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Profili ricostruttivi in tema di rivalutazione monetaria dei crediti da lavoro: tra crisi d’impresa, insinuazione al passivo, interessi legali e crediti privilegiati

16 Maggio 2024|

La Corte di Cassazione, Sezione Prima, con la pronuncia in commento (ordinanza,19 febbraio 2024, n. 4403), ha sancito che sui crediti di lavoro del dipendente di imprenditore dichiarato fallito, è dovuta anche d’ufficio la rivalutazione monetaria altresì in riferimento al periodo successivo all’apertura del fallimento, ma soltanto fino al momento in cui lo stato passivo diviene definitivo, mentre gli interessi legali sui crediti privilegiati di lavoro nella procedura di fallimento, ai sensi degli articoli 54, terzo comma, e 55, primo comma, della legge fallimentare , sono dovuti, senza il limite predetto, dalla maturazione del titolo al saldo (Esposito e Giocoli, Principali e agenti nel nuovo diritto della crisi d’impresa, in Pinto (a cura di), Crisi di impresa e continuità aziendale: problemi e prospettive. Atti dell’incontro di studi Pisa, 7 febbraio 2020, Torino, 2020, 13 s.).

Il Tribunale di Nocera Inferiore, in parziale accoglimento dell’opposizione ex art. 98 legge fall. proposta dal dipendente. avverso il decreto con cui il Giudice Delegato del fallimento della società datrice di lavoro in liquidazione, lo aveva ammesso al passivo per la minor somma di euro 5.897,43, a titolo di TFR non corrisposto – a fronte di una domanda di insinuazione al passivo, in privilegio, di un credito dell’importo di Euro 104.531,92, oltre accessori, con cui erano state richieste anche differenze retributive, lavoro straordinario, tredicesima e quattordicesima mensilità – ha ammesso, in via privilegiata, il dipendente medesimo allo stato passivo per l’ulteriore credito di Euro 4.556,67, a titolo di differenze su trasferte.

Il giudice di primo grado ha osservato che dall’espletata CTU era emerso che la società resistente aveva correttamente corrisposto le tredicesime e quattordicesime mensilità, così come aveva versato le somme dovute a titolo di TFR e gli emolumenti per lo svolgimento del lavoro straordinario, risultando ancora dovuta la somma di Euro 4.555,47 a titolo di differenze su trasferte.

Avverso tale decreto il dipendente ha proposto ricorso per cassazione.

Tanto premesse invia generale, occorre ora ripercorrere le doglianze rilevate del dipendente.

In particolare, sul piano squisitamente processuale, il ricorrente deduce la “nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 93 e 95, terzo comma, legge fall., in relazione all’art. 36 della Costituzione, nonché degli articoli 112,115 e 116 c.p.c. e 2697 c.c.

Secondo la medesima ricostruzione, il Tribunale di prime cure avrebbe omesso di rilevare che il giudice delegato aveva ecceduto nei poteri conferitigli, sollevando d’ufficio eccezioni in ordine alla durata e allo svolgimento del rapporto, mentre queste ultime esulavano dalle eccezioni in senso lato, restando nella disponibilità delle parti.

Sul piano concreto, il lavoratore evidenzia che nel progetto di stato passivo il curatore aveva proposto l’ammissione per euro 104.531,92. In sede di opposizione, tale richiesta era stata ribadita, con la produzione del parere del curatore “incorporato nel verbale di esame dello stato passivo”. Per tale ragione, il giudice delegato non avrebbe potuto onerare il ricorrente della dimostrazione della quantità e della intensità del lavoro svolto, “diversamente violandosi il principio dispositivo”. I fatti di causa in realtà sarebbero stati “pacifici”, sicché il giudice delegato non avrebbe potuto richiedere la dimostrazione della quantificazione dei crediti in altra sede (Terranova, Problemi di diritto concorsuale, Padova, 2011, 118 s.; Id., Salvaguardia di valori organizzativi e costi delle procedure concorsuali, in Società, banche e crisi d’impresa. Liber Amicorum Pietro Abbadessa, vol. 3, Torino, 2014, 2793).

La Corte, tuttavia, non condivide tale ricostruzione dell’istante, considerando la predetta doglianza non fondata.

La Suprema Corte prende le mosse da un filone giurisprudenziale granitico (Cass. 8 agosto 2017, n. 19734; Cass. n. 12973/2018; Cass. 6 agosto 2015, n. 16554) che ha più volte stabilito che il principio di non contestazione. La l. n. 69/2009, modificando il co. 1 dell’art. 115 c.p.c., ha codificato nel nostro sistema processuale il cd. principio della non contestazione, ovvero l’obbligo per il giudice di assumere in decisione senza bisogno di prova i fatti allegati in giudizio da una parte e non specificamente contestati dalla controparte costituita.

