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La Corte costituzionale, con una sentenza “storica”, invita il legislatore a riconsiderare il sistema della responsabilità amministrativa dei dipendenti pubblici: verso un (auspicabile) cambio di paradigma

24 Luglio 2024|

Con l’epocale sentenza n. 132, depositata in data 16 luglio 2024, la Corte costituzionale ha statuito che non è incostituzionale la temporanea esclusione, sino al 31 dicembre del corrente anno, della responsabilità amministrativa per colpa grave dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti, con riferimento alle sole condotte commissive; contestualmente, il Giudice delle leggi ha invitato il legislatore ad una riforma organica e strutturale della materia, le cui linee direttrici (sia pur con riferimento a un diverso, ma contiguo e inscindibile settore, ossia il sistema preventivo-amministrativo dell’anticorruzione) erano state suggerite dallo scrivente in un recente lavoro (sia consentito il rinvio ad A. Ripepi, Anticorruzione e fiducia: un binomio possibile (?), in Ratio iuris, 15 aprile 2024, https://www.ratioiuris.it/anticorruzione-e-fiducia-un-binomio-possibile/).

Il tema, stante la fondamentale rilevanza che riveste per tutti i pubblici dipendenti, merita di essere trattato in modo ampio e approfondito. Muoviamo dal particolare per pervenire al generale.

Se è consentita una riflessione personale, poteva dirsi prevedibile la declaratoria di infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale con riferimento alla normativa (D.L. n. 76/2020) strettamente legata al “periodo covid-19”.

Infatti, l’art. 21, comma 2, del D.L. 16 luglio 2020, n. 76 (Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale), convertito, con modificazioni, nella legge 11 settembre 2020, n. 120, prevede, sino al 31 dicembre 2024 e in conseguenza di proroghe, per le condotte commissive degli agenti pubblici, una temporanea limitazione della responsabilità amministrativa alle sole ipotesi dolose.

La disposizione, come tutti ricorderanno, si giustificava in relazione al peculiarissimo contesto economico e sociale in cui l’emergenza pandemica da Covid-19 aveva determinato la prolungata chiusura delle attività produttive, con danni enormi per l’economia nazionale e ricadute negative sulla stessa coesione sociale e la tutela dei diritti e di interessi vitali per la società.

Per superare la grave crisi e rimettere in movimento il motore dell’economia, il legislatore, non irragionevolmente (a giudizio della Corte), ha ritenuto indispensabile che l’amministrazione pubblica operasse senza remore e non fosse, al contrario, a causa della sua inerzia, un fattore di ostacolo alla ripresa economica.

Le successive proroghe, invece, sono state ritenute giustificabili in quanto connesse all’inderogabile esigenza di garantire l’attuazione del PNRR e la conseguente ripresa di un sentiero di crescita economica sostenibile, oltre che il superamento di alcuni divari economici, sociali e di genere.

La Corte costituzionale ha inoltre affermato che, nel valutare la proporzionalità dell’intervento legislativo, non può prescindersi dal rilievo che la disposizione censurata origina da un contesto eccezionale, ha natura temporanea ed ha comunque un oggetto delimitato, riguardando solo le condotte commissive e non quelle “inerti” ed “omissive”.

Ma, sia consentito rilevarlo, ciò che più merita di essere evidenziato è l’invito a una rivalutazione, in ottica sistematica, del sistema di responsabilità amministrativa dei dipendenti pubblici, suggerendo «la ricerca, a regime, di nuovi punti di equilibrio nella ripartizione del rischio dell’attività tra l’amministrazione e l’agente pubblico, con l’obiettivo di rendere la responsabilità ragione di stimolo e non disincentivo all’azione» (Corte cost., 16 luglio 2024, n. 132).

Cerchiamo, dunque, di inquadrare il tema in modo ampio, così come propone anche la Corte costituzionale.

Nella sentenza in commento viene tracciato un mirabile affresco dell’evoluzione della Pubblica Amministrazione nell’ultimo ventennio.

I tasselli principali della riforma dell’Amministrazione italiana sono costituiti dalla l. 8 giugno 1990, n. 142 (“Ordinamento delle autonomie locali”), dalla l. 7 agosto 1990, n. 241 (“Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi”), dal decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (“Razionalizzazione della organizzazione delle Amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421”), nonché dalla l. 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa).

