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L’evoluzione giurisprudenziale sul regime della decadenza nella fattispecie dell’appalto illecito in caso di licenziamento a non domino

27 Giugno 2024|

1. Considerazioni preliminari

La Suprema Corte con l’ordinanza 08.03.2024 n. 6266, in commento, conferma il proprio orientamento secondo cui, in caso di domanda volta all’accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell’appaltante, i termini di decadenza, di cui all’art. 32, comma 4, lett. d), L. 183/2010, trovano applicazione solo se l’utilizzatore abbia negato per iscritto la titolarità del rapporto, non essendo imputabile allo stesso (ai fini del decorso dei termini decadenziali) l’atto di licenziamento intimato dall’appaltatore/formale datore. Pertanto, il recesso intimato dall’appaltatore/datore di lavoro formale non comporta alcuna decadenza nei confronti dell’appaltante/utilizzatore

Il tema di indagine sottoposto al vaglio della Suprema Corte riguarda, quindi, l’interpretazione dell’art. 32, co. 4, lett. d), l. n. 183/2010 che prevede un regime decadenziale anche nell’ipotesi in cui “si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto”.

Conseguentemente, la problematica giuridica investe la fattispecie della decadenza nelle ipotesi di somministrazione irregolare e appalto illecito, istituto questo che deve “fare i conti” sia con le disposizioni dell’art. 27, co.1, d.lgs. n. 276/2003, sia con quelle dell’art. 38, co. 3, d.lgs. n. 81/2015 (che nelle specie hanno modificato le norme della cd. legge Biagi).

Secondo tali prescrizioni, gli atti imputabili al datore reale posti in essere da quello fittizio sono quelli inerenti alla “costituzione del rapporto” e la “gestione” dello stesso. Sul punto va dato conto che il legislatore, tuttavia, non aveva fornito alcuna indicazione normativa sulla diversa fattispecie della risoluzione del rapporto di lavoro disposta dal datore di lavoro apparente, come avvenuto nel caso di specie.

Tale mancata specificazione aveva così generato un contrasto giurisprudenziale su tale ultimo aspetto proprio con riferimento agli effetti decadenziali del recesso intimato dal non reale datore di lavoro, come si avrà modo di chiarire nel prosieguo del presente contributo.

Per completezza d’indagine, ogni dibattito dottrinale e giurisprudenziale su tale ultima questione pare ormai essere definitivamente risolto in base all’interpretazione autentica di cui all’art. 80 bis, d.l. n. 34/2020. Essa prevede espressamente che tra gli atti compiuti dal datore di lavoro formale da imputarsi al soggetto utilizzatore, ex art. 38, d.lgs. n. 81/2015, è escluso il licenziamento.

2. La vicenda fattuale e i principi espressi da Cass. ord. 03.2024, n. 6266

Il caso di specie riguarda la vicenda di un lavoratore che, quattro anni dopo essere stato licenziato da una società cooperativa appaltatrice di servizi di facchinaggio, formale datore di lavoro, proponeva ricorso giudiziale nei confronti della sola società committente.

In particolare, il prestatore impugnava il licenziamento, nei termini, solo nei confronti del datore/appaltatore e non anche nei confronti del committente. Il lavoratore rivendicava la costituzione del rapporto di lavoro con la società utilizzatrice/committente, stante l’illecita interposizione di manodopera delle prestazioni, nonché l’inesistenza del licenziamento intimato dal formale datore di lavoro.

Il Tribunale e la Corte di appello di Ancona respingevano le domande del lavoratore per intervenuta decadenza ex art. 32, co. 4, l. 183/2010, ritenendo che il lavoratore, avendo impugnato il recesso anche nei confronti dell’utilizzatore, fosse decaduto dal poter proporre le proprie azioni.

