle dipendenze, appunto, dell’ASL n. 2 di Castrovillari. Aveva infatti dedotto il ricorrente che, in data 7 maggio 1994, si era accidentalmente punto al tallone destro – entrando in contatto con una siringa che, insieme ad altro materiale sanitario, era stata lasciata a terra in un sacchetto di plastica, lungo un corridoio dell’ospedale dove egli prestava servizio – in tal modo contraendo la malattia la cui riconducibilità a causa di servizio era stata peraltro riconosciuta dalla Commissione medica e dal Comitato di Verifica.

Il giudice di prime cure aveva disatteso la domanda, ritenendo che il ricorrente avesse azionato il titolo extracontrattuale e concludendo che la domanda era da ritenersi prescritta ai sensi dell’art. 2947 c.c. (Pucella, La causalità « incerta », Torino, 2007, 151 ss.; Rizzo, La causalità civile, Torino, 2022, 13 ss.; Piraino, Il nesso di causalità, in Europa dir. priv., 2018, 399 ss.; Taruffo, La prova del nesso causale, in Riv. crit. dir. priv., 2006, 101 ss.).

Proposto appello da parte del dipendente, la Corte d’appello di Catanzaro ha disatteso il gravame, seppur con diversa motivazione.

La Corte territoriale, infatti, ha:

− qualificato la domanda proposta dall’appellante in termini di responsabilità contrattuale, conseguentemente ritenendo infondata l’eccezione di prescrizione quinquennale dichiarata dal tribunale;

− ritenuto la domanda infondata, non essendo stata fornita adeguata prova del fatto materiale da cui, secondo la ricostruzione attorea, sarebbe derivato il danno (Capecchi, Le sezioni unite penali sul nesso di causalità omissiva. Quali riflessi per la responsabilità civile del medico?, in Nuova giur. civ. comm., 2003 I, 257 ss.; Izzo, Storie di (stra)ordinaria causalità: rischio prevenibile ed accertamento della causalità giuridica in materia di responsabilità extracontrattuale, in Riv. crit. dir. priv., 2001, 49 ss.).

Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Catanzaro il dipendente ha presentato ricorso.

Il ricorrente si duole della violazione di legge con riferimento agli artt. 112,115,116, e 416 c.p.c. c.c., posto che la decisione impugnata:

– non abbia integralmente esaminato le prove documentali addotte a sostegno della domanda, operando una selezione e valutazione solo di alcuni di essi, ed escludendo immotivatamente la valutazione di altri;

– abbia omesso di rilevare che la riconducibilità dell’infortunio a causa di servizio costituiva circostanza non contestata da parte dell’odierna controricorrente;

– abbia in ogni caso omesso di procedere ad un ragionamento probabilistico e presuntivo sulla scorta degli elementi addotti dal medesimo ricorrente.

In particolare, secondo il dipendente, la Corte territoriale, pur riconoscendo l’omesso esame di alcuni documenti, avrebbe applicato un erroneo criterio in ordine alla loro decisività, interpretando tale requisito come “capacità del documento omesso di offrire la prova inconfutabile del fatto presupposto inesistente”, laddove, ai fini dell’accoglimento della revocazione, doveva ritenersi sufficiente la constatazione dell’omesso esame dei documenti.

Peraltro, la decisione impugnata non avrebbe integralmente valutato le prove documentali addotte a sostegno della domanda, omettendo di valorizzare la non contestazione dei documenti stessi da parte della controricorrente, ed avrebbe in ogni caso omesso di procedere ad un ragionamento probabilistico e presuntivo sulla scorta degli elementi addotti dal medesimo ricorrente.

L’ambito delle plurime doglianze formulate con il ricorso, infatti, secondo la Suprema Corte, deve essere depurato dai rilievi riferiti all’omessa valorizzazione di una condotta di non contestazione da parte dell’odierna controricorrente.