Tali fonti normative hanno segnato il passaggio da un’amministrazione che, secondo il modello dello Stato di diritto liberale, doveva dare semplicemente esecuzione alla legge, adottando un singolo e puntuale atto amministrativo, a quella che è stata definita “amministrazione di risultato”, in cui la dirigenza, resa finalmente autonoma dal potere politico, è responsabile del conseguimento degli obiettivi affidati dai vertici.

Il decisore pubblico, pertanto, è sempre meno relegato all’esecuzione di ciò che è già deciso con legge, ma è orientato al risultato, e – perciò – sempre più ampiamente investito del compito di «scegliere, nell’ambito della cornice legislativa, i mezzi di azione ritenuti più appropriati, di ponderare i molteplici interessi pubblici e privati coinvolti dalla decisione amministrativa, di legare insieme in un disegno unitario differenti atti e provvedimenti, e di assicurare l’efficienza, operando in un orizzonte temporale ben preciso (il tempo, a partire dall’art. 2 della legge n. 241 del 1990, non è più una variabile indipendente dell’agire amministrativo)» (Corte cost., 16 luglio 2024, n. 132).

La Corte rimarca come l’ampia discrezionalità, peraltro esercitata in un ambiente in cui la complessità istituzionale, sociale e giuridica è andata progressivamente crescendo, sia una componente essenziale e caratterizzante tale tipo di amministrazione. Infatti, la necessità di scegliere, entro un termine predeterminato, sovente tra un ventaglio ampio di possibilità e in un ambito non più integralmente tracciato dalla legge, accresce inevitabilmente la possibilità di errori da parte dell’agente pubblico, ingenerando il rischio della sua inazione.

Per evitare tale pericolo, come ricorda il Giudice delle leggi, l’art. 3, comma 1, lettera a), D.L. n. 543/1996, come convertito (modificando l’art. 1, comma 1, della legge n. 20 del 1994), ha escluso la colpa lieve dalla configurazione dell’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa, che pertanto è stata circoscritta ai casi di dolo o colpa grave.

La Corte costituzionale ha, storicamente, sempre confermato la legittimità costituzionale di tale sistema, evidenziando «l’intento di predisporre, nei confronti degli amministratori e dei dipendenti pubblici un assetto normativo in cui il timore della responsabilità non esponga all’eventualità di rallentamenti ed inerzie nello svolgimento dell’attività amministrativa» (Corte cost., 20 novembre 1998, n. 371).

Eppure, il fenomeno volgarmente noto come “paura della firma” non si è mai dissolto.

In disparte il periodo pandemico, del quale si è detto, si abbia riguardo (con riferimento alla normativa “a regime” e, dunque, svincolata da esigenze emergenziali e transeunti) al d.lgs. n. 36/2023, recante il “nuovo codice dei contratti pubblici”, uno dei settori in cui, come noto, il decisore pubblico è senz’altro più “a rischio”, considerati i rilevanti interessi economici coinvolti e le conseguenti responsabilità.

Come rileva autorevolmente anche la Corte costituzionale, l’art. 2 reca un evidente riferimento al “principio della fiducia”: di che si tratta, e, soprattutto, con una domanda tipica del buon giurista, “a cosa serve”?

Il principio della fiducia prevede quale termine di riferimento l’«azione legittima, trasparente e corretta dell’amministrazione, dei suoi funzionari e degli operatori economici» (art. 2, c. 1, D. Lgs. n. 36/2023).

Non è un caso che si tratti di un “principio” e non di una “regola”.

Come ha ricordato di recente un autorevole filosofo del diritto, «le regole implicano certamente un livello piuttosto ridotto di fiducia sia nei confronti dei consociati, sia nei confronti dei funzionari e degli apparati burocratici, sia di coloro che sono chiamati ad intervenire in caso di disobbedienza alle norme» (T. Greco, La legge della fiducia. Alle radici del diritto, Laterza, 2021, 116).

