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Il licenziamento per ragioni oggettive del dirigente: onere della prova e tutele

31 Maggio 2024|

Con l’ordinanza del 12 marzo 2024, n. 6540 la Corte di Cassazione ha confermato un orientamento oramai consolidato in tema di licenziamento del dirigente che distingue la nozione di motivo oggettivo di licenziamento riconducile alla giustificatezza dal giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della L. 15 luglio 1966, n. 604, da cui consegue la non applicazione dei relativi requisiti di legittimità, tra cui l’onere di repêchage.

La fattispecie all’esame della Suprema Corte è quella del licenziamento intimato alla dirigente di una società di assicurazioni in occasione di una fusione per incorporazione, per soppressione della posizione nell’ambito della riorganizzazione aziendale «a fronte della necessità di contenere i costi, migliorare l’efficienza ed evitare la duplicazione di incarichi».

Il licenziamento era stato ritenuto giustificato dalla Corte d’Appello di Milano e la dirigente ricorreva per cassazione, sostenendo l’insussistenza degli estremi della giustificatezza poiché la riorganizzazione aziendale era stata operata mediante ridistribuzione dei suoi compiti a risorse alle dipendenze non della datrice di lavoro, ma di imprese diverse, seppur facenti parte del medesimo gruppo.

La pronuncia della Corte si colloca nel solco giurisprudenziale tracciato in materia, confermando la sussistenza dei requisiti di giustificatezza in caso del licenziamento del dirigente.

La giustificatezza ricorre, come noto, anche solo laddove sussistano esigenze di risparmio realizzate mediante la soppressione di posizioni costose come quelle dirigenziali (Cass. 4 maggio 2022, n. 4227). Ai fini di suddetta valutazione non è necessaria la presenza di una situazione di crisi tale da rendere impossibile la continuazione del rapporto di lavoro, ritenendosi sufficienti ragioni legate all’attività produttiva e volte ad ottenere una migliore efficienza gestionale o un incremento di redditività (Cass. 16 dicembre 2022, n. 36955).

Tra le più recenti pronunce di legittimità su motivazioni simili a quelle addotte nel caso di specie si veda Cass. 17 novembre 2021, n. 34976 In tale occasione, era stato evidenziato come la «comunicazione di recesso fosse sorretta da motivazione coerente e fondata su ragioni apprezzabili, consistite principalmente nel rilievo, nell’ambito del processo di razionalizzazione di vari settori della struttura aziendale, del sovradimensionamento della presenza di due figure aziendali […], rispetto alla necessità ed alle dimensioni aziendali, nella esistenza di “inutili duplicazioni di funzioni” e nella “necessità immediata di istituire una organizzazione aziendale più snella […]».

Purtroppo, la Suprema Corte non affronta le due questioni giuridiche di maggiore interesse sottese alla fattispecie che pertanto restano aperte.

La prima concerne l’ampiezza dell’onere della prova a carico del datore di lavoro nel caso di licenziamento.

La Corte d’Appello di Milano aveva infatti affermato che il datore di lavoro non fosse gravato dell’onere di provare l’assolvimento dell’obbligo di repêchage, perché estraneo all’ambito del rapporto di lavoro dirigenziale, anche se tale elemento era stato menzionato nella lettera di licenziamento, a fondamento della decisione aziendale (G. BARSOTTI, Il licenziamento del dirigente per soppressione del posto finalizzato al contenimento dei costi aziendali è legittimo e non è condizionato dall’obbligo di repêchage, 2023, LABOR 2023).

Tale principio è rinvenibile in altre decisioni di merito come quella del Tribunale di Milano del 1° luglio 2013, n. 2423 in cui si sottolinea che la mancata prova dell’impossibilità di reperire all’interno dell’azienda una nuova posizione per il dirigente come riferito nella lettera di licenziamento non costituisce vizio tale da inficiare il licenziamento stesso, non sussistendo alcun obbligo di repêchage nell’ambito del rapporto di lavoro dirigenziale (vedi anche Trib. Bologna 27 marzo 2017).

La Cassazione, come in altre precedenti, liquida tale aspetto richiamando il consolidato insegnamento per cui laddove il licenziamento del dirigente sia determinato da esigenze di ristrutturazione aziendale «è esclusa la possibilità del repêchage in quanto incompatibile con la posizione dirigenziale del lavoratore, assistita da un regime di libera recedibilità del datore di lavoro» (fra le altre Cass. 31 gennaio 2023, n. 2895; Cass. 11 febbraio 2013, n. 3175), non pronunciandosi sulla correttezza dell’esclusione dall’ambito dell’onere della prova dell’inapplicabile repêchage pur menzionato nella lettera di licenziamento.

