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Nessun obbligo dell’Ente di riaprire il procedimento disciplinare in caso di assoluzione penale del dipendente

29 Aprile 2024|

In ordine al limitato vincolo delle sentenze penali assolutorie, occorre dire che, solo le statuizioni, il fatto non sussiste o l’imputato non ha commesso il fatto, impediscono l’attivazione del procedimento disciplinare; eventuali altre formule assolutorie, al pari delle statuizioni di condanna, obbligano, invece, la P.A. alla rivalutazione interna dei fatti storici che, pur vincolanti nella loro fattualità (sussistenza del fatto e imputabilità dello stesso al condannato), in base all’art. 653, comma 1-bis, c.p.p., non vincolano affatto in ordine alla concorrente rilevanza disciplinare del fatto di acclarata valenza penale: il datore dovrà, difatti, verificare se quei fatti siano sussumibili tra gli obblighi disciplinarmente rilevanti del codice disciplinare (ad esempio, l’assoluzione perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato non avrà effetto vincolante necessariamente assolutorio in sede disciplinare; parimenti la prescrizione penale, che non è una assoluzione, non impedirà l’azione disciplinare previa attenta rivalutazione dei fatti vagliati in sede penale).

In tema di licenziamento disciplinare nel pubblico impiego privatizzato, come è noto, l’art. 55-ter del d.lgs. n. 165 del 2001, introdotto dal d.lgs. n. 150 del 2009, ha previsto la regola generale dell’autonomia del processo penale e del procedimento disciplinare, e tale previsione costituisce, in forza dell’art. 55, comma 1, del medesimo d.lgs. n. 165, norma imperativa ai sensi e per gli effetti degli artt.1339 e 1419 c.c., sicché peraltro non è derogabile ad opera della contrattazione collettiva (Cass., n. 6 del 2020).

Dobbiamo, altresì, ricordare che se il procedimento disciplinare porta all’irrogazione di una sanzione, mentre successivamente quello penale termina con una sentenza irrevocabile di assoluzione perché il fatto addebitato al dipendente non sussiste o non costituisce illecito penale o non è stato commesso dal dipendente, l’Ufficio per i procedimenti disciplinari, ad istanza di parte, da proporsi entro il termine di decadenza di sei mesi dall’irrevocabilità della pronuncia penale, riapre il procedimento disciplinare, per modificarne o confermarne l’atto conclusivo in relazione all’esito del procedimento penale.

Se, invece, il procedimento disciplinare si conclude con l’archiviazione ed il procedimento penale con una sentenza irrevocabile di condanna, l’Ufficio per i procedimenti disciplinari riapre il procedimento disciplinare per adeguare le determinazioni conclusive all’esito di quello penale; il procedimento disciplinare è riaperto, inoltre, se dalla sentenza irrevocabile di condanna risulta che il fatto addebitabile al dipendente in sede disciplinare comporta la sanzione del licenziamento, mentre ne è stata applicata una diversa.

Il procedimento disciplinare deve essere ripreso o riaperto, mediante rinnovo della contestazione dell’addebito, entro sessanta giorni dalla comunicazione della sentenza penale, da parte della cancelleria del giudice, all’amministrazione di appartenenza del lavoratore ovvero dal ricevimento dell’istanza di riapertura e si avrà integrale nuova decorrenza dei termini previsti per la conclusione dello stesso.

Abbiamo fatto questa doverosa premessa, per comprendere appieno, la fattispecie scrutinata dalla sentenza n.7358 del 19 marzo 2024 della Sezione Lavoro della Cassazione, che qui si segnala.

La Corte d’Appello di Milano respingeva l’impugnazione proposta da un dipendente dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, avverso la sentenza del locale Tribunale, che aveva rigettato la sua domanda, intesa ad ottenere la declaratoria di illegittimità della sanzione disciplinare della sospensione dal servizio e dalla retribuzione per sei mesi, in relazione a false attestazioni della presenza in ufficio.