La normazione per principi, invece, implica un maggiore intervento dell’interprete, chiamato a concretizzare il precetto e, conseguentemente, una maggiore fiducia nei confronti degli apparati burocratici e degli esecutori in generale, che devono modulare la portata del principio a seconda della situazione concreta che si palesa all’attenzione di chi deve applicarlo (T. Greco, op. cit., 118).

Ora, il principio della fiducia ha portata bidirezionale, concernendo sia la P.A. che il cittadino, in quanto «ad un’amministrazione trasparente e corretta deve rapportarsi un cittadino – nella specie, un operatore economico – altrettanto trasparente e corretto» (F. Saitta, I principi generali del nuovo Codice dei contratti pubblici, 2023, disponibile in https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-processo-amministrativo/2799-i-principi-generali-del-nuovo-codice-dei-contratti-pubblici).

Il principio in esame, che non ha valenza esclusivamente e semplicemente declamatoria, come rivela il comma 4 dell’art. 2 in tema di copertura assicurativa dei dipendenti e formazione degli stessi, è animato da una filosofia di fondo descritta in modo illuminante dalla Relazione di accompagnamento: si tratta di «un segno di svolta rispetto alla logica fondata sulla sfiducia (se non sul “sospetto”) per l’azione dei pubblici funzionari, che si è sviluppata negli ultimi anni […] e che si è caratterizzata da un lato per una normazione di estremo dettaglio, che mortificava l’esercizio della discrezionalità, dall’altro per il crescente rischio di avvio automatico di procedure di accertamento di responsabilità amministrative, civili, contabili e penali che potevano alla fine rivelarsi prive di effettivo fondamento», le quali hanno generato «“paura della firma” e “burocrazia difensiva”», a loro volta «fonte di inefficienza e immobilismo e, quindi, un ostacolo al rilancio economico, che richiede, al contrario, una pubblica amministrazione dinamica ed efficiente» (Consiglio di Stato, Relazione agli articoli e agli allegati dello Schema definitivo di Codice dei contratti pubblici in attuazione dell’articolo 1 della legge 21 giugno 2022, n. 78, recante “Delega al Governo in materia di contratti pubblici”, disponibile in https://www.giustizia-amministrativa.it/documents/20142/17550825/3_CODICE+CONTRATTI+RELAZIONE.pdf/d3223534-d548-1fdc-4be4-e9632c641eb8?t=1670933091420 , 14).

Si tratta del fenomeno della “burocrazia difensiva”, cui il nuovo Codice vorrebbe porre rimedio dando, «sin dalle sue disposizioni di principio, il segnale di un cambiamento profondo, che – fermo restando ovviamente il perseguimento convinto di ogni forma di irregolarità – miri a valorizzare lo spirito di iniziativa e la discrezionalità degli amministratori pubblici, introducendo una “rete di protezione” rispetto all’alto rischio che accompagna il loro operato» (Consiglio di Stato, Relazione cit., 15).

Si tratta di un vero e proprio cambio di paradigma culturale, ancor prima che giuridico-normativo, che aveva già manifestato un punto di emersione con il D.L. n. 76/2020, teso a limitare i confini della responsabilità (penale ed erariale) dei dipendenti pubblici, concepita quale fattore alla base di rallentamenti e inerzie nello svolgimento dell’attività amministrativa, non ammissibili in un’epoca in cui il Paese si avviava a superare i danni cagionati dalla pandemia attraverso l’utilizzo dei fondi collegati al PNRR.

In tale contesto, e in disparte il recentissimo intervento abolitivo dell’art. 323 c.p., il legislatore ha ritenuto opportuno contenere in via transitoria la responsabilità per colpa grave alla sola ipotesi omissiva, quale stimolo all’azione e all’adozione di decisioni necessarie per evitare la paralisi burocratica.

