Ripetizione dell’indebito nel caso di pensione di invalidità erogata in assenza dei presupposti di legge
15 Marzo 2024|1. La disciplina dell’indebito in materia di rapporti previdenziali
L’art. 2033 c.c. è norma generale volta a gestire tutti i casi in cui si verifichi uno spostamento di denaro senza causa per un errore (relativamente inteso, nel senso che in questo caso non rileva la disciplina di cui all’art. 1428 c.c. e ss.) tale per cui il solvens effettua una prestazione non dovuta in favore dell’accipiens, con conseguente diritto all’azione di recupero (cosiddetto indebito civile). Detto altrimenti, l’azione di ripetizione dell’indebito presuppone l’inesistenza dell’obbligazione adempiuta, derivante da una assenza, originaria o sopravvenuta, del titolo negoziale sotteso alla pretesa creditoria. La disciplina della ripetizione dell’indebito ha portata generale e si applica a tutte le ipotesi di inesistenza del titolo di pagamento, qualunque ne sia la causa.
Tuttavia, il legislatore ha scelto di intervenire, in taluni casi specifici, con una disciplina differente, la quale assume – dunque – i connotati della specialità, come in materia previdenziale e assistenziale, in cui la scelta è stata quella di intervenire, attraverso delle “sanatorie”, a cautelare l’accipiens che abbia visto l’erogazione di somme non dovute da parte dell’INPS.
Si prenda, ad esempio, il caso di cui all’art. 80 R.G. 28 agosto 1924 n. 1422, in base al quale “le assegnazioni di pensione si considerano definitive quando, entro un anno dall’avviso datone all’interessato, non siano state respinte dalla Cassa nazionale; in tal caso, le successive rettifiche di eventuali errori, che non siano dovuti a dolo dell’interessato, non hanno effetto sui pagamenti già effettuati”.
Si guardi, poi, all’art. 52 L. 9 marzo 1989 n. 88, con particolare riferimento al comma 2, per il quale “Nel caso in cui, in conseguenza del provvedimento modificato, siano state riscosse rate di pensione risultanti non dovute, non si fa luogo a recupero delle somme corrisposte, salvo che l’indebita percezione sia dovuta a dolo dell’interessato. Il mancato recupero delle somme predette può essere addebitato al funzionario responsabile soltanto in caso di dolo o colpa grave”.
Ancora, si consideri il caso della “esenzione” ex art. 13 L. 30 dicembre 1991 n. 412, secondo cui “le assegnazioni di pensione si considerano definitive quando, entro un anno dall’avviso datone all’interessato, non siano state respinte dalla Cassa nazionale; in tal caso, le successive rettifiche di eventuali errori, che non siano dovuti a dolo dell’interessato, non hanno effetto sui pagamenti già effettuati”.
Dalla lettura delle norme testé enunciate è dunque evidente la scelta di fare salvi, in specifici casi, le erogazioni erroneamente poste in essere dall’istituto previdenziale, purché non sia ravvisabile un dolo dell’accipiens, ossia, qualora l’errore compiuto dall’INPS non sia stato volutamente causato dal percettore, al fine di ottenere una erogazione non dovuta di denaro a carico dello Stato.
Si tratta ora di comprendere se la disciplina eccezionale individuabile nelle norme sopra menzionate possa applicarsi al caso della pensione di invalidità, erogata indebitamente poiché risulta superato il limite reddituale imposto dall’art. 8 D.L. 12 settembre 1983 n 463 convertito, con modificazioni, nella L. 11 novembre 1983 n. 638 “Misure urgenti in materia previdenziale e sanitaria e per il contenimento della spesa pubblica, disposizioni per vari settori della pubblica amministrazione e proroga di taluni termini” (di qui in poi L. 683/1983).
Recita la norma: «La pensione di invalidità non è attribuita, e se attribuita ne resta sospesa la corresponsione, nel caso in cui l’assicurato e il pensionato, di età inferiore a quella prevista per il pensionamento di vecchiaia, siano percettori di reddito da lavoro dipendente […] superiore a tre volte l’ammontare del trattamento minimo del Fondo pensioni lavoratori dipendenti calcolato in misura pari a tredici volte l’importo mensile in vigore al 1° gennaio di ciascun anno. […]Per l’accertamento del reddito di cui al precedente comma, gli interessati debbono presentare all’Istituto nazionale della previdenza sociale, con le modalità da questo indicate, la dichiarazione di cui all’articolo 24 della legge 13 aprile 1977, n. 114.[…] Il recupero avviene anche in deroga ai limiti posti dalla normativa vigente».
Il quesito che si pone è dunque il seguente: se il pensionato che abbia percepito la pensione di invalidità pur avendo superato i limiti reddituali previsti dalla norma di settore possa ritenere le somme indebitamente ricevute da parte dell’INPS, a causa dell’errore da quest’ultimo compiuto.
2. I fatti di causa
Il caso affrontato dalla Cassazione nell’ordinanza in commento (7 febbraio 2024 n. 3551) attiene alla vicenda di un pensionato che aveva continuato a percepire i ratei relativi alla predetta prestazione, pur in assenza dei presupposti di legge atti a fondarne il diritto. In particolare, il ricorrente aveva omesso di dichiarare all’istituto di previdenza i propri redditi da lavoro autonomo.