Nei confronti del dipendente dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli era stato avviato, dal proprio datore di lavoro, un procedimento disciplinare (conclusosi con l’irrogazione del provvedimento di licenziamento senza preavviso), per la violazione dell’art. 55-quater, lett. a), del d.lgs. n. 165/2001(per fatti emersi nell’ambito di un procedimento penale iscritto a carico dello stesso).

Il lavoratore aveva, quindi, impugnato il provvedimento irrogatogli di licenziamento senza preavviso.

In sede giudiziale, le parti erano addivenute, innanzi al giudice del lavoro, ad una conciliazione: l’accordo prevedeva la sostituzione della sanzione del licenziamento con quella della sospensione dal servizio e dalla retribuzione per sei mesi e con successiva riammissione in servizio; si era pervenuti, tra le parti, ad una conciliazione, sulla base di una qualificazione delle condotte non già come mezzi fraudolenti ma come fatti e comportamenti tesi all’elusione dei sistemi di rilevamento elettronici della presenza e dell’orario, ex art. 67, comma IV, lett. g) del c.c.n.l. Comparto Agenzie fiscali, la cui integrazione comporta la sanzione massima di sei mesi di sospensione.

Era poi intervenuta sentenza del GUP del Tribunale di Milano, passata in giudicato, che aveva mandato assolto il dipendente dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, perché il fatto non sussiste: era stata esclusa la sussistenza dell’elemento soggettivo (dolo), necessario per la configurabilità dei reati di cui all’imputazione.

A seguito di tale assoluzione, tuttavia, l’Agenzia, nonostante la richiesta del dipendente, non aveva disposto la riapertura del procedimento disciplinare né annullata la sentenza applicata.

Tale comportamento aveva formato oggetto di successivo ricorso del lavoratore, il quale aveva, appunto, lamentato, il mancato riavvio del procedimento disciplinare e dedotto l’illegittimità della applicata sanzione disciplinare, in ragione della sopravvenuta assoluzione in sede penale: il Tribunale aveva respinto il ricorso.

La Corte d’appello, successivamente, concordava con quanto statuito dal Tribunale quanto alla insussistenza di un obbligo di riapertura del procedimento disciplinare stante, peraltro, l’intervenuto accordo in sede di conciliazione giudiziale sulla sanzione da applicare, previa nuova qualificazione della condotta attribuita al lavoratore: evidenziava la Corte territoriale, in ogni caso, la diversità dell’addebito oggetto del procedimento penale rispetto all’addebito disciplinare, come definito in sede di conciliazione.

Avverso tale sentenza, il lavoratore proponeva, pertanto, ricorso per cassazione, sostenendo, tra l’altro, che la Corte di merito aveva interpretato la transazione nel senso di ritenere che la stessa potesse validamente comportare la rinuncia, da parte del ricorrente, a diritti previsti da norme imperative attinenti alla disciplina del procedimento disciplinare costituenti un corpus normativo estremamente rigoroso e dettagliato, e che l’intervenuta transazione non può affrancare il datore di lavoro dall’obbligo di riattivazione del procedimento disciplinare previsto da norma imperativa, diversamente determinandosi un vulnus dell’essenziale prerogativa del lavoratore di reagire al potere punitivo datoriale.

Con sentenza n. 7358 del 19 marzo 2024, il ricorso è stato rigettato dalla Cassazione, per le ragioni che andiamo, adesso, succintamente, ad illustrare.

