La Cassazione ribadisce principi consolidati in punto di obbligo di repêchage, riparto dell’onere della prova e obblighi di formazione dei lavoratori
8 Agosto 2024|Le ordinanze in commento, oggetto di esame unitario, vertono sul complesso tema dell’obbligo di repêchage e delle mansioni inferiori in caso di fenomeni di riorganizzazione aziendale.
L’obbligo di repêchage, ossia il dovere del datore, qualora sia possibile, di reimpiegare il lavoratore da licenziare in mansioni diverse da quelle svolte in precedenza (Cass. 7 gennaio 2005, n. 239), viene in rilievo allorquando si discuta di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, connessi a riorganizzazione o ristrutturazione dei complessi aziendali e possibile soppressione di mansioni o profili professionali.
Proprio questo elemento configura il trait d’union tra licenziamenti per g.m.o. e licenziamenti collettivi, questi ultimi collegati a riorganizzazioni aziendali (circa i profili critici della distinzione in argomento, v. C. Scalerandi, Licenziamenti collettivi o licenziamenti individuali plurimi? Ancora alla ricerca di una corretta qualificazione giuridica, in Labor, www.rivistalabor.it, 15 novembre 2023).
Esso è stato, tradizionalmente, inteso quale extrema ratio da rispettare ai fini della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo di cui all’art. 3 L. n. 604/1966 (A. Carbone, Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e repêchage. Profili in punto di onere della prova e spunti critici, in https://www.questionegiustizia.it/articolo/licenziamento-per-giustificato-motivo-oggettivo-e-_16-05-2019.php).
Ci si potrebbe interrogare, dunque, in ottica sistematica, circa la sua estensibilità al licenziamento collettivo.
In assenza di uno specifico dettato normativo, la giurisprudenza ha tradizionalmente argomentato in senso negativo, finanche nell’ipotesi in cui il datore di lavoro, in sede di accordo sindacale, abbia assunto l’impegno di favorire la ricollocazione dei dipendenti coinvolti nella procedura.
Si può richiamare, sul punto, Corte di Appello di Milano, 20 gennaio 2017, n. 131, secondo cui deve escludersi che la violazione dell’impegno assunto contrattualmente dal datore di lavoro, nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo, di ricollocare i lavori licenziati presso futuri ed eventuali posti di lavoro, possa integrare gli estremi della violazione dell’obbligo di repêchage con conseguente invalidità dell’intimato licenziamento. La natura giuridica dell’impegno assunto viene così individuata in un’obbligazione meramente contrattuale, la cui violazione può comportare esclusivamente conseguenze di natura risarcitoria, senza poter incidere in alcun modo sulla legittimità del licenziamento (V. Forcolin, Cos’è l’obbligo di repêchage e cosa dice la giurisprudenza, in https://www.toffolettodeluca.it/it/notizie-eventi/notizie-eventi/a/cose-lobbligo-di-repechage-e-cosa-dice-la-giurisprudenza-1/).
Ebbene, un profilo comune, che lega i licenziamenti individuali per g.m.o. ai licenziamenti collettivi da riorganizzazione, è rappresentato dalla centralità del controllo giurisdizionale, esercitato ex post, alla individuazione del baricentro della fattispecie nel controllo sindacale sulla ristrutturazione dell’attività, che avviene ex ante.
In particolare, la giurisprudenza ha affermato che, ai fini della legittimità del recesso, le addotte ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro debbano determinare un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo. La scelta imprenditoriale che abbia comportato la soppressione del posto di lavoro non è, peraltro, sindacabile nei suoi profili di congruità e opportunità, in ossequio al disposto dell’art. 41 Cost.; ove, però, il giudice accerti in concreto l’inesistenza della ragione organizzativa o produttiva, il licenziamento risulterà ingiustificato per la mancanza di veridicità o la pretestuosità della causale addotta (Cass., 3 maggio 2017, n. 10699).
In questo quadro complessivo, dottrinale e giurisprudenziale, si inseriscono le due recenti ordinanze in commento, con particolare riferimento anche al tema specifico della formazione dei lavoratori.