Il principio di non contestazione assume rilievo rispetto alla disciplina previgente quale tecnica di semplificazione della prova dei fatti dedotti, non comportando affatto l’automatica ammissione del credito allo stato passivo solo perché non sia stato contestato dal curatore (o dai creditori eventualmente presenti in sede di verifica). In altri termini, secondo i giudici compete al giudice delegato (e al tribunale fallimentare) il potere di sollevare, in via ufficiosa, ogni sorta di eccezioni in tema di verificazione dei fatti e delle prove: l’accertamento sull’esistenza del titolo vantato nei confronti del fallimento, e dedotto in giudizio, deve essere dunque compiuto dal giudice ex officio in ogni stato e grado del processo, nell’ambito proprio di ognuna delle sue fasi, in base alla risultanze acquisite nei limiti in cui tale rilievo non sia impedito o precluso in dipendenza di apposite regole.

Inoltre, secondo la Suprema Corte, proprio perché l’accertamento sull’esistenza del titolo dedotto in giudizio deve essere compiuto dal giudice “ex officio” in ogni stato e grado del processo non incorre neppure nella violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. il tribunale che, esercitando il proprio potere d’ufficio di accertare la fondatezza della domanda proposta, rigetti l’opposizione allo stato passivo proposta dal creditore (Ranalli, La fattibilità del piano: luci, ombre e prospettive, in Montalenti (a cura di), Le Procedure Concorsuali Verso la Riforma tra Diritto Italiano e Europeo, Milano, 2018, 74 ss.; Id., “Logica” e “tecnica” dei piani di risanamento, in Ferri Jr. e Vattermoli (a cura di), Accordi di ristrutturazione, piani di risanamento e convenzioni di moratoria. Dalla legge fallimentare al Codice della crisi, Pisa, 2021, 27 ss.; Tron, La continuità aziendale, il riequilibrio economico-finanziario ed il processo di attestazione di un piano di risanamento: la complessità da affrontare, ivi, 221 ss.).

In sostanza, il potere di esaminare il fondamento della domanda spetta al giudice: il medesimo deve valutare l’assolvimento dell’onere della prova che incombe sul creditore e non è vincolato dall’adesione del curatore.

Nel caso di specie, il Giudice delegato, nell’esaminare i documenti prodotti in giudizio dal lavoratore e la loro valenza probatoria, valutazione che è riservata al giudice di merito, ha ritenuto solo parzialmente provata la pretesa del ricorrente, senza per questo incorrere in alcuna violazione di legge. Non pertinente è quindi il richiamo al principio di non contestazione (Pinto, Le fattispecie di continuità aziendale nel concordato nel Codice della Crisi, in Giur. comm., 2020, I, 375 ss.; Id., Le fattispecie di continuità aziendale nel concordato nel sistema del Codice della crisi, in Pinto (a cura di), Crisi di impresa e continuità aziendale: problemi e prospettive, Torino, 2020, 61 ss.; Stanghellini, Il concordato con continuità aziendale, in M. Campobasso, V. Cariello, V. Di Cataldo, F. Guerrera, A. Sciarrone Alibrandi (diretto da), Società, banche e crisi d’impresa. Liber Amicorum Pietro Abbadessa, vol. 3, Torino, 2014, 3214 ss.; in giurisprudenza v., Cass., 12 novembre 2018, n. 29742).

Inoltre si duole della nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 112,115,116 c.p.c., in relazione all’art. 2697 c.c., nonché dell’art. 36 della Costituzione.

Espone il ricorrente che, alla luce delle allegazioni della curatela, la quale ha riconosciuto la quantità e la qualità dell’attività lavorativa dallo stesso svolta, il Tribunale non avrebbe potuto mettere in discussione tale profilo, dovendo porsi solo la questione della prova del pagamento.

Il ricorrente deduce, altresì, la nullità della sentenza per assoluta mancanza di motivazione, nonché violazione dell’art. 132, primo comma, n. 4, c.p.c., in relazione all’art. 111 Cost.

Secondo la ricostruzione del lavoratore, la motivazione della decisione sarebbe completamente avulsa dalle risultanze processuali ed “inidonea a dare conto dell’esito della loro valutazione”.

Inoltre, ad avviso del ricorrente, vi sarebbe una irrisolvibile discrepanza tra la parte motiva della sentenza e le conclusioni del CTU, il quale aveva riconosciuto al lavoratore un credito di Euro 65.276,87 senza rilevare gli asseriti pagamenti considerati dal giudice di primo grado. Peraltro, il giudice di primo grado non avrebbe neppure specificato in quali passaggi della relazione del CTU potesse evincersi che il credito del lavoratore fosse stato, almeno in parte, soddisfatto, essendosi riportato alle conclusioni della CTU senza aver neppure indicato le ragioni fattuali che aveva ritenuto di condividere.