La Cassazione premette, innanzitutto, nella sentenza che si annota, che un unico vincolo, logico e giuridico integrale per il datore di lavoro (comportante non solo l’obbligo di riattivare, a richiesta, il procedimento disciplinare ma anche l’assenza di margini di apprezzamento in sede interna: v. Cass. 6 marzo 2023, n. 6660) deriva dall’assoluzione penale quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o non costituisce illecito penale ovvero che l’imputato non lo ha commesso (ex art. 653, comma 1, cod. proc. pen.; art. 55-ter, comma 2, d.lgs. n. 165/2001)

Per i giudici di legittimità, il giudicato penale non preclude, in sede disciplinare, una rinnovata valutazione dei fatti accertati dal giudice penale, attesa la diversità dei presupposti delle rispettive responsabilità, fermo solo il limite dell’immutabilità dell’accertamento dei fatti nella loro materialità – e dunque, della ricostruzione dell’episodio posto a fondamento dell’incolpazione – operato nel giudizio penale (v. Cass., S.U., 9 luglio 2015, n. 14344; Cass., S.U., 24 novembre 2010, n. 23778; Cass., S.U., 18 ottobre 2000, n. 1120). Ciò vuol dire, precisa il Collegio, ed è questa la parte essenziale della pronuncia de qua, che il giudicato di assoluzione non determina automaticamente l’archiviazione del procedimento disciplinare ben potendo l’amministrazione rivalutare il fatto, fermo restando che lo stesso non può essere ricostruito in termini difformi rispetto a quelli accertati in sede penale (in tal senso, Cass. 13 marzo 2019, n. 11948; Cass. 12 febbraio 2021, n. 3659). Analogamente, evidenzia la Corte Suprema, il giudicato di condanna impedisce di ritenere il dipendente estraneo ai fatti, ma non preclude la possibilità di apprezzare, ai fini della gravità dell’inadempimento, circostanze diverse da quelle valutate dal giudice penale.

Tranne le vincolanti ipotesi, di cui si è detto, la regola prevista dall’art. 55-ter del d.l.gs.  n. 165 del 2001, si legge, inoltre, nella pronuncia in esame, resta sempre quella dell’autonomia del procedimento disciplinare rispetto a quello penale (fra le tante, v. Cass. 28 agosto 2018, n. 21260; Cass. 17 maggio 2017, n. 12358; Cass. 10 giugno 2016, n. 11985), come ricordavamo all’inizio del nostro contributo.

Lo statuto normativo introdotto, osserva la Cassazione, ha tenuto conto della circostanza che uno stesso fatto può essere considerato irrilevante sotto il profilo penalistico e allo stesso tempo avere una rilevanza disciplinare tale da risultare persino idoneo a giustificare il licenziamento.

Secondo i giudici della Corte Suprema, il fatto disciplinarmente rilevante che aveva determinato la conciliazione in sede giudiziale con l’adozione, concordata tra le parti, della sanzione conservativa della sospensione di sei mesi era diverso da quello per il quale il lavoratore era stato assolto; sul punto, osservano gli Ermellini, corretta era stata l’interpretazione della Corte territoriale dell’atto di conciliazione giudiziale, peraltro conforme a quanto evidenziato dal giudice penale nella sentenza passata in giudicato; tanto esclude, per i giudici di legittimità, non solo la sussistenza di un obbligo datoriale di riapertura del procedimento disciplinare (definito in sede di conciliazione giudiziale), ma anche la possibilità di una revisione della minor sanzione adottata.

Né risultano conferenti, conclude la Cassazione, le censure riguardanti la erronea equiparazione tra giudicato e transazione, sull’assunto che l’art. 55-ter si applichi soltanto al caso dell’irrogazione del licenziamento, e quella relativa all’equiparazione fra accordo transattivo e giudicato, essendo le stesse afferenti ad assunti decisori diversi da quelli sottesi alla sentenza impugnata ed incontrando, comunque, il limite del chiaro distinguo, operato dalla sentenza penale tra fatto penalmente rilevante (per il quale è stato escluso il dolo con conseguente pronuncia di assoluzione) e fatto disciplinarmente rilevante (oggetto di conciliazione giudiziale): la Cassazione, pertanto, non considera erronea la equiparazione tra sentenza passata in giudicato e accordo transattivo sottoscritto tra le parti.

Dionisio Serra, cultore di diritto del lavoro nell’Università degli studi di Bari “Aldo Moro”

Visualizza il documento: Cass., 19 marzo 2024, n. 7358

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