Nella più recente delle ordinanze in esame, cioè Cass., 10 luglio 2024, n. 18904, si legge che, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte di merito, l’onere della prova in materia di repêchage è a carico del datore di lavoro, mentre sul lavoratore non grava alcun onere, neppure di allegazione.
In secondo luogo, l’onere della prova del datore è esteso anche alle mansioni inferiori, sicché egli è tenuto a provare che al momento del licenziamento non esista nessuna altra posizione lavorativa in cui possa utilmente ricollocarsi il licenziando, tenuto conto della organizzazione aziendale esistente all’epoca del licenziamento (nello stesso senso, cfr. Cass. 26 marzo 2010, n. 7381; Cass. 11 giugno 2014, n. 13112; Cass. 24 giugno 2015, n. 13116).
Infine, sempre da Cass., 10 luglio 2024, n. 18904 si evince il principio per cui «a fronte dell’esistenza di mansioni inferiori il datore di lavoro, prima di intimare il licenziamento, deve offrire la mansione alternativa anche inferiore al lavoratore, prospettandone il demansionamento, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, potendo recedere dal rapporto solo ove la soluzione alternativa non venga accettata dal lavoratore».
In mancanza di tali condizioni, per sottrarsi all’annullamento del licenziamento, il datore deve allegare e provare, sulla base di circostanze oggettivamente riscontrabili ed avuto riguardo alla specifica condizione ed alla intera storia professionale di un ben individuato lavoratore, che il lavoratore non rivesta le competenze professionali richieste per l’espletamento delle stesse mansioni.
Nel caso di specie, il datore non l’ha fatto, né ha allegato e provato perché non l’ha fatto, né può rilevare che si trattasse di mansioni operaie invece che impiegatizie siccome neppure risulta dagli atti di causa che il lavoratore (anche in relazione all’ampiezza delle competenze rivestite) non potesse svolgere tali mansioni inferiori; al riguardo la Corte di appello non ha effettuato una qualche verifica in proposito essendosi limitata, erroneamente, a rilevare il difetto di allegazione a monte da parte del lavoratore.
Nell’ambito dell’altra vicenda, anch’essa oggetto del nostro commento (Cass., 20 giugno 2024, n. 17306), la Suprema Corte ha statuito che «in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, giova ribadire il principio dell’obbligo del datore di lavoro di provare che il lavoratore non abbia la capacità professionale richiesta per occupare la diversa posizione libera in azienda, in base a circostanze oggettivamente riscontrabili, altrimenti risultando il rispetto dell’obbligo di repêchage sostanzialmente affidato ad una mera valutazione discrezionale dell’imprenditore (Cass. 27 settembre 2018, n 23340)».
Pertanto, il riferimento ai livelli di inquadramento predisposti dalla contrattazione collettiva costituisce elemento che il giudice deve valutare per accertare in concreto se il lavoratore licenziato fosse o meno in grado di espletare le mansioni di chi sia stato assunto ex novo, sebbene inquadrato nello stesso livello o in un livello inferiore, in base a circostanze addotte dal datore medesimo verificabili oggettivamente, avuto riguardo alla specifica formazione e all’intera esperienza professionale del dipendente (Cass. 13 novembre 2023, n. 31561, cit.).
D’altro canto, anche prima della novellazione dell’art. 2103 c.c., la Suprema Corte ha escluso l’esistenza di un obbligo del datore di lavoro di formazione professionale e riferito l’obbligo di repêchage limitatamente alle attitudini ed alla formazione di cui il lavoratore sia dotato al momento del licenziamento (Cass. 13 agosto 2008, n. 21579; Cass. 8 marzo 2016 n. 4509; Cass. 6 dicembre 2018, n. 31653), non essendo il primo tenuto a fornire al secondo un’ulteriore o diversa formazione per salvaguardare il suo posto di lavoro (Cass. 11 marzo 2013, n. 5963).
La giurisprudenza ha pure giustificato «l’affermazione per il bilanciamento del diritto al mantenimento del posto con quello del datore di lavoro a perseguire un’organizzazione aziendale produttiva ed efficiente, in coerenza con la ratio di numerosi interventi normativi, tutelabile senza la necessità (ove il demansionamento rappresenti l’unica alternativa al recesso datoriale), di un patto in tale senso anteriore o contemporaneo al licenziamento, nei limiti di una prospettazione, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, della possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori compatibili con il suo bagaglio professionale» (similmente, Cass. 19 novembre 2015, n. 23698; Cass. 11 novembre 2019, n. 29099; Cass. 3 dicembre 2019, n. 31520).