In relazione a detti rilievi, infatti, si deve richiamare, in primo luogo, il principio per cui spetta al giudice del merito apprezzare, nell’ambito del giudizio di fatto al medesimo riservato, l’esistenza ed il valore di una condotta di non contestazione dei fatti rilevanti, allegati dalla controparte, la quale, ex art. 115 c.p.c., produce l’effetto della relevatio ad onere probandi (Cass. Sez. 2 – Ordinanza n. 27490 del 28/10/2019; Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 3680 del 07/02/2019), in quanto tale apprezzamento esige l’interpretazione del contenuto e dell’ampiezza della domanda e delle deduzioni delle parti da ciò derivando che l’accertamento della sussistenza di una contestazione ovvero d’una non contestazione risulta sindacabile in cassazione solo per solo per difetto assoluto o apparenza di motivazione o per manifesta illogicità della stessa (Cass. Sez. 2 – Ordinanza n. 27490 del 28/10/2019; Cass. Sez. L, Sentenza n. 10182 del 03/05/2007).

In secondo luogo, secondo i giudici di legittimità, l’esame degli atti processuali consente di escludere che la Regione Calabria avesse omesso di contestare la riconducibilità dell’infortunio a causa di servizio, risultando per contro che tale riconducibilità era stata specificamente contestata.

Appare, secondo i giudici, fondata la censura con la quale il ricorrente viene a dolersi – in sostanza – di un inadeguato governo, da parte della Corte territoriale, del riparto degli oneri probatori connessi alla regola di cui all’art. 2087 c.c. (Su cui si v. Taruffo, La prova del nesso causale, in Riv. crit. dir. priv., 2006, 101 ss.; nonché Id., La prova scientifica nel processo civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2005, 1079 ss.; e Id., Considerazioni su scienza e processo civile, in Comandé-Ponzanelli (a cura di), Scienza e diritto nel prisma del diritto comparato, Torino, 2004, 485 ss.; Stella, A proposito di talune sentenze civili in tema di causalità, ibidem, 1159 ss.).

La Corte territoriale, invero, dopo aver operato previamente la qualificazione del titolo di responsabilità invocato dal ricorrente come responsabilità ex art. 2087 c.c., ha correttamente richiamato il principio generale, cristallizzato dalla Corte Suprema, per cui, non costituendo l’art. 2087 c.c. ipotesi di responsabilità oggettiva, grava comunque sul lavoratore, che tale titolo di responsabilità venga ad invocare, l’onere di allegare, sia gli indici della nocività dell’ambiente lavorativo cui è esposto – da individuarsi nei concreti fattori di rischio, circostanziati in ragione delle modalità della prestazione lavorativa -sia il nesso eziologico tra la violazione degli obblighi di prevenzione ed i danni subiti ha fatto seguire un giudizio di inidoneità del quadro probatorio fornito dal lavoratore a supporto della propria pretesa, avendo in particolare la Corte d’appello ritenuto radicalmente assente adeguata prova della dinamica dell’incidente all’esito del quale l’odierno ricorrente assumeva di avere contratto la propria patologia.

Tale drastica declinazione del principio generale, pur correttamente richiamato, non ha tuttavia tenuto conto, secondo i giudici di legittimità, dei principi enunciati da un granitico filone ermeneutico della Suprema Corte con riferimento alle specificità che caratterizzano l’attività istruttoria nel rito del lavoro (Pucella, Lesioni alla salute da uranio impoverito: le difficoltà causali, in Danno resp., 2012, 553 ss.; Mantelero, Uranio impoverito: i danni da esposizione e le responsabilità, ibidem, 543 ss.

La Suprema Corte prende le mosse dall’iter motivazionale di un filone ermeneutico granitico che ha reiteratamente chiarito che nel rito del lavoro, l’esercizio dei poteri istruttori del giudice – che può essere utilizzato a prescindere dalla maturazione di preclusioni probatorie in capo alle parti – vede quali presupposti la ricorrenza di una semipiena probatio e l’individuazione di quegli elementi che sono stati ricondotti alla categoria della “pista probatoria”. Si ha riguardo a quelle informazioni che emergono dal complessivo materiale probatorio, anche documentale, e che costituiscono fattore che non solo vale a superare una rigida applicazione delle già richiamate preclusioni istruttorie e degli stessi limiti all’attività istruttoria, ma anche giustifica – ed anzi rende doveroso – l’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio, oltre ad una valorizzazione complessiva e non parziale del materiale probatorio, sebbene anche solo indiziario (Castronovo, Responsabilità civile, Milano, 2018, 406).

