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L’intento ricattatorio e l’insubordinazione nei confronti del proprio superiore gerarchico legittimano il licenziamento per giusta causa

3 Giugno 2024|

Con l’ordinanza in commento la Corte di Cassazione (16 gennaio 2024, n. 1686) ha giudicato legittimo il licenziamento per giusta causa irrogato ad una lavoratrice la quale si era rivolta alla sua responsabile, ed in presenza di altre colleghe, con le seguenti affermazioni: “ce l’ho in pugno, ho fotografato dei capi da uomo e dico che lei li vende“; “queste fotografie sono la mia assicurazione“, “ho vinto, ho vinto”, in quanto integranti gli estremi della insubordinazione e della minaccia grave.

In particolare, la Società datrice di lavoro aveva contestato alla dipendente licenziata: di aver fotografato con il proprio cellulare capi di abbigliamento maschile, acquistati altrove e di proprietà di una cliente che aveva chiesto il permesso di lasciarli in custodia nell’esercizio commerciale, e di avere pronunciato le summenzionate frasi “incriminate”, così minacciando la propria responsabile, anche alla presenza di altre colleghe.

All’esito di entrambe le fasi di merito, i fatti contestati sono stati ritenuti pienamente provati e connotati da una gravità tale da recidere irreversibilmente e irreparabilmente la fiducia che deve presiedere il corretto e regolare svolgimento del rapporto di lavoro e da giustificare, quindi, il licenziamento per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 del c.c.; inoltre, era stata accertata la tempestività della contestazione e l’assenza di ritorsività del licenziamento. Viceversa, sia il Tribunale sia la Corte di Appello hanno ritenuto del tutto indimostrate le accuse mosse dalla lavoratrice, per giustificare la propria condotta, alla responsabile del punto vendita (e cioè che quest’ultima vendeva agli addetti merce di altri marchi che si faceva recapitare in negozio).

La lavoratrice ha impugnato la sentenza di secondo grado lamentando:

(i) l’insussistenza nel caso di specie dell’insubordinazione, avendo la stessa sempre mantenuto un comportamento corretto e diligente, ed infatti, in occasione dei fatti contestati, si era genuinamente “insospettita” avendo trovato, all’interno del punto vendita, indumenti maschili che non potevano appartenere alla linea di abbigliamento della datrice di lavoro, che commercializza esclusivamente abbigliamento femminile;

(ii) la qualificazione delle frasi contestate come “minaccia grave”;

(iii) l’assenza nella vicenda de quo di qualsiasi suo interesse personale e, comunque, di eventuali danni o pregiudizi per la Società e per i suoi dipendenti;

(iv) l’intempestività della contestazione in quanto, a fronte dell’asserita gravità della condotta contestata caratterizzata, peraltro, da un “immediato accertamento”, erano decorsi ben ventisei giorni tra la commissione dei fatti addebitati e la notifica della contestazione disciplinare.

La Corte di Cassazione ha preliminarmente ribadito il ben noto principio secondo cui la giusta causa di licenziamento, considerata come un fatto che impedisce la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro è una nozione “che la legge – allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo – configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama” (conforme, ex plurimis, Cass., 28.6.2022, n. 20682).

Ciò premesso, secondo la Corte, i fatti contestati devono essere necessariamente considerati come gravi ed idonei a giustificare il licenziamento per giusta causa irrogato, in quanto, sussumibili negli estremi della minaccia grave, da intendersi quale prospettazione di un danno ingiusto da arrecare ad un proprio superiore gerarchico, e della insubordinazione, che “ricomprende qualsiasi comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione ed il corretto svolgimento delle disposizioni -con violazione, pertanto, degli obblighi di collaborazione e fedeltà- nel quadro della organizzazione aziendale che, nel caso concreto, acconsentiva, come da prassi e nulla disponendo in contrario li relativo regolamento, alle richieste delle clienti che avessero eseguito spese significative di custodire in negozio i prodotti acquistati per poi ritirarli successivamente”.

Gli Ermellini non hanno mancato di evidenziare che la gravità dei fatti contestati è insita, soprattutto, nelle modalità e finalità della condotta della lavoratrice. Ed infatti, la lavoratrice ha assunto un atteggiamento dichiaratamente ricattatorio, facilmente riscontrabile dal tenore delle frasi proferite e con cui ha mosso le sue infondate accuse alla presenza di altre dipendenti, oltre che della superiore gerarchica che ne era la destinataria.

Pertanto, secondo la Cassazione i fatti, complessivamente considerati, integrano il parametro normativo della “giusta causa, secondo gli standards conformi ai valori dell’ordinamento per un grave inadempimento o un grave comportamento del lavoratore contrario alle regole dell’etica e del comune vivere civile”.

La Cassazione ha, infine, dichiarato l’inammissibilità delle doglianze della lavoratrice in merito alla tempestività della contestazione, dato che la Corte distrettuale si era attenuta, con un accertamento in fatto conforme a quello del primo giudice, al ben noto principio secondo cui: “in tema di licenziamento disciplinare, l’immediatezza della contestazione va intesa in senso relativo, dovendosi dare conto delle ragioni che possono cagionare il ritardo (quali li tempo necessario per l’accertamento dei fatti o la complessità della struttura organizzativa dell’impresa), con valutazione riservata al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità, se sorretta da motivazione adeguata e priva di vizi logici (per tutte, Cass. n. 281/2016; Cass. n. 16841/2018)”.

Valerio Orpello, avvocato in Milano

Visualizza il documento: Cass., ordinanza 16 gennaio 2024, n. 1686

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