A parere della Corte di Cassazione, invece, i giudici di secondo grado avevano erroneamente ritenuto che l’atto di licenziamento intimato al prestatore, solo dalla società cooperativa, fosse idonea a consentire la decorrenza dei termini di decadenza del sopra citato art. 32 anche nei confronti della società committente. Assunto corroborato dal fatto che la committente non aveva mai adottato alcun atto scritto di contestazione della titolarità del rapporto di lavoro.

Pertanto, il lavoratore ben poteva instaurare legittimamente l’azione contro l’utilizzatore ai fini dell’accertamento dell’interposizione fittizia di manodopera che non poteva ritenersi assoggettata ad alcun regime decadenziale.

Secondo i giudici di legittimità, che sul punto hanno richiamato il proprio indirizzo consolidato, l’ipotesi di decadenza in questione, ossia quella ex art. 32, co. 4, lett. d), l. n.183/2010 che prevede “ogni altro caso in cui… si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto”, necessita della presenza di un atto scritto da impugnare per ottenere il risultato perseguito. Questo perché, nell’ipotesi di appalto non genuino, l’eventuale licenziamento da parte del datore fittizio è inesistente.

L’unico caso in cui l’azione per la costituzione del rapporto col committente possa essere considerata soggetta a decadenza è quello in cui il committente neghi la titolarità del rapporto con atto scritto.

La Suprema Corte, sulla base di tali principi, ha accolto il ricorso del lavoratore e cassato la sentenza impugnata rinviando alla Corte d’Appello di Ancona, affermando che non fosse intervenuta alcuna decadenza, ai sensi dell’art. 32, co. 4, lett. d) della l n. 183/10, dell’azione promossa dal lavoratore.

In particolare, come anticipato, l’ordinanza n. 6266/2024, ha osservato che, in caso di interposizione illecita di manodopera o somministrazione irregolare o appalto non genuino, il recesso intimato dal datore fittizio è giuridicamente inesistente e non può mai intendersi compiuto dal reale datore di lavoro.    

3. La querelle giurisprudenziale sul regime decadenziale in tema di licenziamento a non domino

Il provvedimento in annotazione appare confermare il definitivo superamento di una querelle giurisprudenziale inaugurata, per la prima volta, da Cass. 13.9.2016, n. 17969 (in RFI, 2016, voce Lavoro (rapporto), n. 845), che aveva generato non pochi dubbi interpretativi in una fattispecie, quella del licenziamento a non domino, che la giurisprudenza di legittimità aveva invece interpretato da sempre a “senso unico”. Infatti, un consolidato orientamento della Suprema Corte, pluridecennale, aveva affermato il principio di diritto secondo cui il licenziamento intimato dal non reale datore di lavoro – per illecita interposizione, appalto illegittimo e somministrazione irregolare – non fosse idoneo ad interrompere il rapporto di lavoro perché “a non domino” (cfr., tra le tante, Cass. 4.7.1996, n. 6092, FI, Rep. 1996, voce Lavoro (rapporto), n. 476; Cass. 16.6.1995, n. 5995, in FI, 1998, I, 3582; Cass. 11.6.1992, n. 7213, in FI, Rep. 1992, voce Lavoro (rapporto), n. 529). La naturale conseguenza giuridica di tale assunto comportava, inevitabilmente, l’inefficacia del recesso per inesistenza del potere risolutivo in capo al datore di lavoro fittizio e la prosecuzione del rapporto di lavoro mediante la “perpetuatio obbligationis”.

Al riguardo, si erano espresse le Sezioni Unite di Cassazione, con sentenza del 21.3.1997, n. 2517 (in FI, 1998, I, 3318), osservando che l’interposizione vietata determinasse la sostituzione dell’interponente all’interposto nel rapporto di lavoro e, in conseguenza di ciò, il recesso intimato dall’interposto fosse giuridicamente inesistente in quanto quest’ultimo non rivestiva il ruolo di datore di lavoro.