Il pregio della ricostruzione operata dal consesso è ribadire come il medesimo principio, del resto, costituisca gemmazione e corollario di un principio più generale, anch’esso oggetto di reiterata enunciazione e riferito proprio alla verifica dell’effettiva sussistenza di uno scenario di assoluta mancanza di prova, quale quello evocato dalla decisione impugnata.

Sulla scorta di tale principio, nel rito del lavoro, la necessità di assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., nell’ambito del rispetto dei principi del giusto processo di cui all’art. 111, secondo comma, Cost. e in coerenza con l’art. 6 CEDU, comporta l’attribuzione di una maggiore rilevanza allo scopo del processo -costituito dalla tendente finalizzazione ad una decisione di merito – che non solo impone di discostarsi da interpretazioni suscettibili di ledere il diritto di difesa della parte o, comunque, risultino ispirate ad un eccessivo formalismo, tale da ostacolare il raggiungimento del suddetto scopo, ma conduce a considerare del tutto residuale l’ipotesi di “assoluta mancanza di prove”.

Tale necessità si traduce in una maggiore pregnanza del dovere del giudice di pronunciare nel merito della causa sulla base del materiale probatorio ritualmente acquisito con una valutazione, non limitata all’esame isolato dei singoli elementi, ma operata in via globale nel quadro di una indagine unitaria ed organica (Cass. Sez. L, Sentenza n. 18410 del 01/08/2013; Cass. Sez. L, Sentenza n. 6753 del 04/05/2012, per risalire a Cass. Sez. U, Sentenza n. 11353 del 17/06/2004).

Alla luce di tali principi, quindi, pur restando immutate le regole generali di distribuzione degli oneri probatori, la presenza di elementi idonei a costituire “piste probatorie” determina il potere-dovere del giudice di procedere – anche tramite i poteri ufficiosi che gli sono attribuiti dalla legge – sia agli opportuni approfondimenti sia ad una valutazione complessiva del quadro probatorio – sia quello iniziale sia quello risultante dagli approfondimenti medesimi – la quale può sfociare in un giudizio conclusivo di totale carenza probatoria solo qualora, all’esito di un vaglio complessivo dell’insieme degli elementi disponibili, risulti l’assoluta inconsistenza del contributo probatorio di questi ultimi.

I giudici di legittimità ribadiscono come la Corte territoriale abbia omesso di conformarsi ai numerosi precedenti giurisprudenziali che hanno reiteratamente evidenziato i potenziali riflessi che l’accertamento (positivo) svolto in sede di riconoscimento dell’equo indennizzo può avere sulla ripartizione degli oneri probatori nell’ambito della responsabilità ex art. 2087 c.c., evidenziando che tale accertamento, qualora venga ritenuto utilizzabile dal giudice di merito, determina a favore del lavoratore l’inversione dell’onere della prova prevista dall’art. 2087 c.c., di modo che grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi dell’evento dannoso (Cass. Sez. 3 – Ordinanza n. 20889 del 22/08/2018 e la più recente Cass. Sez. L, Sentenza n. 26512 del 2020), e ciò in quanto l’autonomia dei due istituti dell’equo indennizzo e del risarcimento del danno procurato da malattia professionale non esclude che si possa realizzare una vasta area di coincidenza del nesso causale della patologia, sia ai fini dell’equo indennizzo che della malattia (Cass. Sez. L, Sentenza n. 17017 del 02/08/2007).

