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Sul rapporto tra processo penale e procedimento disciplinare nel pubblico impiego privatizzato

6 Agosto 2024|

Con la sentenza n. 20109 del 22 luglio 2024 la Corte di Cassazione pone la parola fine alla vicenda di un dipendente del Comune di Sanremo, che aveva avuto ampia risonanza mediatica (per il riepilogo dell’iter giudiziario sia consentito rimandare al commento alla pronuncia della Corte di Appello di Genova 28 ottobre 2023 n. 225, Busico, Assoluzione in sede penale e conseguenze sul procedimento disciplinare nel pubblico impiego privatizzato, in www.rivistalabor.it, 1° dicembre 2023; v.  per il caso analogo relativo ad altro dipendente, la sentenza 16 luglio 2024,n. 19514).

La Suprema Corte affronta alcune questioni in tema di interferenza tra processo penale e procedimento disciplinare nel pubblico impiego privatizzato, disciplinata dall’art.55-ter del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165.

In base a tale disposizione il procedimento disciplinare avente ad oggetto fatti penalmente rilevanti inizia, prosegue e si conclude anche in pendenza (e a prescindere dalla pendenza) del processo penale. La sospensione del procedimento disciplinare, che in passato costituiva la regola (art.117 del DPR 10 gennaio 1957, n. 3), è consentita solo per le infrazioni, per le quali è applicabile una sanzione superiore alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino a dieci giorni, nei casi di particolare complessità dell’accertamento del fatto addebitato e di insufficienza degli elementi per l’irrogazione della sanzione.

L’operatività della pregiudiziale penale non più come regola, ma come eccezione, pone il succedaneo problema del “peso” delle statuizioni penali, spesso intervenute dopo diversi anni, sui procedimenti disciplinari non sospesi e conclusi: i commi 2 e 3 del citato art.55-ter dettano dei doverosi meccanismi di raccordo tra il procedimento disciplinare già concluso e il processo penale, al fine di evitare contrasti tra decisioni concernenti la medesima condotta.

Nel contenzioso in esame interessa la previsione del comma 2 relativa al rapporto tra procedimento disciplinare non sospeso e concluso con l’irrogazione di una sanzione e successivo processo penale definito con sentenza irrevocabile di assoluzione, che riconosce che il fatto addebitato al dipendente non sussiste, o non costituisce illecito penale, o che il dipendente medesimo non lo ha commesso: in tale evenienza l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari, ad istanza di parte da proporsi entro il termine di decadenza di sei mesi dall’irrevocabilità della pronuncia penale, riapre il procedimento disciplinare per modificarne o confermarne l’atto conclusivo in relazione all’esito del giudizio penale.

Nella pronuncia in esame la Cassazione, come già in precedenti occasioni (Cass., 14 novembre 2018 n. 29376; Cass., 20 dicembre 2022 n. 37322, in ADL, 2023,789 con nota di Auriemma; Cass., 11 maggio 2023 n. 12842), ribadisce, anzitutto, che nelle ipotesi di raccordo di cui ai commi 2 e 3 dell’art.55-ter non si configura una violazione del generale principio del “ne bis in idem”, in quanto il procedimento disciplinare è unitario, seppur bifasico, con l’effetto pratico che a essere esercitato è sempre il medesimo potere: alla fine o resta confermata la prima sanzione, che diviene quella definitiva, oppure viene adottata la seconda sanzione, che rimuove ab initio la precedente e resta l’unica a regolare la condotta tenuta dal dipendente.

Il comma 4 dell’art.55-ter contiene una norma di chiusura, prevedendo che nel procedimento disciplinare ripreso o riaperto l’ufficio procedente applica le disposizioni dell’art.653, commi 1 e 1-bis del codice di procedura penale. Per quanto di interesse nel caso in esame, il comma 1 dispone che

la sentenza penale irrevocabile di assoluzione ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o non costituisce illecito penale ovvero che l’imputato non lo ha commesso.

La Cassazione evidenzia che la citata disposizione non deve essere letta in termini di grossolana equazione “assoluzione in sede penale = insussistenza dell’illecito disciplinare” per evidenti ragioni: 1) la formula assolutoria “perché il fatto non costituisce illecito penale” non vale a elidere la sussistenza delle condotte, le quali, pur se penalmente neutre, potrebbero avere, invece, rilevanza disciplinare; 2) la formula assolutoria “perché il fatto non sussiste” potrebbe non investire la totalità dei fatti oggetto della contestazione, conservando, quindi i fatti rimasti al di fuori del giudizio penale valenza disciplinare.

Nel contenzioso in esame la Corte di Appello di Genova aveva dato corretta applicazione dell’art.653, comma 1 del codice di procedura penale, in quanto i fatti oggetto del procedimento disciplinare erano identici a quelli sottoposti alla cognizione del giudice penale, che li aveva ritenuti insussistenti.

Luca Busico, coordinatore direzione del personale dell’Università di Pisa

Visualizza il documento: Cass., 22 luglio 2024, n. 20109

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