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La cessazione per fine pena del rapporto di lavoro intramurario svolto alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria dà luogo ad uno stato di disoccupazione involontaria

9 Aprile 2024|

Una breve premessa

In attuazione dei sottesi principi costituzionali (artt. 1, 4 e 27 Cost.), l’art. 15 della legge n. 354/1975 (recante “Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”), ha individuato il lavoro come uno degli elementi del trattamento rieducativo (al pari dell’istruzione, della formazione professionale, alla partecipazione a progetti di pubblica utilità, ad attività culturali, ricreative, sportive, all’agevolazione di opportuni contatti con i mondo esterno e ai rapporti con la famiglia), stabilendo espressamente che, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è assicurata un’occupazione lavorativa.

Le caratteristiche e le modalità di svolgimento dell’attività lavorativa delle persone in stato di detenzione sono definite dall’art. 20 della citata legge, nel testo novellato dai dd.lgs. n. 123 e 124/2018 (attuativi della legge-delega n. 103/2017), allineando così il lavoro svolto dalle persone detenute sostanzialmente a quello svolto dai cittadini liberi.

Più nello specifico, il nuovo art. 20 della legge n. 354/1975, ai commi 1 e 2, stabilisce rispettivamente, che: negli Istituti penitenziari devono essere favorite in ogni modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro e la loro partecipazione a corsi di formazione professionale; il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato. Il successivo comma 13 prevede poi che la durata delle prestazioni lavorative non può superare i limiti stabiliti dalle leggi vigenti in materia di lavoro con alcune importanti garanzie.

Il lavoro di che trattasi non è obbligatorio, in ragione del principio di libera adesione al trattamento, non è afflittivo, ha una funzione risocializzante e deve favorire l’acquisizione di una formazione professionale adeguata al mercato.

I detenuti che lavorano alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria percepiscono una remunerazione pari ai 2/3 di quanto stabilito dai contratti collettivi nazionali di lavoro; hanno quindi diritto anche alle ferie e alle assenze per malattia retribuite, alla dovuta contribuzione assistenziali e previdenziale e, come meglio vedremo appunto più avanti, anche al trattamento economico dovuto a seguito di disoccupazione involontaria.

Il lavoro dei detenuti può svolgersi alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria e alle dipendenze di soggetti esterni, essendo all’evidenza l’unica differenza quella data dall’organizzazione dell’attività lavorativa, rimanendo immutata la medesima natura giuridica, riconducibile allo schema del rapporto di lavoro subordinato di diritto privato.

Il d.lgs. n. 124/2018, con l’introduzione dell’art. 20-ter e con la modifica del comma 4-ter dell’art. 21 della legge n. 354/1975, ha inoltre definito, in un’ottica dichiaratamente riparativa, un’altra modalità di lavoro penitenziario: il lavoro di pubblica utilità, fattispecie però completamente distinta dall’analogo istituto previsto come sanzione penale sostitutiva della detenzione (e regolato da diverse disposizioni normative nel tempo emanate).

Allo stato, il diritto alla NASpI, mentre è pacificamente riconosciuto in caso di cessazione dell’attività di lavoro svolta dai detenuti all’esterno del carcere, alle dipendenze di datori di lavoro diversi dall’Amministrazione penitenziaria, non lo è altrettanto nelle ipotesi di lavoro all’interno delle strutture penitenziarie, accesso ammesso però dalla giurisprudenza (ribadiamo, allo stato solo di merito) che va sempre più consolidandosi sul punto, alla luce della (colpevole) assenza di una specifica disciplina normativa di dettaglio.

L’incisiva presenza in tal senso da parte della magistratura del lavoro trae sostanzialmente origine dal messaggio dell’Inps n. 909 del 5 marzo 2019 che, a sostegno della propria posizione negatoria del trattamento indennitario in esame, fa essenzialmente leva sulla sentenza della Corte di Cassazione, Sez. Pen. I, n. 18505 del 3-25 maggio 2006, secondo la quale «l’attività lavorativa svolta dal detenuto all’interno dell’Istituto penitenziario ed al medesimo assegnata dalla Direzione del carcere non è equiparabile alle prestazioni di lavoro svolte al di fuori dell’ambito carcerario e, comunque, alle dipendenze di datori di lavoro diversi dall’Amministrazione penitenziaria. Detta attività, infatti, ha caratteri del tutto peculiari per la sua precipua funzione rieducativa e di reinserimento sociale e per tale motivo prevede la predisposizione di graduatoria per l’ammissione al lavoro ed è soggetta a turni di rotazione ed avvicendamento che non possono essere assimilati a periodi di licenziamento che, in quanto tali, danno diritto all’indennità di disoccupazione».

