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Il danno da dequalificazione professionale e gli elementi presuntivi su cui si fonda il risarcimento

14 Maggio 2024|

La Corte di Cassazione, con la pronuncia in commento (ordinanza n. 7640 del 21 marzo 2024), affronta il tema del risarcimento del danno spettante al lavoratore demansionato, richiamando l’orientamento giurisprudenziale consolidato in punto di criteri di individuazione del pregiudizio e di determinazione dell’importo da liquidare.

Il tema è la determinazione della indennità risarcitoria dovuta ad una lavoratrice a titolo di risarcimento del danno patrimoniale e del danno non patrimoniale da dequalificazione.

Nel caso di specie, il datore di lavoro ricorre in Cassazione censurando la sentenza d’Appello che a suo dire aveva liquidato un risarcimento in assenza della prova del pregiudizio; ad avviso di parte ricorrente, i danni derivanti da demansionamento non possono essere considerati in re ipsa, e, anche laddove la prova si fondi su presunzioni, queste debbono comunque risultare precise, gravi e concordanti. Inoltre, il datore di lavoro lamenta la mancata prova del nesso causale tra la condotta datoriale e il danno biologico rivendicato dalla lavoratrice, ritenendo che il Giudice, nel quantificare il quantum debeatur dal datore di lavoro, non abbia preso in considerazione il comportamento tenuto dalla lavoratrice (la quale non aveva intrapreso le terapie mediche prescritte per alleviare la lesione).

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso ritenendo che, pur non potendo prescindere il diritto al risarcimento del danno da una specifica allegazione, la prova che si fonda su presunzioni permette di ricostruire i fatti ignoti e affermare l’esistenza dell’eventuale danno rivendicato. Invero, la giurisprudenza ha più volte ribadito, anche di recente (Cass., sez. lav., 18 marzo 2024, n. 7209), che vi sono degli elementi presuntivi che possono essere utilizzati dal giudice per accertare il danno. Tra questi vi sono la durata del demansionamento, la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, la professionalità della dipendente, l’anzianità della persona coinvolta e la visibilità del demansionamento all’interno del contesto aziendale.

Peraltro, la Suprema Corte ha ribadito che la censura ai sensi degli artt. 2727 e 2729 c.c. è ammissibile solo qualora ricorra un c.d. vizio di sussunzione, il quale è configurabile solo qualora “il giudice di merito, dopo avere qualificato come gravi, precisi e concordanti gli indizi raccolti, li ritenga, però, inidonei a fornire la prova presuntiva oppure qualora, pur avendoli considerati non gravi, non precisi e non concordanti, li reputi, tuttavia, sufficienti a dimostrare il fatto controverso”.

Per completezza, nella parte motiva della sentenza, gli Ermellini hanno specificato, in ordine alla durata dal demansionamento, che la valutazione del danno operata dal giudice è effettuata in via equitativa: pertanto, si può tenere conto dei giorni in cui effettivamente la professionalità della lavoratrice è stata compromessa e possono essere integrati i presupposti per il risarcimento anche quando il demansionamento sia stato di breve durata.

In ordine al danno biologico, la Cassazione ha ritenuto che il pregiudizio fosse stato ampiamente provato e che il disturbo derivasse dallo stress lavorativo sofferto dalla lavoratrice in conseguenza alla condotta datoriale (da ciò sarebbe derivata la mancata disponibilità della lavoratrice a sottoporsi alla terapia medicalmente prescritta).

Come risaputo, il risarcimento ha la primaria funzione di riparare il pregiudizio subito contra ius dal danneggiato (cfr., in dottrina, BIASI, Studio sulla polifunzionalità del risarcimento del danno nel diritto del lavoro; compensazione, sanzione, deterrenza, Giuffrè, 2022).

Mentre nel caso del pregiudizio di natura patrimoniale la quantificazione non appare particolarmente ostica, in quanto è possibile fare riferimento al valore economico della prestazione, ossia la retribuzione, l’operazione risulta più complessa in riferimento al danno non patrimoniale: ciò in quanto, a monte, può risultare arduo accertare il verificarsi di un pregiudizio non patrimoniale nel caso di demansionamento (e proprio per questo la giurisprudenza ricorre al noto sistema delle presunzioni), a valle, è altrettanto ostico quantificare la somma che vada a compensare (nell’ovvia impossibilità di un pristino dello status quo ante) tale pregiudizio.

In definitiva, la Corte ha dato corretta applicazione ai consolidati principi elaborati sul tema de quo, dialogando efficacemente con i propri precedenti, a partire dalla celebre Cass., sez. un., 24 marzo 2006, n. 6572.

Rachele Moresco, praticante avvocato in Milano

Visualizza il documento: Cass., ordinanza 21 marzo 2024, n. 7640

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