È  fuor di dubbio che tale intervento normativo abbia attirato numerose critiche, incentrate sull’indebita equiparazione della condotta gravemente colposa (ma non sanzionabile) al comportamento rispettoso del dovere costituzionale di adempiere le funzioni pubbliche con disciplina e onore e pienamente conforme agli obblighi di servizio (L. Carbone, Una responsabilità erariale transitoriamente “spuntata”. Riflessioni a prima lettura dopo il d.l. 16 luglio 2020, n. 76 (c.d. “decreto semplificazioni”), in federalismi.it, n. 30/2020, 10), sul rischio di deresponsabilizzazione della dirigenza pubblica (M. Gerardo, I quattro pilastri governativi per l’utilizzo efficiente del Recovery Fund: scelta di “buoni” progetti, semplificazione delle procedure, reperimento di adeguate professionalità, limitazione delle responsabilità gestorie. Analisi e rilievi, in Rassegna Avvocatura dello Stato, n. 4/2020, 233), sulla implicita legittimazione di un ampio catalogo di fattispecie gravemente lesive dell’integrità patrimoniale pubblica ex artt. 81 e 97 Cost. (D. Immordino, Responsabilità erariale e “buona amministrazione” nell’evoluzione dell’interesse pubblico, in Rivista Corte dei conti, n. 3/2022, 75), sull’impatto negativo dell’attenuazione dei controlli giurisdizionali contabili sulle strategie di prevenzione della corruzione, dovuto alla creazione di ampie aree di deresponsabilizzazione e di impunità nell’ipotesi di utilizzo improprio degli aiuti comunitari (F. Albo, Limitazione della responsabilità amministrativa e anticorruzione: il PNRR è adeguatamente protetto?, 2021, disponibile in https://dirittoeconti.it/limitazione-della-responsabilita-amministrativa-e-anticorruzione-il-pnrr-e-adeguatamente-protetto/).

Tuttavia, è altrettanto certo che il concetto di lotta alla “burocrazia difensiva” sia riemerso, a distanza di quasi tre anni, nella ratio dell’art. 2 D. Lgs. n. 36/2023 e sia stato espressamente citato dalla Relazione di accompagnamento al nuovo codice dei contratti, simbolo di un chiaro (e perdurante) intento del legislatore che, in quanto frutto del recepimento di istanze sociali ben definite, non può essere tout court ignorato dall’interprete (A. Ripepi, Anticorruzione e fiducia cit.).

Oggi, finalmente, la Corte costituzionale fornisce una risposta autorevole a questo problema, tracciando la via che il legislatore futuro (si spera!) dovrà seguire.

E sembra opportuno, proprio su questo punto, soffermarsi su un punto della motivazione della sentenza, che chi scrive aveva già cercato di valorizzare, negli stessi termini, per suggerire un ripensamento del sistema amministrativo dell’anticorruzione, che è legato – come noto – a doppio filo alla responsabilità amministrativo-contabile.

Nei decenni successivi alla riforma della responsabilità amministrativa attuata dalla L. n. 20/1994, la complessità dell’ambiente in cui operano gli agenti pubblici si è accresciuta a dismisura, rendendo più difficili le scelte amministrative in cui si estrinseca la discrezionalità e più facile l’errore, anche grave.

La Corte, sul punto, richiama alcune tendenze.

In primo luogo, evidenzia come l’individuazione delle norme da applicare al caso concreto sia estremamente problematica e «sovente non dia luogo a risultati univoci, a causa di un sistema giuridico multilivello in cui operano fonti di provenienza diversa (eurounitaria, statale, regionale e locale), spesso tra loro non coordinate».

A ciò si aggiungono le difficoltà interpretative derivanti da una caotica produzione legislativa, alimentata dalla “fame di norme” delle società moderne e dal ricorso frequente da parte della legge a “compromessi dilatori”, che «trasferiscono quasi interamente sull’amministrazione il compito di determinare l’assetto di interessi ed esigenze tra loro confliggenti».

Ancora, non possono non essere tenuti in considerazione i costanti tagli alle risorse finanziarie, umane e strumentali delle amministrazioni, a causa delle ben note esigenze di bilancio e di spending review, in presenza di un elevatissimo debito pubblico.

«Amministrare con mezzi spesso inadeguati – rileva la Corte – accresce il rischio che il dipendente pubblico commetta un errore, che potrebbe essere qualificato in sede di responsabilità amministrativa come frutto di grave negligenza».

In terzo luogo, vi sono alcune tendenze strutturali delle odierne società e dei loro sistemi amministrativi.