La Suprema Corte, tuttavia, a ben vedere, non si limita a rimarcare che si tratta di questione devoluta integralmente ai giudici di merito, ma afferma nuovamente il principio per cui per l’accertamento della giustificatezza non è richiesto un esame analitico delle motivazioni che hanno fondato il licenziamento, essendo sufficiente una valutazione globale che consenta di escludere la pretestuosità ed arbitrarietà dello stesso. Il principio di correttezza e buona fede rappresenta il parametro cui misurare la legittimità del licenziamento, ma esso deve coordinarsi con la libertà di iniziativa economica del datore di lavoro ex art. 41 della Costituzione (Cass. 4 gennaio 2024, n. 265; Cass. 13 gennaio 2020, n. 396).

Il carattere globale della valutazione e la sufficienza della verifica del parametro della buona fede e correttezza sembrano dunque giustificare la conclusione per cui la mera mancata prova dell’assolvimento dell’onere di repêchage non rappresenti autonomo vizio invalidante del recesso.

La seconda questione sottesa alla fattispecie, ma non trattata dalla pronuncia della Corte, è quella della tutela applicabile in ipotesi di licenziamento del dirigente in occasione di un trasferimento d’azienda.

Come noto, il comma quarto dell’art. 2112 c.c. stabilisce che «il trasferimento d’azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento».

Volendo ricomprendere nell’alveo della tutela di cui al comma 1 dell’art. 18 S.L. il licenziamento intimato in violazione di tale disposto, in quanto nullo per violazione di norma imperativa, anche i dirigenti ne beneficerebbero.

Diventa quindi dirimente – quanto non agevole – stabilire il confine tra licenziamenti per ragioni o motivi oggettivi intimati in occasione o prossimità di un trasferimento d’azienda da quelli in cui il trasferimento d’azienda ne costituisce il motivo.

Alcune pronunce di merito hanno ritenuto che le ragioni oggettive addotte fossero solo formalmente connesse all’attività della società ma che in realtà il licenziamento fosse stato adottato a causa della programmata cessione del ramo d’azienda, dichiarandolo nullo o inefficace il recesso in quanto inidoneo ad interrompere il rapporto di lavoro intercorrente tra le parti (Trib. Firenze 7 ottobre 2014); o, ancora, che ove il datore avesse trasferito ad altri l’attività economica organizzata, il licenziamento intimato «in tale ambito» sarebbe ex se nullo per violazione di norma imperativa, con conseguente applicazione dell’art. 18 S.L. (Trib. Roma 7 aprile 2015).

Tuttavia, la Suprema Corte ha a più riprese affermato che: «se il trasferimento non può, come tale, costituire ragione giustificativa del licenziamento, a norma dell’art. 2112 c.c., comma 4, non può tuttavia impedire il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sempre che esso abbia fondamento nella struttura aziendale” (cfr. Cass. nr. 22476 del 2016; Cass. nr. 15495 del 2008); nella fattispecie di causa, rappresenta circostanza pacifica la contestualità del trasferimento del ramo d’azienda  e dell’atto di recesso intimato dalla cessionaria; nondimeno risulta accertato – con giudizio di fatto in questa sede non censurato – che il recesso della lavoratrice ha trovato motivo nella parziale esternalizzazione delle funzioni assegnate e nell’accentramento, delle restanti, al vertice aziendale, in ragione della nuova organizzazione aziendale; in tal modo, il licenziamento non è in rapporto causale diretto ed immediato con il trasferimento del ramo d’azienda ma piuttosto con il nuovo assetto organizzativo (che ha comportato la soppressione del posto di lavoro della dipendente) e dunque con una ragione diversa dalla vicenda traslativa, a nulla rilevando, invece, la simultaneità degli eventi» (Cass. 24835/2018).

Se, tuttavia, neppure la contestualità cronologica rappresenta indizio grave di per sé sufficiente a risalire al fondamento della decisione aziendale, la discrezionalità del giudicante acquista spazi indefiniti, impedendo al dirigente, come al lavoratore non dirigente, di invocare la tutela reintegratoria in ipotesi di licenziamento per ragioni oggettive intimato, appunto, «in occasione» del trasferimento.

Sara Huge, avvocato in Milano

Visualizza il documento: Cass., ordinanza 12 marzo 2024, n. 6540

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