Tale interpretazione era stata confermata anche dalla giurisprudenza successiva, secondo cui “nell’ipotesi di interposizione fittizia nel rapporto di lavoro, il potere di recesso deve essere esercitato dal contraente reale e non già da quello fittizio” ove, pertanto, “il licenziamento proveniente da un soggetto diverso dal titolare del relativo potere è inefficace perché a non domino” (cfr. Cass. 25.5.2000, n. 6926, in GCM, 2000, 1118, Cass. 11.9.2000, n. 11597, in GCM, 2000, 1946).

Tuttavia, tali principi in tema di inefficacia del recesso intimato dal datore di lavoro apparente venivano messi in discussione, come anticipato, dalla citata sentenza della Suprema Corte del 13.9.2016, n. 17969, poi confermata da altre successive (Cass. 30.1.2018, n. 2303, in ADL, 2018, 913, nonché in RGL, 2018, II, 193). I giudici di legittimità, con riferimento alle disposizioni dell’art. 38, co. 3, d.lgs. n. 81/2015, stabilivano il principio per cui l’atto di recesso del datore apparente dovesse intendersi riferibile al reale datore di lavoro.

Pertanto, il provvedimento compiuto dal datore fittizio generava effetti decadenziali anche nei confronti del reale utilizzatore, se non impugnato dal lavoratore nel termine perentorio di sessanta giorni.

In particolare, nella sentenza n. 17969/2016 i giudici di legittimità affermavano quanto segue: “nei casi di costituzione d’un rapporto di lavoro direttamente in capo all’utilizzatore, ai sensi dell’art. 27 c. 1 del D. Lgs. 276/2003, gli atti di gestione del rapporto posti in essere dal somministratore producono nei confronti dell’utilizzatore tutti gli effetti negoziali anche modificativi del rapporto di lavoro, loro propri, ivi incluso il licenziamento, con conseguente onere del lavoratore di impugnare il licenziamento nei confronti di quest’ultimo ai sensi dell’art. 6 della legge 604/1966”.

Va dato conto però che la norma in parola, in realtà, stabiliva che gli atti del datore fittizio riferibili al datore reale fossero esclusivamente quelli relativi alla “costituzione del rapporto” e la “gestione” dello stesso; giammai il legislatore aveva inserito nel testo normativo un riferimento alla risoluzione del rapporto.

Conseguentemente, i principi giurisprudenziali della sentenza n. 17969/2016, includendo il recesso tra gli atti posti in essere dal datore di lavoro interposto, avevano creato notevoli problemi interpretativi sulle azioni di accertamento dell’illecita interposizione ovvero dell’appalto illegittimo e della somministrazione irregolare. Ciò con riguardo sia al tema dell’impugnativa giudiziale sia a quello della dimostrazione e confutazione delle ragioni che avevano determinato il licenziamento intimato dal datore fittizio.

Con riferimento al tema dell’impugnativa giudiziale nei confronti del datore apparente e alla sua riferibilità giuridica anche all’utilizzatore, è stato osservato, criticamente, che tale tesi appariva:

a) da un lato, “contraddittoria”, in quanto, imputando il recesso all’interponente datore reale (anche se intimato dall’interposto in nome e per conto di quest’ultimo), allora, semmai, “l’impugnazione del licenziamento dovrebbe essere rivolta (solo) all’interponente”;

b) dall’altro, “priva di senso”, poiché, se il lavoratore ritiene che il suo reale datore di lavoro sia un soggetto diverso da quello (fittizio) che lo ha licenziato (e che quindi il rapporto con quest’ultimo sia inesistente), non si comprende per quale ragione “l‘ordinamento pretenderebbe di fargli carico di contestarlo nel termine di decadenza” visto che si tratta di un “atto giuridicamente inesistente” (Cfr. Conte, Il licenziamento intimato dall’interposto non ha effetto sul rapporto instauratosi con l’illecito interponente: un’evidenza conquistata a fatica, in LPO, 2024, n. 3-4, 240).