«Da un lato, il pluralismo sociale e il pluralismo istituzionale si proiettano nei procedimenti amministrativi e nelle istituzioni pubbliche, rendendo sempre più problematica ed esposta alla contestazione la ponderazione di tali interessi in cui si risolve l’esercizio della discrezionalità amministrativa. Dall’altro, vi è il moltiplicarsi dei rischi provocati dalla stessa attività umana e che spesso sono conseguenze non intenzionali dello sviluppo tecnologico ed economico (rischi ambientali, sanitari, connessi al clima, legati alle dinamiche delle catene globali del valore, finanziari, inerenti alla sicurezza pubblica, et cetera)».

Tali evoluzioni hanno accentuato la “fatica dell’amministrare”, rendendo difficile l’esercizio della discrezionalità amministrativa e stimolando, come reazione al rischio percepito di incorrere in responsabilità, proprio la “burocrazia difensiva”.

Ebbene, tali argomentazioni fanno il paio con quelle, molto meno autorevoli, di chi tentava di valorizzare – esattamente negli stessi termini – la discrezionalità del decisore amministrativo nell’ottica di una proposta di riforma del sistema anticorruzione.

In quella sede (A. Ripepi, Anticorruzione e fiducia cit.) si è osservato come i fattori abilitanti della corruzione possano essere espressi attraverso una formula matematica, secondo cui C = M + D – T – A: il livello di corruzione (C) si associa alla presenza di posizioni monopolistiche di rendita (M) e all’esercizio di poteri discrezionali (D), ed è inversamente collegato al grado di trasparenza (T) e di accountability (A) dell’agente (Commissione “Garofoli”, La corruzione in Italia. Per una politica di prevenzione. Rapporto della Commissione per lo studio e l’elaborazione di proposte in tema di trasparenza e prevenzione della corruzione nella pubblica amministrazione, 2012, disponibile in https://www1.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/sezioni/sala_stampa/documenti

/anticorruzione/2012_10_23_rapporto_corruzione_in_Italia.html_8783072.html, 20).

Dunque, nelle classiche teorie dell’anticorruzione, la discrezionalità figura quale fattore che, potenzialmente, può agevolare fenomeni corruttivi (e, per quel che rileva in questa sede, può determinare risposte severe in chiave sanzionatoria amministrativo-contabile).

Si tratta, tuttavia, di una filosofia di fondo non condivisibile e, anzi, controproducente, in quanto mortifica l’iniziativa del pubblico dipendente, in netto contrasto con il principio della fiducia che, come anticipato, è oggi desumibile da una norma cogente di legge, senza trascurare l’ulteriore conseguenza negativa dell’incremento dei costi di transazione e controllo (A. Zatti, Un quadro in tumultuoso divenire, in P. Previtali – R. Procaccini – A. Zatti (a cura di), Trasparenza e anticorruzione: la nuova frontiera del manager pubblico, Pavia University Press, 2016, 12).

Tali acquisizioni, come si è avuto modo di evidenziare in altra sede (A. Ripepi, Principio della fiducia ed estensione del sindacato giurisdizionale del giudice amministrativo, in GI, n. 4/2024, 890-893), sono frutto di una precisa evoluzione storica, legata soprattutto al settore degli appalti pubblici (che, non a caso, genera numerosissime fattispecie di responsabilità amministrativa).

Le vicende di Tangentopoli dimostrarono l’inadeguatezza dell’assetto normativo allora vigente e suggerirono l’irrigidimento del sistema, con preferenza per l’azzeramento della discrezionalità dei funzionari pubblici e il ricorso alla gara per esigenze di trasparenza, unitamente alla diffusione del criterio di aggiudicazione del prezzo più basso, che avrebbe reso meccanicistiche (M.A. Sandulli – A. Cancrini, I contratti pubblici, in F. Merloni – A. Vandelli (a cura di), La corruzione amministrativa cit., 441-443) le procedure nella misura in cui il privato si limitava a indicare il corrispettivo in denaro, «la sola cosa rimasta in bianco dello schema adottato dalla pubblica amministrazione» (S. Fantini – H. Simonetti, Le basi del diritto dei contratti pubblici, Giuffré, 2019, 23).

