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Il licenziamento disciplinare intimato al dirigente in violazione delle garanzie procedimentali previste dall’art. 7, St. Lav., è nullo o ingiustificato? E con quale tutela?

23 Giugno 2024|

La Corte di Appello di Roma, con la sentenza 2 aprile 2024, n. 1294, conformandosi ad un orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, ha dichiarato l’ingiustificatezza del licenziamento intimato ad un dirigente per la violazione delle garanzie del procedimento disciplinare di cui all’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori.

Così riassunta, quindi, la sentenza in esame non sembra destare particolare interesse. Tuttavia, la lettura delle motivazioni è spunto di interessanti riflessioni che potrebbero persino indurre a ritenere superato il granitico orientamento della giurisprudenza cui anche la Corte d’Appello di Roma nella sentenza in commento finisce per conformarsi.

Ma procediamo con ordine.

La fattispecie decisa in senso favorevole al dirigente licenziato è assai complessa perché il procedimento disciplinare muove dalla presunta commissione di fatti penalmente rilevanti, oggetto di due contestazioni, formulate a distanza di poco più di un mese, la prima confezionata sulla base delle evidenze del decreto penale di perquisizione, personale e locale, la seconda redatta prendendo in considerazione il contenuto dell’ordinanza cautelare che aveva disposto la misura restrittiva degli arresti domiciliari.

Ricevuta la prima lettera di contestazione disciplinare il dirigente aveva chiesto la sospensione del relativo procedimento denunciando, per la contingenza del procedimento penale, la sua condizione di minorata difesa. Successivamente, ricevuta la seconda lettera di contestazione disciplinare aveva tempestivamente richiesto di potersi giustificare oralmente assistito da un rappresentante sindacale.

La Società, tuttavia, ha ritenuto tale richiesta irricevibile per aver già provveduto al licenziamento, intimato, quindi, prima della scadenza del termine concesso al lavoratore per presentare le sue giustificazioni.

La Corte di Appello correttamente evidenzia la grave lesione del diritto di difesa e giustamente stigmatizza il comportamento illegittimo della datrice di lavoro che avrebbe potuto avvalersi della revoca del licenziamento intimato prima del tempo e in palese violazione delle garanzie procedimentali previste dall’art. 7, St. Lav., pacificamente applicabili anche al lavoratore che ricopre la posizione di dirigente.

Esposti in questi termini, ed in estrema sintesi, i fatti e il contesto del procedimento disciplinare (per i dettagli si rinvia alla lettura della sentenza, molto articolata su ogni questione, anche processuale, controversa), fin qui è tutto condivisibile.

Meno condivisibili, invece, sono le conclusioni a cui giunge la Corte d’Appello laddove ha escluso la «possibilità di applicare la tutela per il licenziamento nullo di cui all’art. 18, comma 1, della L. 300/70 come sostituito dalla legge 92/2012» proprio richiamando la recente sentenza della Corte costituzionale n. 22 del 22 febbraio 2024 (commentata in Labor, 31 marzo 2024, da C. MUSELLA 2024: Odissea del Jobs act. Seconda tappa, licenziamento nullo, cui si rinvia anche per gli ulteriori riferimenti), che ha annoverato la violazione delle garanzie procedimentali di cui all’articolo 7 dello Statuto dei Lavoratori «fra le ipotesi di nullità del licenziamento per violazione di norma imperativa per le quali, però, il legislatore, nella sua discrezionalità, ha diversamente disposto, ai sensi dell’art. 1418, primo comma, c.c.».

La sopra richiamata sentenza della Corte Costituzionale, infatti, fa riferimento alla tutela prevista – per le ipotesi di violazione dell’art. 7 S.L. – dall’art. 18, comma 6, S.L. e dall’art. 4, L. n. 23/2015 a favore dei lavoratori non appartenenti alla categoria dirigenziale rispettivamente assunti prima e dopo il 7 marzo 2015.

La Corte delle leggi, quindi, nella sopra citata sentenza, ha ritenuto che la nullità del licenziamento posto in essere in violazione di una norma imperativa non sia messa in discussione dalla previsione da parte del legislatore, nel legittimo esercizio della sua discrezionalità, di una tutela diversa.