Tale principio ha orientato il legislatore all’atto della novellazione dell’art. 2103 c.c. ad opera dell’art. 3, primo comma D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, che all’art. 1, settimo comma, punto e) della legge 10 dicembre 2014, n. 183, ha in particolare, per la «revisione della disciplina delle mansioni, in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale individuati sulla base di parametri oggettivi», fissato il principio direttivo del contemperamento dell’«interesse dell’impresa all’utile impiego del personale con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita ed economiche, prevedendo limiti alla modifica dell’inquadramento».
Ne deriva che, nel caso in esame, di esercizio dello ius variandi datoriale, «in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali», incidente sulla posizione del lavoratore (art. 2103, secondo comma c.c.), pertanto di natura unilaterale e non concordata (come invece nella diversa ipotesi di stipulazione di un patto di “demansionamento negoziale”, ai sensi dell’art. 2103, sesto comma c.c., «nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita»), il principio da applicare è l’obbligo di repêchage limitatamente alle attitudini ed alla formazione di cui il lavoratore sia dotato al momento del licenziamento.
Nello stesso senso si era espressa Cass. 19 aprile 2024, n. 10627, anch’essa oggetto del presente commento, ove si legge che «in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l’obbligo di repêchage opera esclusivamente nell’alveo delle mansioni fungibili, in concreto attribuibili al lavoratore, non incombendo, anche nella vigenza del novellato art. 2103 c.c., alcun obbligo sul datore di organizzare corsi di formazione per la riconversione della professionalità del lavoratore licenziato».
Tale principio trova sostanziale conferma nella chiara previsione, conseguente al mutamento di mansioni per la modifica degli assetti organizzativi aziendali, per la quale «il mancato adempimento» all’assolvimento «dell’obbligo formativo … non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione alle nuove mansioni» (art. 2103, terzo comma c.c.).
Un cenno conclusivo merita anche la recentissima Corte cost. n. 128 del 17 luglio 2024, ove la Consulta ha rammentato come il principio costituzionale della necessaria giustificazione del licenziamento abbia trovato attuazione nell’art. 1 L. 604/1966; la disciplina delle conseguenze di tale illegittimità rimane, comunque, nella discrezionalità del legislatore, sempre che essa appronti una tutela adeguata e sufficientemente dissuasiva del recesso acausale e, più in generale, del licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo.
Da questo punto di vista, il d.lgs. n. 23/2015, applicabile ai lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015, ha ridotto l’area di operatività della tutela reintegratoria e, in particolare, per quanto riguarda il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (art. 3, comma 1, d.lgs. cit.), il restringimento dell’area della tutela reintegratoria attenuata è più radicale, essendo esclusa del tutto la rilevanza della insussistenza del fatto materiale con la conseguenza che la tutela non è mai reintegratoria.
Questa radicale irrilevanza ha però determinato, secondo la Corte, un difetto di sistematicità che ridonda in una irragionevolezza della differenziazione rispetto alla parallela ipotesi del licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo soggettivo. Se il “fatto materiale” allegato dal datore di lavoro a fondamento del licenziamento non sussiste, è violato il principio della necessaria causalità del recesso datoriale e il licenziamento regredisce a recesso senza causa: in ogni caso manca radicalmente la causa del licenziamento, il quale è perciò illegittimo.
Se ne desume, conclude la Corte, che il recesso datoriale offende la dignità del lavoratore per la perdita del posto di lavoro quando non sussiste il fatto materiale allegato dal datore di lavoro a suo fondamento, quale che sia la qualificazione che ne dia il datore di lavoro stesso: e quella di ragione d’impresa e quella di addebito disciplinare.
Antonino Ripepi, procuratore dello Stato in Reggio Calabria
Visualizza i documenti: Cass., ordinanza 19 aprile 2024, n. 10627; Cass., ordinanza 20 giugno 2024, n. 17036; Cass., ordinanza 10 luglio 2024, n. 18904
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