Il tribunale aveva accolto la domanda del pensionato, atta ad accertare l’infondatezza della pretesa restitutoria avanzata dall’INPS.
La Corte d’Appello, in riforma, aveva accolto le doglianze dell’appellante, respingendo la domanda del privato il quale, dunque, proponeva ricorso dinanzi alla Corte di cassazione, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 8 L. 638 del 1983, dell’art. 52 L. 88/1989 e dell’art. 13 L. 412/1991, nonché – ex art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c. – l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio.
3. Sulla sussistenza del legittimo affidamento maturato dall’accipiens
Orbene, secondo il ricorrente, sussisterebbe un legittimo affidamento circa la spettanza della prestazione, per via del comportamento dell’INPS, che «non avrebbe richiesto la trasmissione della documentazione e neppure avrebbe sospeso l’erogazione della pensione di invalidità».
L’ancoraggio al diritto di trattenere le somme indebite troverebbe ancoraggio in due presupposti: la “consapevolezza” dell’Istituto di previdenza circa la reale situazione reddituale del ricorrente e l’“inerzia”, derivante dall’errore commesso dall’INPS.
L’argomento, tuttavia, non persuade i giudici, i quali ritengono come non sia possibile fondare il legittimo affidamento sul mancato assolvimento, da parte del ricorrente, ai precisi obblighi informativi di cui è gravato dalla legge nei confronti dell’Istituto (art. 8 L. 638/1983). Sussisteva, infatti, l’obbligo di provvedere alla trasmissione della dichiarazione dei redditi all’INPS, al fine di consentire – secondo il principio di leale collaborazione tra cittadini e pubblica amministrazione – una tempestiva ed esauriente verifica della sussistenza dei requisiti legali per l’ammissione alla prestazione richiesta.
Per questa via, la conseguente inerzia dell’INPS appare al giudicante del tutto scusabile, in considerazione dell’errore incolpevole, poiché generato dal mancato adempimento, da parte del privato, agli obblighi comunicativi. Il percorso argomentativo appare coerente anche in considerazione dei precedenti formanti giurisprudenziali, sia con riferimento all’applicazione della disciplina generale, sia con riguardo a quella specifica.
Da un lato, infatti, è stato evidenziato come, in caso di indebito oggettivo, non vi sia alcun affidamento da tutelare, in quanto l’accipiens non ha alcun diritto di conseguire, né dal solvens né da altri (come – invece – accade nell’indebito soggettivo) la prestazione ricevuta, sicché la sua buona o mala fede rileva solo ai fini della decorrenza degli interessi (Cass. Civ., sez. VI, 12 marzo 2019 n. 7066). Dall’altro, è stato affermato come, in caso di erroneo pagamento di prestazioni da parte dell’INPS ad un lavoratore non avente diritto, trova applicazione la disciplina secondo cui il diritto alla ripetizione delle somme di quanto indebitamente versato prescinde dall’accertamento della scusabilità o meno dell’errore che aveva dato luogo all’erronea corresponsione della prestazione (Cass. Civ., sez. lav., 17 novembre 2003 n. 17404).
La posizione appare granitica a partire dalle lontane Sezioni Unite del 1965, in un caso assai simile a quello qui in commento ove, però, a venire in rilievo era l’integrazione al trattamento al minimo non dovuta per mancanza dei presupposti di cui all’art. 6 co. 1 D.L. 463/1983 convertito dalla L. 638/1983, nel quale i giudici hanno affermato come la ripetizione dell’indebito prescindesse dalla sussistenza di un errore commesso dall’INPS nella fase di erogazione, in quanto detta ripetizione espressamente ammessa dalla legge stessa (Cass. Sez. Un. Civ. n. 95 del 1965).
4. Sulla rilevanza dell’errore dell’Istituto di previdenza nel caso di pensione di invalidità
Per questa via, il collegio ha ritenuto non applicabile, in caso di violazione di cui all’art. 8 L. 638/1983, la disciplina “sanante” che consente, nei casi di cui ai menzionati artt. 80 R.D. 1422/1924 e 52 L. 88/1989 e 13 L. 412/1991, di evitare che l’accipiens debba restituire l’importo percepito.
Ciò perché la deroga appena descritta, quando applicabile, è espressamente prevista dalla legge e, nel caso in esame, non v’è traccia di disposizioni similari per in caso di indebito versamento di ratei della pensione di invalidità, stante il superamento del limite di reddito stabilito dalla legge, peraltro, avendo concorso all’errore il comportamento omissivo del soggetto tenuto alla trasmissione della dichiarazione dei redditi. Per questa via, la Cassazione ha ritenuto applicabile – alla vicenda in oggetto – la disciplina di cui all’art. 10 R.D.L. n. 639 del 1939, che «ammette il recupero degli importi versati in eccedenza anche in deroga ai limiti posti dalla normativa vigente» (p. 3 dell’ordinanza).
Maria Rosaria Calamita, dottore di ricerca in scienze giuridiche e funzionario Ufficio Legale – Direzione Generale del Consiglio Nazionale delle ricerche
Visualizza il documento: Cass., ordinanza 7 febbraio 2024, n. 3551
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