Di segno opposto altra dottrina che, rispetto ai principi sin qui espressi sulla non decorrenza dei termini di decadenza in caso di recesso del datore apparente, ha invece messo in discussione tale indirizzo giurisprudenziale sulla base delle seguenti considerazioni: da un lato, in quanto appare improbabile che il datore sostanziale intimi un licenziamento nei confronti di un lavoratore che, formalmente, non è proprio dipendente, rischiando così di ammettere la non genuinità dell’appalto; dall’altro, perché l’utilizzatore viene esposto, a tempo indefinito, alla possibile azione costitutiva da parte del lavoratore, con evidente frustrazione del termine decadenziale  (cfr. Delogu, La decadenza nei fenomeni interpositori dopo l’intervento della Cassazione, in LG, 2024, n. 3, 247-248).

Per completezza d’informazione, va segnalato che su tale fattispecie non esisteva, comunque, dopo la citata sentenza della Suprema Corte n. 17969/2016, un indirizzo di legittimità consolidato poiché alcune sentenze della Suprema Corte hanno continuato a aderire a quella tesi giurisprudenziale secondo cui il licenziamento intimato dal soggetto interposto è inefficace (cfr. Cass. 28.2.2019, n. 5998, nonché Cass. 10.9.19, n. 21968, entrambe pubblicate in www.rassegnadidirittolavoro).

In ogni caso, occorre evidenziare che ormai il recente orientamento giurisprudenziale, di cui la decisione in commento rappresenta un ulteriore tassello, pare risolvere ormai definitivamente ogni contrasto giurisprudenziale e dottrinale sorto sulla tematica sin qui esaminata.

L’ordinanza n. 6266/2024, infatti, ricostruisce analiticamente l’evoluzione di questo indirizzo di legittimità (di cui si dirà meglio oltre), a cui la Suprema Corte aderisce, i cui principi peraltro trovano maggiore cogenza anche in ragione dell’interpretazione autentica fornita dal legislatore, ex art. 80 bis, l. n. 77/2020, sull’art. 38, co. 3, d.lgs. n. 81/2015 che, infatti, esclude espressamente che il recesso del datore fittizio possa imputarsi al reale utilizzatore.

 4. I precedenti di legittimità in tema di non applicazione di un regime decadenziale in mancanza di un atto da impugnare

Pare opportuno ripercorrere il ragionamento dei giudici di legittimità nella ordinanza in esame, i quali, al fine di corroborare il proprio assunto, hanno richiamato i principi espressi da alcuni arresti giurisprudenziali in tema di decadenza nelle diverse ipotesi di risoluzione del rapporto di lavoro in caso di appalto.

In particolare, l’ordinanza n. 6266/2024, in prima battuta da un lato, ha menzionato Cass. n. 523 dell’11.1.2019 (in GI, 2019, 6, 1395), secondo cui il licenziamento orale, intimato dall’appaltatore/datore di lavoro formale, non fa decorrere la decadenza mancando un atto scritto.

In seconda istanza, fa riferimento ai concetti espressi da Cass. 40652 del 2021 che, proprio in materia di termini di decadenza nell’azione di costituzione del rapporto in caso di appalto non genuino, aveva affermato che “sia nei casi di richiesta di costituzione (ove è chiara la volontà dell’istante di ripristino immediato e/o di stabilizzazione) sia nei casi di richiesta di accertamento (ove l’azione dichiarativa richiede un accertamento “ora per allora”) del rapporto di lavoro alle dipendenze di un soggetto diverso dal titolare del contratto, occorre pur sempre un atto o un provvedimento datoriale che renda operativo e certo il termine di decorrenza della decadenza di cui all’art. 32 co. 4 lett. d) della legge n. 183/2010, in un’ottica di bilanciamento di interessi costituzionalmente rilevanti. Fino a quando il lavoratore non riceva un provvedimento in forma scritta o un atto equipollente, che neghi la titolarità del rapporto, non può decorrere alcun termine decadenziale ai sensi della suddetta disposizione, atteso che il profilo impugnatorio funge da decisivo discrimine della applicazione della relativa disciplina” (pubblicata, rispettivamente, in RIDL, 2022, 240, con nota di Pacella, nonché in LPO, 2022, n. 7-8, 552 ss, con nota di Cuttone).