Orbene, emerge che l’indicata sentenza della Suprema Corte si riferisce alla (sola e particolare) fattispecie relativa ai periodi di inattività tra un periodo e l’altro di lavoro prestato alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, situazione all’evidenza del tutto diversa rispetto ad altre fattispecie che hanno invece diversamente determinato, ad avviso dei vari giudici del lavoro aditi, il diritto a poter percepire la NASpI.

L’argomento è già stato trattato sulla Rivista Labor (La disoccupazione involontaria dei detenuti lavoratori alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria supera (per ora) la prova della NASpI, di V. A. Poso, in Labor, 27 Gennaio 2022), a commento delle sentenze del: Trib. Milano, 10.11.2021, n. 2718Trib. Padova, 15.11.2021, n. 603App. Torino, 26.10.2021, n. 523.

Ma in giurisprudenza di merito ci sono stati anche altri interventi: Tribunale di Venezia, sent. n. 494/2020 del 15 dicembre 2020 (di analogo, ammissivo tenore le sentenze n. 886 2019 del 24.01.2020 e n. 289 del 29.07.2020); Tribunale di Padova, sent. n. 603 del 15.11.2021; Tribunale di Verona, sent. n. 54 del 07.02.2022; Tribunale di Firenze, sent. n. 311 del 05.05.2022; Tribunale di Siena, sent. n. 60 del 01.06.2022; Tribunale di Milano, sent. n. 1988 del 06.09.2022.

Con la recente sentenza n. 396 del 5 gennaio 2024, qui annotata, sul tema è intervenuta anche la Sezione Lavoro della Suprema Corte.

Il fatto

Un detenuto aveva lavorato alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria presso una casa circondariale fino alla sua scarcerazione per fine pena e che, avendo maturato il requisito contributivo e lavorativo di cui all’art. 3 del d.lgs. n. 22/2015, aveva richiesto all’Inps la corresponsione della NASpI, istanza respinta dall’istituto. Il conseguente ricorso al tribunale di Milano è stato poi accolto.

La Corte d’appello di Torino, nel confermare la sentenza emessa dal Tribunale del medesimo capoluogo (che aveva accertato che un lavoratore in epigrafe -che aveva prestato quale ristretto nella casa circondariale attività lavorativa intramuraria alle dipendenze del ministero della Giustizia fino alla sua scarcerazione per fine pena aveva diritto all’indennità NASpI), condannando l’Inps al pagamento della relativa indennità, attesa la presenza di tutti i requisiti previsti dalla legge per detta prestazione, in particolare, i 30 giorni di lavoro nei 12 mesi precedenti la cessazione involontaria del rapporto di lavoro.

Da qui il ricorso dell’Inps, affidato ad un unico motivo con il quale veniva dedotta la violazione degli artt. 1, 2, 3 e 7 del d.lgs. n. 22/2015, per avere il collegio di seconde cure trascurato le peculiarità del lavoro intramurario e la sua non assimilabilità al lavoro subordinato nonché, per altro verso, la non involontarietà dello stato di disoccupazione conseguente alla cessazione del rapporto per fine pena.

Il ricorso è stato però rigettato perché infondato.

Il decisum

L’Inps ha posto due distinte questioni: a) la prima, se il lavoro in questione sia un lavoro subordinato e se il medesimo abbia la ordinaria protezione previdenziale; b) la seconda, se la disoccupazione che consegue alla fine del trattamento penale possa essere considerata involontaria e consenta così la richiesta tutela previdenziale.

