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Prescrizione e conoscibilità dell’eziologia nel danno da malattia professionale: a proposito di prudenza

17 Giugno 2024|

Il caso

La sentenza 21 dicembre 2023,n.368 della Corte d’Appello di Ancona – nel frattempo passata in giudicato – prende le mosse dalla domanda di indennizzo per malattia professionale presentata all’INAIL da un medico radiologo affetto da un tumore del sangue, del quale voleva vedere riconosciuta l’origine professionale: in primo grado l’istituto aveva eccepito, in via preliminare, l’intervenuta prescrizione dell’azione per conseguire l’indennizzo, che ai sensi dell’art. 112 d.P.R. 1124/1965 (Testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali) è sottoposta a un termine di tre anni dal momento della manifestazione della malattia.

Contro la sentenza di primo grado, che accoglieva la ricostruzione offerta dall’INAIL, il ricorrente ha proposto appello, sostenendo che dovesse essere applicato al suo caso l’art. 111, c. 2, del d.P.R. 1124/1965, il quale prescrive la sospensione della prescrizione “durante la liquidazione in via amministrativa dell’indennità”: sosteneva infatti il lavoratore di aver inviato numerose istanze amministrative riguardo allo stato del procedimento di liquidazione, nonché una richiesta di accesso agli atti e una richiesta di provvedere sull’istanza, a fronte delle quali non aveva mai ricevuto alcuna comunicazione di diniego dell’indennizzo richiesto.

La decisione

Con la pronuncia qui commentata, la Corte d’Appello di Ancona stabilisce dunque che il termine di prescrizione triennale dell’azione rivolta contro l’INAIL per il riconoscimento delle prestazioni da infortunio sul lavoro e malattie professionali rimane sospeso anche oltre il termine de procedimento amministrativo, se l’interessato non ha ricevuto alcuna comunicazione sull’esito. La Corte, per pervenire alla sua decisione, decide di conformarsi al principio di diritto enunciato da Cass. 29532/2022 (v. nota di Pelliccia, La prescrizione relativa al diritto all’indennità economica per infortunio sul lavoro rimane sospesa fino a quando il lavoratore non è reso edotto della decisione dell’Inail sulla sua domanda, in Labor, 19/11/2022). Secondo tale pronuncia “il termine di prescrizione triennale dell’azione per il riconoscimento delle prestazioni da infortunio sul lavoro e malattie professionali, di cui all’articolo 112 del d.P.R. n. 1124 del 1965, resta sospeso, ex art. 111, comma 2, dello stesso d.P.R., per tutta la durata del procedimento amministrativo di liquidazione delle indennità e fino all’adozione di un provvedimento di accoglimento o di diniego da parte dell’istituto assicuratore; tale termine di prescrizione riprende a decorrere dalla comunicazione del provvedimento espresso dell’Istituto e, in particolare, dal momento in cui tale provvedimento, di accoglimento o di diniego, perviene nella sfera di conoscibilità dell’assicurato”.

In altri termini, la giurisprudenza si è da lungo tempo interrogata sulla valenza del silenzio dell’amministrazione a fronte della domanda dell’assicurato volta ad ottenere un’indennità per infortunio o malattia professionale.

Esistono due ipotesi astrattamente percorribili: da un lato, il silenzio dell’amministrazione potrebbe essere qualificato come silenzio-diniego, e al lavoratore danneggiato che non ricevesse alcuna risposta entro il tempo previsto dalla legge (in questo caso, 150 giorni – art. 111, c. 3, d.P.R. 1124/1965) sarebbe richiesto di attivarsi spontaneamente per ottenere in sede di contenzioso giudiziario la prestazione richiesta.

Accogliendo questa tesi, come fatto da parte della giurisprudenza di merito, decorsi 150 giorni senza ricevere una risposta dall’INAIL la prescrizione ricomincerebbe a decorrere, venendo meno la causa di sospensione prevista dall’art. 111, c. 2, d.P.R. 1124/1965. Secondo la tesi opposta, preferita invece dalla giurisprudenza di legittimità e ulteriormente chiarita con l’importante pronuncia del 2022, il provvedimento di accoglimento o di diniego della prestazione previdenziale avrebbe natura recettizia. Di conseguenza, laddove non vi sia certezza della conoscenza dell’esito del procedimento da parte dell’assicurato, la prescrizione dell’azione giudiziale rimarrebbe sospesa, anche al di là dei 150 giorni fissati dal Testo unico.

Il Collegio giudicante anconetano ha correttamente ritenuto che l’onere di provare la conoscenza dell’esito del procedimento amministrativo spettasse all’Istituto, che qui rivestiva il ruolo di appellato.