Il D. Lgs. n. 163/2006 confermò questa tendenza alla iper-regolamentazione, ma fu accusato di rigidità e di sostanziale inidoneità a combattere il fenomeno corruttivo; inoltre, andò consolidandosi la consapevolezza del fatto che a poco serve limitare la discrezionalità dei funzionari se il quadro normativo è denso e incerto, aperto a diverse possibili interpretazioni, nell’ambito di una complessità che rende difficile distinguere condotte in buona fede o meno, con il rischio di eccessiva pressione sugli operatori pubblici e conseguente paralisi dell’azione amministrativa (S. Torricelli, Disciplina degli appalti e strumenti di lotta alla “corruzione”, in Diritto pubblico, n. 3/2018, 953-977; M. Cafagno, Contratti pubblici, responsabilità amministrativa e “burocrazia difensiva”, in Il diritto dell’economia, n. 3/2018, 33).

Il D. Lgs. n. 50/2016 avrebbe dovuto risolvere questo problema di “bulimia e incertezza legislativa, ponendo ex ante le regole certe (perché prodotte dell’autorità di regolazione e validate dal Consiglio di Stato), tramite linee guida prontamente aggiornate e aggiornabili a fronte di eventuali modifiche legislative sopravvenute» (E. Carloni, L’anticorruzione. Politiche, regole, modelli, Il Mulino, 2023, 240).

Nonostante gli aspetti indubbiamente positivi, quali l’istituzione della Banca Dati Nazionale dei Contratti pubblici, ne è risultato un complesso normativo in cui la parola “corruzione” era reiterata numerose volte, senza trascurare l’impressione generalizzata di una certa sfiducia nei confronti delle stazioni appaltanti e l’eccessiva preoccupazione di evitare reati piuttosto che garantire il buon funzionamento del mercato dei contratti pubblici (M. Delsignore – M. Ramajoli, La prevenzione della corruzione e l’illusione di un’amministrazione senza macchina, RTDP, n. 1/2019, 61 ss.).

D’altronde, lo stesso legislatore sembra aver manifestato insofferenza nei confronti del soffocamento dell’iniziativa dei dipendenti preposti all’aggiudicazione delle gare, come dimostra l’imporsi di modelli alternativi, quali il “contromodello Genova”, il decreto “sblocca-cantieri” e, da ultimo, l’avvento del PNRR. Come avvertito anche dalla Corte costituzionale nella pronuncia in commento, infatti, si tratta di un contesto in cui si avverte l’esigenza di realizzare le opere pubbliche nel minor tempo possibile al fine di rendicontare in sede europea, come dimostra – prima ancora dell’entrata in vigore del nuovo codice dei contratti – l’impostazione del D.L. n. 77/2021, recante «un binario parallelo per gli investimenti che riguardano il Pnrr» (P. Lazzara, Introduzione al sistema dei contratti della pubblica amministrazione, in Id. (a cura di), Il diritto dei contratti pubblici. Temi e questioni, Aracne, 2021, 22)

L’affresco storico rapidamente tratteggiato dimostra come l’eccessiva enfatizzazione della “lotta alla discrezionalità”, nel settore dei contratti pubblici così come in qualsiasi altro ambito dell’azione amministrativa, possa condurre a conseguenze paradossali, pervenendo a una visione razionalistica e meccanicistica della pubblica amministrazione che, con l’eliminazione dell’elemento personale come fattore di insicurezza, riesce a concepirsi in modo ideale.

Si tratta dell’estremizzazione di quell’impostazione di base secondo cui «il civil servant è intrinsecamente visto come un potenziale corrotto, a cui va messa una stretta briglia con finalità contenitive e preventive» (A. Zatti, Un quadro in tumultuoso divenire cit., 12).

Che tale impostazione non sia condivisibile lo dimostra lo stesso legislatore, allorquando fa riferimento all’iniziativa e autonomia decisionale dei funzionari pubblici (art. 2, c. 2, D. Lgs. n. 36/2023), nonché la Relazione di accompagnamento, la quale afferma che «il nuovo codice vuole dare, sin dalle sue disposizioni di principio, il segnale di un cambiamento profondo, che – fermo restando ovviamente il perseguimento convinto di ogni forma di irregolarità – miri a valorizzare lo spirito di iniziativa e la discrezionalità degli amministratori pubblici» (Relazione agli articoli e agli allegati del Codice cit.,15.).