Sul punto poi, sempre l’ordinanza in annotazione ha menzionato anche Cass. 28.10.2021, n. 30490, secondo cui in caso di azione di accertamento dell’illegittimità di un appalto, quando ancora è sussistente il rapporto di lavoro con l’appaltatore/datore di lavoro formale, non opera il regime decadenziale, in quanto manca un atto scritto da impugnare (in LPO, 2022, n.5-6, 381 ss., con nota di Delogu, En attendant Godot: il termine di decadenza nell’ipotesi di appalto illecito decorre dalla (improbabile) comunicazione scritta del committente).

In senso conforme, si vedano anche Cass. 27.4.2022, n. 13202, Cass. 13.7.2022, n. 22168, nonché Cass. n. 14131 del 2020, citate direttamente nella parte motiva della decisione qui annotata.

Per completezza di ragionamento, si evidenzia che il provvedimento in esame ha affrontato anche la fattispecie del cambio appalto, citando espressamente alcuni i precedenti di legittimità (cfr. Cass. n. 36944 del 2022 e Cass. n. 36152 del 2023) ove è stato sostenuto che l’azione per l’accertamento e la dichiarazione del diritto di assunzione del lavoratore presso l’azienda subentrante non è assoggettata al termine di decadenza di cui all’art. 32 della legge n. 183 del 2010. In tal caso, infatti, non si configura la fattispecie di cui alla lett. c), riferita ai soli casi di trasferimento d’azienda, né in quella di cui alla lett. d) del medesimo articolo.

La citata norma, in realtà, presuppone non un semplice avvicendamento nella gestione, ma l’opposizione del lavoratore ad atti posti in essere dal datore di lavoro dei quali si invochi l’illegittimità o l’invalidità mediante azioni dirette a richiedere il ripristino del rapporto nei termini precedenti anche in capo al soggetto che si sostituisce al precedente datore.

A sostegno di tale assunto, pare opportuno segnalare anche Cass. 21.5.2019, n. 13648, secondo cui l’estensione del regime decadenziale si giustifica solo in presenza di fattispecie che presuppongono un provvedimento che, appunto, debba essere contestato, confutato e, quindi, impugnato, con la conseguenza che “fuoriescono dal perimetro del citato art. 32 tutte le ipotesi in cui non vi siano provvedimenti datoriali da impugnare, per denunciarne la nullità o l’illegittimità” (in merito si veda Panetta, La decadenza ex art. 32, l. n. 183/2010, non si applica al dipendente escluso dal trasferimento d’azienda, RGL, 2018, n. 4, II, 629 ss.).

In termini, sempre in tema di cambio appalto, va sicuramente indicato un altro rilevante precedente, Cass. 25.5.2017, n. 13179, ove è stato escluso che possa applicarsi la decadenza ex art. 32, l. n. 183/2010 all’azione per l’accertamento e la dichiarazione del diritto di assunzione del lavoratore presso l’azienda subentrante (sentenza pubblicata, rispettivamente, in RGL, 2018, n. 1, II, 74 ss., con nota di Aiello, nonché in LG, 2017, 1078 ss., con nota di Menicucci).

La Suprema Corte, in tale ultimo arresto del 2017, evidenziava come la fattispecie del cambio appalto non rientra nei casi previsti dalle lettere c) e d) del citato art. 32, in quanto le norme richiamate prevedono «non il semplice avvicendamento nella gestione, ma l’opposizione del lavoratore ad atti posti in essere dal datore di lavoro dei quali si invochi la illegittimità o l’invalidità con azioni dirette a richiedere il ripristino del rapporto nei termini precedenti…».