Con riguardo alla prima questione, l’Inps evidenziava le peculiarità del lavoro carcerario intramurario (quanto alla costituzione, retribuzione, disciplina, cessazione) e la non parificazione dello stesso con il lavoro del libero mercato, nonché l’inapplicabilità nella specie dell’art. 19 co. 3, della legge n. 56/1987 (che riguarda la tutela previdenziale del lavoratore che in costanza di lavoro ordinario viene a trovarsi in stato di detenzione).

Premesso che, nei fatti, il lavoratore aveva svolto appunto lavoro intramurario, ossia quel lavoro carcerario che (tra i vari tipi di lavoro svolto dai detenuti) si effettua all’interno degli istituti di pena e alle dipendenze della stessa amministrazione penitenziaria e che la vecchia disciplina –R.D. 18.06.1931 n. 787) lo configurava come parte integrante della pena e come strumento di ordine e disciplina, la sentenza in commento ripercorre l’evoluzione del “lavoro carcerario”, richiamando anche alcune decisioni della Corte costituzionale (la n. 158/2001, la n. 1087/1988, la n. n. 49/1992, la n. 241/2006).

Ad avviso del collegio di legittimità, il fine rieducativo del lavoro dei detenuti non influisce sui contenuti della prestazione e sulle modalità di svolgimento del rapporto: la rieducazione ed il reinserimento sociale, lungi dall’essere elementi che alterano lo schema causale del rapporto, costituiscono il fine del lavoro, l’auspicabile effetto dell’applicazione del detenuto ad un’attività lavorativa; in altri termini, è la prestazione di lavoro in sé che ha un potenziale rieducativo per i vari e diversi effetti che può produrre a favore della persona del detenuto (dal riempimento di un tempo altrimenti vuoto all’acquisizione di competenze professionali, al conseguimento di disponibilità economiche da destinare al mantenimento della famiglia ed al proprio futuro), tutti utili per agevolare il reinserimento della persona nella società libera e scongiurare effetti di isolamento e desocializzazione.

Anzi, ben può affermarsi che il lavoro carcerario è tanto più rieducativo quanto più è uguale a quello dei liberi.

L’assimilazione del lavoro intramurario a quello ordinario –pur a fini diversi da quelli che rilevano nella fattispecie in esame- è stata del resto già più volte affermata nella giurisprudenza di legittimità (v. sent. n. 5605/1999, sent. n. 9969/2007; ord. n. 27340/2019; sent. n. 8055/199; ord. n. 12205/2019), equiparazione poi affermata con il d.lgs. n. 124/2018, normativamente sancita esplicitamente e ad ogni effetto.

Essendo venuto meno l’obbligo del lavoro, anche il nesso con la pena si è fatto meno stringente; il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato e l’organizzazione e i 10 metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale, oltre al fatto che ai detenuti è garantita, nei limiti degli stanziamenti regionali, la tutela assicurativa e ogni altra tutela prevista dalle disposizioni vigenti.

Con riguardo alla tutela previdenziale spettante ai lavoratori detenuti (l’art. 20, co. 17, dell’O.P. prevede in generale l’applicazione al lavoratore detenuto della tutela previdenziale ed assistenziale), richiamate alcune disposizioni, ad avviso della sentenza in commento emerge che il lavoro intramurario è equiparato al lavoro subordinato anche ai fini previdenziali ed assistenziali: anzi, le norme speciali previste sono norme di maggior favore.

Una conclusione questa confortata anche dalle indicazioni in materia che derivano dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che si è occupata della previsione della Convenzione EDU che consente il lavoro carcerario purché si tratti di lavoro “normalmente richiesto” alle persone in stato detentivo (art. 4 Convenzione).

Nel caso r.g. n. 37452/2002, deciso il 07.07.2011 la Corte, nell’esaminare la doglianza relativa alla dedotta violazione degli articolo 14 della Convenzione (che prevede il divieto di discriminazione) in combinato disposto con l’art. 1 del Protocollo 1 (che prevede la tutela dei beni), ha evidenziato che le peculiarità del lavoro carcerario rispetto al lavoro ordinario in sé non rilevano ai fini della soluzione del problema in questione, perché le dette peculiarità restano del tutto estranee al thema decidendum e sono inidonee come tali a fondare la soluzione del problema sottoposto.