La discrezionalità, infatti, è il nucleo essenziale del potere amministrativo, implicante la ponderazione di interessi primari e secondari, pubblici e privati, che è il proprium della funzione amministrativa. Un sistema anticorruzione e di responsabilità amministrativa che voglia dirsi rivisitato nelle fondamenta e adeguato alla nuova visione legislativa, più che irreggimentare i procedimenti e i processi sino a soffocare qualsiasi spiraglio di discrezionalità, dovrebbe focalizzarsi sull’adeguatezza della motivazione, presupposto, fondamento, baricentro ed essenza stessa del legittimo esercizio del potere amministrativo nonché presidio di legalità sostanziale insostituibile (Corte cost., ord. 26 maggio 2015, n. 92).

Solo la motivazione, a prescindere dal singolo e atomistico adempimento procedimentale, può dare evidenza delle scelte compiute e delle ragioni di fatto e di diritto che le sorreggono, così consentendo la comprensibilità del provvedimento, il sindacato giurisdizionale e il controllo diffuso da parte della collettività (B. Marchetti, Il principio di motivazione, in M. Renna – F. Saitta (a cura di), Studi sui principi del diritto amministrativo, Giuffré, 2011, 521-522, ove l’Autrice evidenzia l’evoluzione dalla concezione garantistica per il privato allo strumento di accountability delle decisioni delle amministrazioni internazionali con ampi riferimenti di diritto comparato).

Tale rivoluzione culturale condurrebbe a superare quello che autorevole dottrina definisce “declino della decisione motivata” e che incide negativamente sulla legittimazione dei pubblici poteri, che un sistema anticorruzione virtuoso dovrebbe aiutare a recuperare, più che ad annullare del tutto (M. Ramajoli, Il declino della decisione motivata, in L. Giani – M. Immordino – F. Manganaro, Temi e questioni di diritto amministrativo, Editoriale Scientifica, 2019, 168-169).

Esaurita la panoramica sull’importanza della motivazione, e tornando alla sentenza oggetto del nostro commento, la Corte evidenzia come il consolidamento dell’amministrazione di risultato e i profondi mutamenti del contesto in cui essa opera giustifichino la ricerca legislativa di nuovi punti di equilibrio, «che riducano la quantità di rischio dell’attività che grava sull’agente pubblico, in modo che il regime della responsabilità, nel suo complesso, non funga da disincentivo all’azione».

Infatti, come avviene anche per altre forme di responsabilità e come può dirsi anche per il sistema anticorruzione, è necessario ricercare un equilibrio tra i pericoli di overdeterrence e underdeterrence. Non esiste una disciplina che li escluda entrambi, e il legislatore è chiamato inevitabilmente a decidere di contrastare prevalentemente l’uno o l’altro, e inversamente di considerare socialmente più accettabile un pericolo anziché l’altro.

Questo non significa che il legislatore possa, per il futuro, prevedere una riforma a regime ordinario che limiti la responsabilità amministrativa alla sola ipotesi del dolo; mentre ciò è giustificabile con riferimento alle istanze del periodo emergenziale, estendere in modo incondizionato tali connotati comporterebbe, per l’appunto, una pericolosa underdeterrence.

In tale evenienza, infatti, non si realizzerebbe una ragionevole ripartizione del rischio, che invece sarebbe addossato in modo assolutamente prevalente alla collettività, la quale dovrebbe sopportare integralmente il danno arrecato dall’agente pubblico. I comportamenti macroscopicamente negligenti non sarebbero scoraggiati e, pertanto, la funzione deterrente della responsabilità amministrativa, strumentale al buon andamento dell’amministrazione, ne sarebbe irrimediabilmente indebolita.

Tuttavia, la Corte non si esime dal fornire qualche “suggerimento” al legislatore.