Nel caso dei dirigenti, tuttavia, il legislatore non ha previsto alcuna tutela diversa rispetto a quella di cui all’art. 18 comma 1 S.L. che, quindi, è l’unica tutela di legge applicabile per l’ipotesi in cui il licenziamento del dirigente sia stato posto in essere in violazione di norma imperativa.

Ciò nonostante, la Corte d’Appello, dopo aver accertato la violazione dell’art. 7 S.L. da parte del datore di lavoro e, quindi, la violazione di norma imperativa, ha ritenuto inapplicabile l’art. 18 comma 1 S.L.; ciò in virtù di una analogia con quanto statuito dalla Corte Costituzionale per i lavoratori non dirigenti, senza tuttavia preoccuparsi di fornire alcuna motivazione che – in assenza di una diversa tutela di legge applicabile – possa giustificare le conclusioni a cui è giunta.

La Corte d’Appello, infatti, si limita a statuire tautologicamente che – stante quanto deciso dalla Corte Costituzionale nella citata sentenza – deve ritenersi « esclusa ..la possibilità di applicare la tutela per il licenziamento nullo di cui all’articolo 18, comma 1, della legge 300/70 come sostituito della legge 92/2012, non resta che applicare la tutela del contratto collettivo per l’ingiustificato licenziamento, l’unica percorribile per la categoria dei dirigenti cui non trovano applicazione le altre forme di tutela previste dal medesimo articolo e dalla legge 604/66: quindi il licenziamento deve essere considerato ingiustificato e trova applicazione la disciplina contrattuale dell’indennità supplementare».

Tuttavia, proprio partendo dalla stessa premessa della Corte d’Appello, vale a dire da quanto statuito dalla Corte Costituzionale con la citata sentenza n. 22/2024, si potrebbe giungere a conclusioni opposte: applicabilità ai dirigenti dell’art. 18 comma 1 S.L. anche nell’ipotesi di licenziamento posto in essere in violazione dell’art. 7 S.L. trattandosi di violazione di norma imperativa per la quale il legislatore non ha disposto diversamente.

A tale conclusione, si dovrebbe giungere quanto meno nelle ipotesi in cui, come nel caso deciso dalla Corte d’Appello, la procedura sia stata di fatto obliterata.

In tali ipotesi, infatti, come prospettato anche dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza interlocutoria del 7 aprile 2023 n. 9530 (anche questa commentata in Labor, 18 maggio 2023, Avv. V. A. POSO La Corte di Cassazione si rivolge alla Consulta per sapere se è costituzionalmente legittimo l’art. 2 comma 1 d.l.gs. 4 marzo 2015 n. 23), che ha rimesso alla Consulta la questione di legittimità costituzionale poi decisa con la sopra citata sentenza,« le fasi del procedimento disciplinare non possono essere omesse o concentrate e, di conseguenza, la nullità della sanzione disciplinare, per tale tipo di violazione, rientra nella categoria delle nullità di protezione, in quanto fondata sullo scopo di tutela del contraente debole del rapporto, tale violazione non è assimilabile a quelle procedurali (di cui alla L. n. 300 del 1970 articolo 18 comma 6, come modificato dalla L. n. 92 del 2012 art. 1 comma 42) ».

Accertata la nullità del licenziamento intimato al dirigente in violazione dell’art. 7 S.L., la Corte d’Appello avrebbe, quindi, dovuto ritenere applicabile l’unica tutela prevista dal legislatore per tale ipotesi vale a dire quella di cui all’art. 18, comma 1 S.L.; tuttavia, con un ragionamento censurabile sotto il profilo della contraddittorietà, la Corte d’Appello finisce per accertarne l’ingiustificatezza concetto che, come noto, si distingue da quello della nullità.

Con l’entrata in vigore della L. 92/2012 – che ha modificato l’art. 18 S.L. estendendo anche ai dirigenti la tutela prevista per le ipotesi di nullità del licenziamento derivante da violazione di norma imperativa – è, dunque, lecito chiedersi se debba ritenersi superato l’orientamento di cui alla nota sentenza della Corte di Cassazione S.U. del 30 marzo 2007 n. 7880 – cui sembra conformarsi la Corte d’Appello di Roma –  che fa discendere dalla grave e inemendabile violazione dell’art. 7 S.L la mera non valutabilità degli addebiti e, quindi, l’ingiustificatezza del licenziamento.

Elisa Lamari, avvocato in Milano

Visualizza il documento: App. Roma, 2 aprile 2024, n. 1294

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