Per l’interprete sembra di rilevante interesse dogmatico l’assunto operato dalla Corte di legittimità per cui non occorrerebbe operare alcuna inversione della regola dell’onere probatorio – la cui distribuzione rimane immutata: sarebbe necessario evitare un’applicazione del principio stesso acritica e grossolana, tale da esigere una (talvolta impossibile) prova piena e da negare pregiudizialmente qualunque attenzione ad elementi indiziari potenzialmente significativi e pregnanti – pur se necessitanti di più attenta valutazione ed illustrazione – in tal modo vulnerando le possibilità di tutela giurisdizionale dei diritti della parte, confliggendo con gli artt. 24 e 111 Cost. (Papoff, Cumulabilità del risarcimento da fatto illecito e dell’indennizzo assicurativo per polizza infortuni, in Ius, 8 maggio 2023; Ponzanelli, Polizza infortuni non mortali, non opera il defalco: Tribunale di Milano sentenza 11 aprile 2023 n. 2894, ibidem, 17 maggio 2023; Calussi, Polizza infortuni e danno aquiliano: ammissibilità del cumulo dell’indennizzo col risarcimento del danno a fronte della rinuncia contrattuale alla surroga, in GiustiziaCivile.com, 5 giugno 2023).

La Corte ha aderito ad un precedente orientamento giurisprudenziale di legittimità per cui, in tema di risarcimento del danno alla salute conseguente all’attività lavorativa, il nesso causale rilevante ai fini del riconoscimento dell’equo indennizzo per la causa di servizio è identico a quello da provare ai fini della condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno, quando si faccia riferimento alla medesima prestazione lavorativa e al medesimo evento dannoso, con la conseguenza che, una volta provato il predetto nesso causale, grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi dell’evento dannoso (Cass. Sez. L – Sentenza n. 24804 del 18/08/2023).

In altri termini, il Supremo Collegio ha osservato che, nel rito del lavoro, la necessità di assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., nell’ambito del rispetto dei principi del giusto processo di cui all’art. 111, comma 2, Cost. e in coerenza con l’art. 6 CEDU, comporta l’attribuzione di una maggiore rilevanza allo scopo del processo – costituito dalla tendente finalizzazione ad una decisione di merito – che non solo impone di discostarsi da interpretazioni suscettibili di ledere il diritto di difesa della parte o, comunque, risultino ispirate ad un eccessivo formalismo, tale da ostacolare il raggiungimento del suddetto scopo, ma conduce a considerare del tutto residuale l’ipotesi di “assoluta mancanza di prove”.

La Corte Suprema richiama nell’iter motivazionale, ancora una volta, un recente filone ermeneutico per cui, in tema di risarcimento del danno alla salute conseguente all’attività lavorativa, il nesso causale rilevante ai fini del riconoscimento dell’equo indennizzo per la causa di servizio è identico a quello da provare ai fini della condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno, quando si faccia riferimento alla medesima prestazione lavorativa e al medesimo evento dannoso, con la conseguenza che, una volta provato il predetto nesso causale, grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi dell’evento dannoso.

Il Supremo Consesso, cassando con rinvio la sentenza della Corte d’Appello competente,  ribadisce come i giudici di seconde cure abbiano omesso di conformarsi ai numerosi precedenti giurisprudenziali che hanno reiteratamente evidenziato i potenziali riflessi che l’accertamento (positivo) svolto in sede di riconoscimento dell’equo indennizzo può avere sulla ripartizione degli oneri probatori nell’ambito della responsabilità ex  art. 2087 c.c., evidenziando che tale accertamento, qualora venga ritenuto utilizzabile dal giudice di merito, determina a favore del lavoratore l’inversione dell’onere della prova prevista dall’art. 2087 c.c., di modo che grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi dell’evento dannoso e ciò in quanto l’autonomia dei due istituti dell’equo indennizzo e del risarcimento del danno procurato da malattia professionale non esclude che si possa realizzare una vasta area di coincidenza del nesso causale della patologia, sia ai fini dell’equo indennizzo che della malattia (Lamonica, Orientamenti della giurisprudenza in tema di danno da contagio post-trasfusionale, in Danno Resp., 469, 2006).

Giuseppe Maria Marsico, dottorando di ricerca in diritto privato e dell’economia e funzionario giuridico-economico-finanziario

Visualizza il documento: Cass., ordinanza 15 aprile 2024, n. 10043

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