In primo luogo, si propone di considerare l’introduzione di una tipizzazione della colpa grave, per evitare l’incertezza generata dalla declinazione giudiziaria di tale nozione.
Ancora, si consiglia l’introduzione di un limite massimo di addebitabilità del danno al dipendente pubblico, superato il quale il danno resta a carico dell’amministrazione nel cui interesse esso agisce, e firme di rateizzazione dell’adempimento.
Con riguardo, poi, al c.d. potere riduttivo (su cui v. Tenore, La nuova Corte dei conti, Giuffré, 2022, 379 ss.), si dovrebbe ponderare l’abbinamento all’attuale fattispecie ordinaria, affidata alla discrezionalità del giudice, di «ulteriori fattispecie obbligatorie normativamente tipizzate nei presupposti».
È meritevole di considerazione, poi, anche il rafforzamento delle funzioni di controllo della Corte dei Conti e, in chiave di tutela dell’affidamento, l’introduzione di una esenzione da responsabilità colposa per i funzionari che si adeguino alle sue indicazioni.
Ancora, sulla medesima scia di quanto si è detto con riferimento al delicato settore dei contratti pubblici (art. 2 D. Lgs. n. 36/2023), occorrerebbe incentivare l’utilizzo delle
polizze assicurative per il rischio di responsabilità erariale, e tanto nell’interesse sia dell’agente pubblico che della stessa amministrazione danneggiata.
Si suggerisce, inoltre, di valutare l’opportunità di introdurre «una eccezionale esclusione della responsabilità colposa per specifiche categorie di pubblici dipendenti» (anche solo in relazione a determinate tipologie di atti) «in ragione della particolare complessità delle loro funzioni o mansioni».
Infine, occorre scongiurare la attuale moltiplicazione delle forme di responsabilità degli amministratori per i medesimi fatti materiali, che spesso non sono coordinate tra loro.

Com’è agevole osservare, si tratta di proposte di riforma simili, se non in parte identiche, a quelle già proposte da chi scrive nel settore anticorruzione, e che appaiono espressione di un principio più generale: la fiducia.

Il dipendente pubblico, sia consentito osservarlo con un po’ di colore, non è un “sorvegliato speciale”, un soggetto scarsamente preparato che rischia di sbagliare (o, peggio, di farsi corrompere) a ogni pie’ sospinto, e, dunque, da tenere “sott’occhio”.

Al di là di discorsi banalmente e vuotamente retorici, il dipendente pubblico è “al servizio della Nazione” (F. Merloni – R. Cavallo Perin, Al servizio della Nazione. Etica e statuto dei funzionari pubblici, FrancoAngeli, 2009) e, in quanto tale, dev’essere opportunamente incentivato e incoraggiato.

Il prezioso operato della magistratura contabile non deve necessariamente esplicarsi solo in chiave repressivo-sanzionatoria, specie laddove il rischio di errore è agevolato dalla confusione normativa, dalla complessità tecnica di interi settori normativi e dalla difficoltà di bilanciare numerosi interessi in gioco, ma ben può evolversi valorizzando le componenti del controllo, soprattutto quello collaborativo (secondo una tendenza che, pure, è possibile registrare nel nostro sistema).

Allo stesso modo, imprimere al sistema anticorruzione una “impropria curvatura penalistica” (S. Battini, La riforma deformata della Costituzione amministrativa italiana: una retrospettiva a vent’anni dal d. lgs. n. 165 del 2001, in Istituzioni del federalismo, n. 2/2021, 319) non è certo la soluzione dei problemi legati alla maladministration.

Sia chiaro (ma dovrebbe essere evidente all’esito di questo complesso e, si spera, non troppo noioso argomentare) che i corrotti vanno puniti e che gli errori gestionali nell’amministrazione della cosa pubblica vanno senz’altro contrastati.

Quest’obiettivo, però, può essere perseguito abbandonando quella retorica (purtroppo diffusa in parte dell’opinione pubblica) del dipendente pubblico “fannullone”, scarsamente preparato e propenso a contegni poco trasparenti, che ha alimentato (silenziosamente quanto ineluttabilmente) tutti gli interventi normativi che hanno determinato aggravamenti delle varie forme di responsabilità dei dipendenti pubblici.

Invece, un approccio basato sulla fiducia, che non è professione di mero “buonismo”, ma è al centro di notevoli elaborazioni dottrinali (T. Greco, op. cit.) e, soprattutto, configura un principio giuridico, e dunque cogente, potrà determinare quel cambio di paradigma che, oggi, la Corte costituzionale ci invita a percorrere, tracciandone la via.

Antonino Ripepi, procuratore dello Stato in Reggio Calabria

Visualizza il documento: C. cost., 16 luglio 2024, n. 132

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