Infine, il medesimo lamenta il ricorrente che dalle deposizioni testimoniali -che ha provveduto a trascrivere nel ricorso – era emerso che il suo impegno lavorativo riguardava l’intera settimana, senza la limitazione della sua prestazione lavorativa dal lunedì al mercoledì, come apoditticamente accertato dal Tribunale.

La Corte di Cassazione ritiene le predette doglianze infondate, nonché, in parte qua, inammissibili. I giudici, in primo luogo, osservano che la motivazione del decreto del Tribunale non solo è presente graficamente, ma contiene, sia pure in sintesi, la enucleazione del ragionamento logico-giuridico che ha condotto il giudice al rigetto dell’opposizione (D’Attorre, Manuale di diritto della crisi e dell’insolvenza, Torino, 2022, 103; Fabiani, Sistema, principi e regole del diritto della crisi d’impresa, Piacenza, 2023, 245; Leuzzi, Sub. art. 84, in Di Marzio (diretto da), Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, Milano, 2022, 380).

Nella motivazione, infatti, il Tribunale fa riferimento non soltanto all’espletamento della prova testimoniale nel giudizio di opposizione allo stato passivo, riportandone il contenuto, ma anche alla relazione della CTU, da cui emergeva l’intervenuto pagamento da parte della fallita di alcune voci retributive. Dunque, il giudice di merito ha assolto al proprio obbligo di motivazione secondo i parametri elaborati dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 8053/2014.

Quanto alle asserite discrepanze tra le conclusioni del CTU e l’accertamento del giudice di merito, non vi è dubbio che, con tale censura, il ricorrente non abbia fatto altro che formulare una censura di merito, in quanto finalizzata a sollecitare una diversa ricostruzione dei fatti rispetto a quella operata dal giudice di primo grado, la quale non è censurabile in sede di legittimità, se non per vizio di motivazione (nei termini di cui all’art. 360 comma 1° n. 5 c.p.c.), insussistente nel caso di specie, come sopra evidenziato.

Inammissibile è, parimenti, la doglianza di carenza argomentativa del decreto impugnato in ordine alle conclusioni della CTU. La Suprema Corte ha preso le mosse, nel proprio iter motivazionale, da  un orientamento giurisprudenziale maggioritario per cui il giudice del merito non sarebbe tenuto a fornire un’argomentata e dettagliata motivazione là dove aderisca alle elaborazioni del consulente ed esse non siano state contestate in modo specifico dalle parti, mentre, ove siano state sollevate censure dettagliate e non generiche: il medesimo ha l’obbligo di fornire una precisa risposta argomentativa correlata alle specifiche critiche sollevate, corredando con una più puntuale motivazione la propria scelta di aderire alle conclusioni del consulente d’ufficio (in particolare, in tale prospettiva ermeneutica, si pongono Cass. n. 12703/2015; conf. 23594/2017).

Nel caso di specie, secondo la Suprema Corte, il ricorrente non avrebbe neppure dedotto di aver contestato innanzi al giudice di merito le conclusioni del CTU, per cui quest’ultimo ha assolto al proprio obbligo motivazionale riportandosi alle risultanze dell’elaborato peritale (M. Campobasso, Nuovi principi e vecchi problemi nel concordato preventivo con “continuità aziendale”, in M. Campobasso, V. Cariello, V. Di Cataldo, F. Guerrera, A. Sciarrone Alibrandi (diretto da), Società, banche e crisi d’impresa. Liber Amicorum Pietro Abbadessa, vol. 3, Torino, 2014, 3039 ss.).

Infine, la predetta doglianza, secondo i giudici, sarebbe inammissibile, in quanto di merito, la censura con cui il ricorrente si duole che la Corte avrebbe erroneamente accertato il suo impegno lavorativo solo di tre giorni a settimana e non dell’intera settimana.

Il ricorrente, inoltre, rileva che il giudice delegato, nel decreto di esecutività dello stato passivo, aveva ammesso il credito del dipendente nei limiti del TFR per euro 5897,43, oltre accessori. Con l’opposizione il creditore aveva chiesto l’ammissione al passivo di un importo maggiore rispetto a quello riconosciuto dal giudice delegato, mentre la curatela del fallimento si era limitata a chiedere l’inammissibilità o il rigetto del ricorso.

Secondo il dipendente, il Tribunale, nonostante l’assenza di una impugnazione incidentale da parte della curatela, avrebbe illegittimamente modificato lo stato passivo “espungendo il credito ammesso per il TFR stante il divieto di reformatio in peius”.

Ancora una volta, tale ricostruzione non è condivisa dalla Suprema Corte. Da un esame del decreto impugnato non emerge affatto che il Tribunale di Nocera Inferiore abbia espunto il credito da TFR già ammesso in sede di insinuazione al passivo.