Nel caso di specie, l’INAIL aveva certamente formulato un provvedimento di rigetto in una data precedente di oltre tre anni il deposito del ricorso, ma non aveva mai portato tale provvedimento a conoscenza del danneggiato con strumenti idonei: ad avvalorare ulteriormente questa ricostruzione vi è infatti la circostanza che l’appellante aveva successivamente provveduto in autonomia a una istanza di accesso agli atti, non avendo lumi sull’esito della sua richiesta.

Di conseguenza, poiché “senza dubbio ricade sull’Inail il rischio della mancata prova circa il momento esatto in cui l’ultimo provvedimento di diniego di prestazione sia entrato nella sfera di conoscibilità del destinatario” (v. p. 3 della sentenza in commento), la prescrizione deve essere considerata sospesa fino al momento dell’effettiva conoscenza del diniego, avvenuta appunto solo in un secondo momento, in seguito ad accesso agli atti.

Il commento

Con la pronuncia in commento una corte di merito dà seguito all’orientamento recentemente confermato e ribadito dalla Suprema Corte con la nota sentenza Cass. 29532/2022 e stabilisce espressamente che è onere dell’INAIL comunicare in maniera effettiva l’esito del provvedimento all’assicurato. In assenza di una tale comunicazione, la prova della quale è in capo all’Istituto, rimarrà sospesa la prescrizione dell’azione giudiziale.

Tale orientamento appare del tutto condivisibile e risponde a una ragionevole allocazione del generale obbligo di diligenza, prima ancora che dell’onere della prova, tra i soggetti del rapporto giuridico previdenziale.

È il legislatore stesso a prevedere nel d.P.R. 1124/1965 un bilanciamento tra l’interesse del lavoratore ad ottenere un indennizzo per i danni conseguenti a infortunio sul lavoro e malattia professionale e l’interesse dell’INAIL a limitare l’esborso economico per danni verificatisi in tempi troppo risalenti, per i quali il lavoratore non si sia attivato, e quindi a garantire un sano andamento economico-finanziario della sua gestione.

Non è dunque un caso se da un lato è stato previsto un termine prescrizionale abbreviato, di soli tre anni, per l’azione in giudizio contro il diniego dell’Istituto (art. 112), mentre dall’altro lato è stata prevista una esplicita causa di sospensione per il tempo in cui il procedimento amministrativo è in corso.

In altri termini, il lavoratore, a conoscenza del danno patito, è onerato di proporre tempestivamente la domanda di indennità in via amministrativa. Dopodiché, il lavoratore sarà costretto ad attendere l’esito della sua domanda, il quale è rimesso a valutazioni di ordine sia medico-legale, sia tecnico-giuridico, che sono nella esclusiva disponibilità dell’Istituto.

Ed è proprio questa una delle ragioni, forse la principale, che giustifica la sospensione della prescrizione: il lavoratore, se anche potesse, non avrebbe a disposizione gli elementi sui quali reggere un eventuale ricorso davanti al giudice del lavoro.

Accedendo all’opzione interpretativa scelta dalla sentenza in commento, per la medesima ragione la prescrizione non potrà tornare a decorrere finché il lavoratore non abbia conoscenza dell’esito – e quindi anche delle motivazioni – dell’eventuale diniego: il trascorrere del tempo, anche oltre i 150 giorni previsti dalla disciplina, in questo caso non è idoneo a creare un dato certo che renda possibile l’utile esperimento degli strumenti giudiziali a disposizione del lavoratore. Il provvedimento dell’INAIL è infatti un atto recettizio e non ha efficacia finché non viene portato a conoscenza del lavoratore, di conseguenza la prescrizione rimane sospesa fino a tale momento.

La scelta interpretativa qui commentata si inserisce forse in una più generale tendenza della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, che di recente è stata più volte interrogata sulla prescrizione nei casi di danno alla salute del lavoratore. In particolare, con Cass. 13806/2023 (v. nota di Pelliccia, La Suprema Corte torna nuovamente a indicare i criteri per l’individuazione della decorrenza per l’indennizzo da malattia professionale, in Labor, 21/7/2023), la Suprema Corte ha stabilito in altro ambito che la prescrizione dell’azione risarcitoria contro il datore di lavoro per danno da malattia professionale (nella fattispecie, un tumore ai polmoni causato dall’esposizione ad amianto) inizia a maturare solo dal momento in cui sia certa la conoscibilità da parte del lavoratore o dei suoi eredi dell’eziologia professionale della malattia. Nello specifico, non può essere presunto che il lavoratore dovesse conoscere il rapporto tra esposizione professionale e patologia sulla base dell’entrata in vigore di una determinata disciplina prevenzionistica, in quanto la conoscenza o conoscibilità deve essere sempre provata per il caso specifico dal datore di lavoro.