5. L’applicazione della norma di interpretazione autentica dell’art. 38 lgs. n. 81/2015 anche all’appalto illecito: inesistenza del licenziamento a non domino che non produce decadenza

L’ordinanza in commento, infine, a completamento delle proprie argomentazioni, ha osservato che l’interpretazione secondo cui il licenziamento adottato dal datore di lavoro formale non produce alcun effetto decadenziale nei confronti del datore effettivo risulta coerente con le recenti statuizioni adottate dalle ordinanze della Suprema Corte del 22.11.2023, n. 32412 e del 7.11.2023, n. 30945 del (in FI, 2023, 12, I, 3416).

Tali decisioni hanno stabilito infatti che l’impugnazione del licenziamento (intimato dal datore di lavoro formale) promossa nei confronti dello stesso datore di lavoro apparente non costituisce una preclusione ad agire in giudizio per l’accertamento della sussistenza di un’interposizione fittizia nei confronti dell’utilizzatore.

Ne consegue che le vicende relative al rapporto di lavoro formalmente in essere non incidono sul rapporto di lavoro dissimulato intercorrente con diverso datore di lavoro, dovendo applicarsi all’appalto, in via analogica, l’art. 38 del d.lgs. n. 81 del 2015 (come interpretato autenticamente dall’art. 80 bis del d.l. n. 34 del 2020, conv. con modif. dalla legge n. 77 del 2020) dettato per la somministrazione di lavoro (potendosi, dunque, imputare all’utilizzatore solo gli atti di costituzione o di gestione del rapporto, e non quelli di estinzione).

La Corte di Cassazione, infatti, con i citati provvedimenti n. 32412/2023 e n. 30945/2023, ha affermato alcuni principi di rilevante interesse sull’art. 80 bis, d.l. n. 34/2020, norma di interpretazione autentica dell’art. 38, comma 3, d.lgs. 81 del 2015, sulla quale vi era stato qualche dubbio interpretativo rispetto sia all’applicazione estensiva della stessa al caso dell’appalto non genuino sia sull’applicazione retroattiva ai giudizi in corso (in merito alle prime applicazioni giurisprudenziali su tale norma di interpretazione autentica, sia consentito rimandare a Salvagni,  Interposizione di manodopera e licenziamento giuridicamente inesistente: prime sentenze sull’interpretazione autentica dell’art. 38, c.3, d.lgs. n. 81/2015”, in RGL, n. 2/2021, Parte II, Newsletter n.4/2021, in cui sono state annotate Trib. Roma del 3.2.2021 e C. App. Roma del 22.2.2021, che, per prime, si erano occupate dalla fattispecie all’indomani della emanazione della norma in esame).

L’interpretazione autentica della citata disposizione ha un’importante portata chiarificatrice sulla fattispecie del licenziamento intimato dal datore di lavoro fittizio in tutti i casi di interposizione illecita di manodopera, appalto non genuino e somministrazione irregolare (come confermato nelle sentenze in commento).

In ragione di tale previsione legislativa, l’atto di recesso posto in essere dal datore interponente non può produrre effetti su quello interposto, con la conseguente inesistenza giuridica del recesso stesso in quanto proveniente a non domino.

La Cassazione, pertanto, mediante le statuizioni di entrambe le decisioni n. 32412 e n. 30945 del 2023, pone un primo “sigillo” sulla corretta interpretazione di tale norma, con le seguenti precisazioni. A parere di Cass. 32412/23, l’atto di recesso del datore di lavoro fittizio, così come per la somministrazione irregolare, non è assolutamente idoneo a produrre l’effetto estintivo del rapporto di lavoro anche nell’appalto illecito, rapporto che, pertanto, perdura alle dipendenze dell’effettivo utilizzatore delle prestazioni lavorative.

Altro tema è quello poi risolto da Cass. 30945/23 (principio richiamato anche da Cass. n. 32412/23) che stabilisce che tale interpretazione autentica ha efficacia retroattiva e si applica anche alle controversie precedenti alla emanazione di tale norma, come per quelle future.

Michelangelo Salvagni, avvocato in Roma

Visualizza il documento: Cass., ordinanza 8 marzo 2024, n. 6266

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