Nel dispositivo si legge che, a modifica del decreto che ha reso esecutivo lo stato passivo, è stato ammesso, in via privilegiata, il credito di Euro 4.556,67, senza alcun cenno ad un’eventuale esclusione del credito già ammesso dal G.D. Significativo inoltre, sul punto, è il passaggio del decreto in cui il giudice ha evidenziato che il CTU aveva accertato che risultava dovuta “l’ulteriore” somma di Euro 4.556,47, espressione coerente con il riferimento, implicito ma chiaro, al riconoscimento di un credito già ammesso dal Giudice Delegato.

Di particolare interesse dogmatico è la doglianza con cui il ricorrente deduce la violazione dell’art. 429 c.p.c., in relazione all’art. 36, comma 1° Cost.

Il Tribunale – secondo il dipendente – avrebbe errato nel non accordare all’esponente gli interessi e la rivalutazione monetaria che sarebbero dovuti essere liquidati dal giudice anche d’ufficio, trattandosi di crediti derivanti dall’inadempimento di obblighi retributivi (Stanghellini, Il Codice della crisi di impresa: una primissima lettura (con qualche critica), in Corr. giur., 2019, 4, 449 ss.; Id., La legislazione d’emergenza in materia di crisi di impresa, in Riv. soc., 2020, 62 ss.; Id., Il Codice della crisi dopo il d.lgs. 83/2022: la tormentata attuazione della direttiva europea in materia di “quadri di ristrutturazione preventiva”, in www.ilcaso.it, 21 luglio 2022, il quale specificatamente osserva che tra la positiva verifica della fattibilità economica e la negativa dell’inattuabilità del piano, vi sono tutti quei piani in cui non vi sono certezze, ma mere possibilità. In questi casi, il giudice dovrebbe omologare la proposta secondo la direttiva sui quadri di ristrutturazione preventiva.

Nei medesimi termini, sembrerebbe anche Zanichelli, Commento a prima lettura del decreto legislativo 17 giugno 2022, n. 83, pubblicato in G.U. il 1° luglio 2022, in www.dirittodellacrisi.it, 1° luglio 2022).

Tale ultima ricostruzione del ricorrente, invece, viene accolta dalla Corte di Cassazione, stante la sua fondatezza.

La Suprema Corte prende le mosse dalla sentenza n. 204 del 1989 della Corte Costituzionale sui crediti di lavoro del dipendente di imprenditore dichiarato fallito: secondo la pronuncia è dovuta anche d’ufficio la rivalutazione monetaria altresì in riferimento al periodo successivo all’apertura del fallimento, ma soltanto fino al momento in cui lo stato passivo diviene definitivo, mentre gli interessi legali sui crediti privilegiati di lavoro nella procedura di fallimento, ai sensi degli artt. 54, terzo comma, e 55, primo comma, della legge fall., sono dovuti, senza il limite predetto, dalla maturazione del titolo al saldo (vedasi, sul punto, Cass., sez. L, 18 settembre 2015, n. 18405; Cass., sez. L, 24 luglio 2014, n. 16929; Cass., 1 giugno 2005, n. 11692).

Ne consegue che il decreto impugnato va cassato limitatamente al mancato riconoscimento della rivalutazione monetaria e, decidendo nel merito, a norma dell’art. 384 c.p.c., non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, deve disporsi direttamente da questa Corte che sul credito già ammesso dal giudice di primo grado per Euro 4.556,67 vadano riconosciuti gli interessi legali fino al primo riparto che contempli lo stesso credito, nonché la rivalutazione monetaria fino alla chiusura dello stato passivo (Corte Cost. n. 204/89, Cass. n. 16927/2014).

La Corte, dunque, ammette il ricorrente sul credito già ammesso al passivo dal giudice delegato per Euro 4.556,67, anche per i relativi interessi legali fino al primo riparto che contempli lo stesso credito, nonché per la rivalutazione monetaria sul credito già ammesso fino alla chiusura dello stato passivo (Amatucci, Sul recepimento italiano della Direttiva Insolvency e sulla pretermissione del requisito di “impresa sana”, in Giur. comm., I, 2023, 47 ss.; M. Campobasso, Il concordato liquidatorio semplificato: ma perché il concordato preventivo non trova pace?, in Nuove leggi civ., 2022, 112 ss.; Censoni, Il concordato « semplificato » nel Codice della crisi e dell’insolvenza: un istituto enigmatico, in Giur. comm., I, 2023, 187 ss.).

Giuseppe Maria Marsico, dottorando di Ricerca in diritto privato e dell’economia e funzionario giuridico-economico-finanziario

Visualizza il documento: Cass. civ., sez. Iª, ordinanza 19 febbraio 2024, n. 4403

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