Il licenziamento è illegittimo, se il datore di lavoro non prova la prassi aziendale violata dal lavoratore
13 Ottobre 2024|Il tema del licenziamento e, nello specifico, quello per giusta causa, non solo è continuamente al centro dell’ampio e “dinamico” dibattito (sia in dottrina, sia ancor più nella giurisprudenza, di qualsiasi livello, anche costituzionale), ma si arricchisce sempre di nuovi spunti di analisi e di riflessione.
Con una recente ordinanza, la n. 21692 del 01.08.2024, la sezione lavoro della Corte di cassazione ha affrontato una fattispecie nella quale, in relazione all’illegittimità dell’intimato licenziamento, era in discussione l’importanza di una prassi aziendale.
Pronunciando in sede di reclamo ex legge n. 92/2012, la Corte di appello di Milano confermava la illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato in ragione di una contestazione che addebitava al lavoratore interessato la violazione della consolidata prassi aziendale riferita all’obbligo di immediata consegna al responsabile dell’esercizio degli oggetti e dei beni smarriti da clienti, nonché il rifiuto di collaborare con il funzionario del servizio di sicurezza aziendale che lo aveva contattato per ricostruire l’accaduto, seppur respingendo però il reclamo del lavoratore incentrato sulla natura ritorsiva del licenziamento.
Nella fattispecie si trattava del portafogli di una cliente, trattenuto dal dipendente presso la cassa dell’esercizio per circa sei ore.
Alla base della motivazione della decisione (di conferma della illegittimità del recesso) in sede di seconde cure vi era stato il mancato assolvimento, da parte della società datrice di lavoro, dell’onere di provare la esistenza di una prassi aziendale consolidata in relazione agli oggetti smarriti, la cui violazione costituiva nucleo fondante della contestazione alla base del disposto licenziamento.
Da qui il successivo ricorso per cassazione, affidato a due motivi.
L’ordinanza in commento ha però ritenuto inammissibile il proposto ricorso.
Mentre con il primo motivo di ricorso la sentenza di merito impugnata veniva sostanzialmente censurata per avere questa disatteso le prove legali assunte in giudizio e denunzia nullità della sentenza e del procedimento per violazione delle norme di legge in tema di prova, con il secondo veniva invece denunziata nullità della sentenza per violazione delle norme di legge in tema di contestazione disciplinare e licenziamento per giusta causa.
In estrema sintesi, detta censura si basava sul rilievo dell’errore di valutazione degli elementi complessivi della condotta del dipendente e, più nello specifico, dell’affermazione della irrilevanza disciplinare del rifiuto opposto dal lavoratore interessato al funzionario per la sicurezza della società (comportamento questo ritenuto in diretta violazione dell’onere di collaborazione gravante sul lavoratore).
Il ragionamento logico-deduttivo che la Corte regolatrice ha seguito nel dichiarare l’inammissibilità del proposto ricorso è il seguente.
La sentenza impugnata aveva ritenuto che la società datrice di lavoro, sulla quale gravava il relativo onere, non avesse dimostrato il fatto alla base dell’intimato licenziamento, rappresentato dalla esistenza di una consolidata prassi aziendale in ipotesi di smarrimento di oggetti da parte di clienti, prassi che si asseriva appunto violata dal dipendente.
Tra l’altro, la corte territoriale aveva osservato che le plurime criticità evidenziate nell’esame del materiale probatorio non potevano essere sanate dall’approfondimento istruttorio invocato dalla società, non potendosi in ogni caso attribuire idonea valenza probatoria nel procedimento alle indagini difensive svolte ex art. 327 cpp a seguito della denunzia-querela alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano per falsa testimonianza nei confronti degli escussi testimoni.
Ad avviso dell’ordinanza in commento, la decisione di merito di seconde cure non contiene alcuna affermazione in diritto che si ponga in contrasto con la facoltà ex art. 327-bis cpp per il difensore di svolgere investigazioni per ricercare ed individuare elementi di prova a favore del proprio assistito e men che meno con la complessiva posizione che nell’espletamento di tali indagini assume il difensore.
A ben vedere, ad avviso del collegio di legittimità, la Corte territoriale, così come consentito, si è limitata alla valutazione del materiale riveniente da dette indagini e lo ha ritenuto idoneo ad inficiare la complessiva valutazione di mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte della società datrice di lavoro, valutazione questa tratta dal compendio probatorio del giudizio civile.
Tra l’altro, sempre ad avviso dell’ordinanza in commento, “il tema della valenza probatoria, nell’ambito del giudizio civile, delle indagini difensive effettuate dal procuratore della parte nell’ambito del procedimento penale non è concettualmente sovrapponibile a quello della prova legale che, nel giudizio civile, investe la efficacia probatoria che la legge connette a determinati atti o fatti, sottraendoli al prudente apprezzamento del giudice.”
Al di fuori quindi del riferimento alle indagini difensive penali, l’assunto (sostenuto dalla società ricorrente) circa la avvenuta violazione del principio della “prova legale” non risulta sorretto dalla specifica individuazione del fatto o atto, dal quale la Corte di merito ha tratto, sul piano probatorio, conseguenze diverse da quelle stabilite per legge.
E in questa prospettiva vanno dunque sottolineati, sia la genericità, sia il difetto di pertinenza delle censure articolate alle effettive ragioni del decisum.
Relativamente al secondo motivo di ricorso, l’ordinanza in commento mette in rilievo il fatto che la società ricorrente (seppur formalmente denunziando violazione e falsa applicazione di norme di diritto e vizio di attività del giudice di merito), con le censure in concreto articolate, mostra di sollecitare un diverso apprezzamento delle emergenze fattuali e di offrirne una valutazione meramente contrappositiva a quella fatta propria dal giudice di appello in punto di obbligo di collaborazione del dipendente in relazione all’indagine interna sull’accaduto promossa dalla società.
A ben vedere, infatti, la sentenza impugnata ha ritenuto privo di rilievo disciplinare il rifiuto opposto dal lavoratore, una volta consultato il proprio legale, a rispondere al funzionario per la sicurezza aziendale in merito al fatto accaduto, evidenziando l’assenza di uno specifico obbligo giuridico al riguardo.
Affermazione questa in alcun modo validamente contrastata dal generico richiamo all’obbligo di collaborazione di cui all’art. 7 della legge n. 300/1970 ovvero al più generale obbligo di collaborazione riferito all’esecuzione della prestazione di lavoro, concernendo quest’ultimo un profilo estraneo alla fattispecie oggetto della scrutinata controversia.
In sintesi, quindi, secondo la Corte di cassazione è da ritenersi illegittimo un licenziamento per giusta causa, nel caso in cui il datore di lavoro non provi la (da lui invocata) prassi aziendale violata dal lavoratore.
Luigi Pelliccia, avvocato in Siena e professore a contratto di diritto della sicurezza sociale nell’Università degli Studi di Siena
Visualizza il documento: Cass., ordinanza 1° agosto 2024, n. 21692
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