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Prova relativa al demansionamento e risarcimento del danno

5 Maggio 2024|

Con l’ordinanza 8 marzo 2024 n. 6275 la Corte di Cassazione si sofferma sull’ormai consolidato principio circa la prova dell’avvenuto demansionamento che è onere del dipendente che si ritiene leso fornire in giudizio, con conseguente diritto ad ottenere il risarcimento del danno.

In primis è necessario ricordare come il demansionamento consista nell’adibizione del lavoratore a mansioni inferiori rispetto a quelle per le quali il lavoratore è stato assunto o rispetto alle mansioni precedentemente svolte all’interno dell’organizzazione datoriale.

Il lavoratore, però, potrebbe anche essere adibito a mansioni superiori: si parla di ius variandi per indicare la possibilità del datore di lavoro di variare, appunto, le mansioni attribuite al lavoratore, al fine di consentirgli le scelte migliori rispetto all’organizzazione imprenditoriale. Tale possibilità è, però, espressamente normata all’art. 2103 c.c., anche al fine di evitare abusi e perimetrare, con ciò, l’ambito di discrezionalità concesso alla parte datoriale nelle scelte gestionali.

Infatti, allorché lo ius variandi venga esercitato in maniera arbitraria e al di fuori del tracciato segnato dalla previsione normativa e dagli specifici accordi sindacali, il demansionamento si configura quale atto illegittimo, in grado di causare una lesione della sfera giuridica del lavoratore.

Con specifico riguardo alla prova circa l’avvenuto demansionamento, si ritiene che la stessa possa essere fornita attraverso presunzioni, trattandosi di un pregiudizio oggettivamente accertabile sul fare areddituale del soggetto, sicché ogni mezzo è ammissibile, ex art. 2729 c.c., secondo il quale «le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti. Le presunzioni non si possono ammettere nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni».

Come noto, ai sensi dell’art. 2727 c.c., le presunzioni costituiscono le conseguenze che la legge o il giudice tra da un fatto noto per risalire ad un fatto ignoto.

Le presunzioni legali possono essere assolute o relative a seconda che ammettano o meno prova contraria. Le presunzioni semplici, di cui qui si discute, sono quelle non stabilite dalla legge ma lasciate al prudente apprezzamento del giudice e costituiscono mezzi di prova che rilevano solo in quanto gravi, precise e concordanti (definizione, come visto, fornita dalla norma al fine di circoscrivere il perimetro entro il quale l’organo giudicante può muoversi nella loro valutazione).

Come detto, la prova del demansionamento è posta in capo al lavoratore, il quale tuttavia non deve necessariamente fornirla per testimoni, potendo anche allegare elementi indiziari ulteriori, quali, ad esempio, la qualità e la quantità dell’attività lavorativa svolta, la natura e il tipo della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento o la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 24585 del 02/10/2019; Cass. Sez. L – Sentenza n. 9901 del 20/04/2018).

Nel caso di specie, un lavoratore assunto per svolgere attività impiegatizia era stato adibito a mansioni di produzione; aveva più volte sollecitato i superiori allo spostamento, al fine di svolgere mansioni più consone, senza però ottenere alcun risultato in seguito alle proprie istanze.

Il danno, nel caso di specie, era configurabile sotto un duplice profilo: quello dell’impossibilità di crescita professionale e quello relativo all’evidente deterioramento del proprio bagaglio formativo con riguardo alle mansioni per le quali era stato inizialmente assunto.

Per questa via, il comportamento del datore di lavoro si configura come lesivo del fondamentale diritto al lavoro, inteso quale mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell’immagine e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza (in questo senso v. Cass. Sez. L – Ordinanza n. 3692 del 07/02/2023).

A siffatto comportamento consegue, quale immediata conseguenza, la lesione di un bene immateriale per eccellenza: la dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo.

Quanto, invece, alla risarcibilità del conseguente danno non patrimoniale, deve osservarsi come detta risarcibilità sia possibile ogni qual volta si verifichi una grave violazione dei diritti del lavoratore, che – come visto – costituiscono oggetto di tutela costituzionale, da accertarsi in base alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e alla reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale, all’inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del prestatore di lavoro, anche a prescindere da uno specifico intento di declassarlo o svilirne i compiti.

Ad abundantiam, per completezza descrittiva, va aggiunto come – in punto di natura giuridica – l’attribuzione patrimoniale compensa la lesione della capacità professionale del lavoratore e, dunque, non presenta natura reddituale non costituendo una somma meramente sostitutiva della retribuzione (sul punto ha avuto più volte modo di soffermarsi la Suprema Corte come, ex multis, Cass. Sez. V – Ordinanza n. 3804 del 08/02/2023).

Per questa via, la tipologia di danno in questione è stata definita quale anno plurioffensivo, nel senso che il risarcimento per il danno derivante da dequalificazione professionale compensa sia le perdite di retribuzione eventualmente subite sia i mancati guadagni conseguenti alla c.d. perdita di chance lavorative. In tema di quantificazione, la liquidazione del danno è ammissibile, nell’ambito di una valutazione necessariamente equitativa, il ricorso al parametro della retribuzione (Cass. Sez. L – n. 12253 del 12/06/2015).

Ancora, il danno in questione è stato altresì definito come “polimorfo” potendo consistere sia nel danno patrimoniale derivante dall’impoverimento della capacità professionale già acquisita dal lavoratore sia nella mancata acquisizione di ulteriori possibilità di guadagno (cfr., anche per ulteriori approfondimenti sul punto, F. Nardelli, Nota a Cass. civ. Sez. VI – 5 Ord., 08 febbraio 2023, n. 3804, in Il lavoro nella giurisprudenza, n. 12, p. 1141).

A questo punto, la Cassazione – una volta che il lavoratore abbia fornito le necessarie allegazioni atte a dimostrare la sussistenza del demansionamento – ritiene che spetti al datore di lavoro dimostrare l’esatto adempimento dell’obbligo sullo stesso gravante ai sensi dell’art. 2103 c.c., attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento o attraverso la prova che l’adibizione a mansioni inferiori fosse giustificata dal legittimo esercizio dei poteri datoriali o, infine, che l’impossibilità della prestazione datoriale fosse derivante da causa a lui non imputabile, ex art. 1218 c.c. (così Cass. Sez. L – n. 48 del 02/01/2024).

Per tali ragioni, il Collegio ha accolto il ricorso del lavoratore, con cassazione della sentenza di appello che, invece, aveva ritenuto non sussistenti le allegazioni dello stesso.

Maria Rosaria Calamita, dottore di ricerca in scienze giuridiche e funzionario Unità Affari Legali del Consiglio Nazionale delle Ricerche

Visualizza il documento: Cass., ordinanza 8 marzo 2024, n. 6275

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