In questo caso, ad essere in questione non era tanto la conoscenza o conoscibilità di un atto, quale il provvedimento di diniego della prestazione emanato dall’INAIL, quanto piuttosto la possibilità in concreto del lavoratore di avere cognizione di un fatto giuridico, il danno, e soprattutto del nesso causale tra il danno e il comportamento illecito del datore di lavoro. In assenza di tale elemento cognitivo, il fatto della vita della malattia non può infatti essere qualificato dal danneggiato come un fatto giuridicamente rilevante ai sensi dell’art. 2947 c.c. e, di conseguenza, è impedito il decorso della prescrizione (Nanna, Prescrizione e conoscibilità nel danno da malattia professionale: a proposito di diligenza, in Resp. Civ. Prev., 2017, pp.66-67).

Certo, l’impedimento giuridico al decorso della prescrizione non può basarsi su una condizione meramente soggettiva e nei fatti indimostrabile come la conoscenza di un nesso causale tra circostanze fattuali e il comportamento colpevole di un terzo: tale nesso potrebbe, nel caso concreto e per le più varie ragioni, sfuggire al danneggiato. È qui allora che, al fine di preservare la certezza del diritto, assume un ruolo fondamentale il criterio dell’ordinaria diligenza, che costituisce lo standard che l’ordinamento richiede ai consociati: in sua assenza, il decorso del tempo potrà ben agire contro il danneggiato.

Nel caso in cui il datore di lavoro convenuto voglia opporre eccezione di prescrizione alla domanda di risarcimento sarà dunque suo onere dimostrare, con ogni mezzo idoneo, che il danneggiato avrebbe dovuto raggiungere tale conoscenza applicando l’ordinaria diligenza. Tuttavia, affinché il criterio dell’ordinaria diligenza possa essere utilizzato, esso deve essere applicato a un oggetto conoscibile almeno in astratto, sulla base delle conoscenze scientifiche disponibili in un dato momento. In altri termini, solo se è dimostrato dalla scienza medica il collegamento tra un fattore di rischio e una patologia si potrà esigere che danneggiato ricolleghi il suo caso concreto all’esposizione professionale.

Il meccanismo di prova sarà, per necessità, ampiamente presuntivo, cioè basato sulla deduzione di fatti ignoti – la conoscenza o conoscibilità – a partire da fatti noti, liberamente valutabili dal giudice. Entra dunque in gioco il criterio di valutazione di tali indizi individuato dall’art. 2729 c.c.: la prudenza del giudice, il quale non può ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti. Tra queste può certo rientrare il trattamento normativo riservato a uno specifico fattore di rischio a cui è esposto il lavoratore, ma solo nel quadro di una valutazione complessiva che tenga conto dell’effettiva possibilità del lavoratore di conseguire nel caso concreto le informazioni necessarie, che lo mettano nelle condizioni di figurarsi la presenza di un nesso causale tra la condotta datoriale e la patologia da cui è affetto.

Il ragionamento della Cassazione è dunque, evidentemente, in parte analogo a quello svolto con riguardo alla conoscenza del provvedimento di diniego di indennità per danno biologico conseguente a malattia professionale.  Secondo la Suprema Corte, la conoscenza di un presupposto del diritto ad agire, che in entrambi i casi fa decorrere la prescrizione, deve essere provata non dal lavoratore, ma dalla sua controparte (l’INAIL nel rapporto giuridico previdenziale, l’imprenditore nel rapporto di lavoro).

Sia Cass. 29532/2022 (e quindi, nel suo solco, C. App. Ancona, 7/12/2023, n. 368/2023 qui in commento), sia Cass. 13806/2023, individuano, così, in via interpretativa cause che escludono il decorso della prescrizione dell’azione del lavoratore volta ad ottenere un risarcimento per il danno alla salute cagionato da malattia professionale. Entrambe le sentenze approdano a una soluzione di maggiore garanzia per il lavoratore, facendo leva su una valutazione in concreto della possibilità del lavoratore di conoscere elementi fondamentali per poter azionare in giudizio i propri diritti. Si tratta forse di un complessivo indirizzo della Suprema Corte che va nel senso di un approccio garantista alla prescrizione nell’ambito degli infortuni e delle malattie professionali. Solo così pare possibile risolvere l’ingiustizia sostanziale di casi in cui il lavoratore non è messo, per responsabilità altrui, nella condizione di conoscere elementi fondamentali per vedere riparato il danno alla salute, e per questo stesso fatto vede il decorso del tempo giocare a suo sfavore.

Filippo Bordoni, dottorando di ricerca nell’Università degli Studi di Milano-Bicocca

Visualizza il documento: App. Ancona, 21 dicembre 2023, n. 368

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