Secondo la Corte EDU “Il lavoro carcerario differisce sotto molti aspetti dal lavoro svolto dai dipendenti ordinari. Ha lo scopo primario di riabilitazione e risocializzazione. L’orario di lavoro, la retribuzione e l’utilizzo di parte di essa come contributo di mantenimento riflettono il particolare contesto carcerario. Inoltre, nel sistema austriaco, all’obbligo di lavorare dei detenuti corrisponde l’obbligo delle autorità penitenziarie di fornire loro un lavoro adeguato. In effetti, tale situazione è ben lontana da un regolare rapporto datore di lavoro-dipendente.

Si potrebbe sostenere che, di conseguenza, il ricorrente -in quanto detenuto che lavorava- non si trovava in una situazione sostanzialmente simile a quella dei dipendenti ordinari. Tuttavia, secondo la Corte, né il fatto che il lavoro penitenziario miri al reinserimento e alla risocializzazione, né il carattere obbligatorio del lavoro penitenziario sono decisivi nel caso di specie. Inoltre, la Corte ritiene che non sia decisivo se il lavoro viene svolto per le autorità penitenziarie, come nel caso del ricorrente, o per un datore di lavoro privato, sebbene in quest’ultimo caso 13 sembri esserci una maggiore somiglianza con un regolare rapporto di lavoro. Ciò che è in discussione nel caso di specie non è tanto la natura e lo scopo del lavoro penitenziario in sé, quanto piuttosto la necessità di provvedere alla vecchiaia. La Corte ritiene che a questo riguardo il ricorrente, in quanto detenuto che lavorava, si trovava in una situazione sostanzialmente simile a quella dei dipendenti ordinari”

Secondo la sentenza in commento, il lavoro intramurario è del tutto equiparabile al lavoro ordinario anche ai fini previdenziali e le peculiarità del rapporto non rilevano in alcun modo ai fini della soluzione del problema relativo alla spettanza o meno della tutela previdenziale, per la quale occorre guardare alla natura e funzione della tutela medesima.

Condivise le argomentazioni rese nella sottostante decisione di merito, la Suprema Corte aggiunge che, anche nella cessazione del lavoro intramurario per fine pena, lo stato di disoccupazione è involontario, essendo la cessazione del rapporto comunque estranea alla sfera di disponibilità del lavoratore; del resto, né la scarcerazione dipende dalla volontà del detenuto né il detenuto può rifiutarla, al fine di mantenere il rapporto di lavoro.

Riportato quindi, più in generale, il lavoro del detenuto alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria nel novero dei comuni rapporti di lavoro (e rammentato che l’art. 20 dell’O.P. garantisce ai detenuti «la tutela assicurativa e previdenziale», ed escluso che la cessazione del rapporto lavorativo possa considerarsi volontaria), non consta alcuna ragione che renda il lavoro carcerario incompatibile con il riconoscimento della NASpI in caso di perdita del primo.

Del resto, l’amministrazione penitenziaria versa all’Inps i contributi per la disoccupazione anche per i detenuti lavoratori, elemento questo utile a corroborare la soluzione che riconosce all’ex-detenuto la tutela previdenziale richiesta.

Inoltre, la ricomprensione tra i potenziali beneficiari della NASpI del lavoratore che ha svolto attività lavorativa intramuraria il cui rapporto cessa per scarcerazione discende anche dalla considerazione che anche nel caso ricorre l’esigenza di tutela sociale alla base dell’istituto, che, se non fosse applicabile nella specie, priverebbe il lavoratore penitenziario proprio nel momento più delicato del progetto di reinserimento sociale, caratterizzato dalla difficoltà di trovare una nuova occupazione lavorativa per chi ha una pregressa esperienza detentiva.

Ed ecco allora che può affermarsi il principio di diritto secondo il quale “la cessazione per fine pena del rapporto di lavoro intramurario svolto alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria dà luogo ad uno stato di disoccupazione involontaria rilevante ai fini della tutela previdenziale della NASpI”.

Luigi Pelliccia, avvocato in Siena e professore a contratto di diritto della sicurezza sociale nell’Università degli Studi di Siena

Visualizza il documento: Cass., 5 gennaio 2024, n. 396

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