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By Rivista Labor – Pacini Giuridica · 27 September 2024

Aggiornamenti, Contratto di lavoro

Verso una tutela trasversale della persona con disabilità: analisi delle principali novità introdotte dal d.lgs. n. 62 del 2024

La delega al Governo in materia di disabilità e il d.lgs. 3 maggio 2024, n. 62

L’inclusione sociale e lavorativa delle persone con disabilità è stata oggetto di un’attenzione crescente non solo da parte del legislatore europeo, ma anche della giurisprudenza e del legislatore nazionali.

In particolare, grazie al riconoscimento del diritto delle persone con disabilità a beneficiare di misure idonee ad assicurarne il pieno inserimento sociale e lavorativo, quale principio cardine dell’ordinamento giuridico, si è finalmente abbandonato l’approccio paternalistico-assistenziale incentrato sulla protezione dei lavoratori disabili, per concentrarsi sulla predisposizione di un apparato di tutele volte a consentire loro di partecipare attivamente ed in condizione di uguaglianza alla vita della comunità (v. Buoso, L’inclusione sociale dei disabili alla luce del diritto dell’Unione europea, in DLM, 2019, 1, pp. 85 e ss.).

In questo quadro si inserisce l’entrata in vigore, lo scorso 30 giugno, del d.lgs. 3 maggio 2024, n. 62 (pubblicato in G.U. 14 maggio 2024,n.111), riguardante la «Definizione della condizione di disabilità, della valutazione di base, di accomodamento ragionevole, della valutazione multidimensionale per l’elaborazione del progetto di vita individuale personalizzato e partecipato».

Il provvedimento, definito dai primi commentatori come un vero e proprio cambio di paradigma nel complesso percorso di inclusione delle persone con disabilità (v. Falabella, Monaco, Prima analisi del decreto legislativo 3 maggio 2024, n.62 in materia di disabilità: una “rivoluzione copernicana”, in Boll. Adapt, 2024, 20, pp.1 e ss.), costituisce il terzo intervento normativo di attuazione della legge 22 dicembre 2021, n. 227, recante «Delega al Governo in materia di disabilità».

Prima di procedere ad una disamina delle principali novità introdotte dal d.lgs. n. 62/2024, occorre chiarire il contesto in cui esso si colloca nonché i criteri direttivi dettati dalla delega quali principi ispiratori della Riforma.

Come è stato efficacemente evidenziato dalla dottrina, «il biennio pandemico ha portato in luce vulnerabilità storicamente presenti nel Paese, esasperando i disagi delle fasce più deboli e fragili della popolazione» (v. De Falco, Ragionando attorno alla legge delega in materia di disabilità: una prospettiva giuslavoristica, in RCP, 2022, 5, p. 1738).

Proprio in ragione di ciò, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) ha disposto la riforma della normativa sulla disabilità, individuando nella tematica in esame una «priorità trasversale» e valorizzando la dimensione sociale delle politiche sulla disabilità «nell’ottica della de-istituzionalizzazione e della promozione dell’autonomia delle persone con disabilità» (per un approfondimento su PNRR e disabilità v. Vivaldi, PNRR e Disabilità: misure e interventi per l’attuazione del diritto alla vita indipendente, in RGL, 2022, 4, pp. 630 ss.).

In particolare, la Missione 5 del PNRR, dedicata specificamente alla «coesione e inclusione», ha previsto l’adozione di una legge quadro sulla disabilità (Missione 5, Componente 2) avente l’obiettivo precipuo di realizzare i principi espressi dalla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità del 2006, adottando un approccio pienamente coerente sia con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, sia con la più recente «Strategia per i diritti delle persone con disabilità 2021-2030» della Commissione Europea (per un’analisi approfondita delle principali attività programmate dal PNRR v. Garofalo, Gli interventi sul mercato del lavoro nel prisma del PNRR, in DRI, 2022, 1, pp.114 ss.).

È in questo quadro che si colloca la citata legge n. 227/2021, attraverso la quale il Parlamento, facendo propri gli obiettivi prefissati dal Piano, ha attribuito delega al Governo per adottare una definizione di disabilità coerente con il diritto sovranazionale e per riordinare e semplificare la normativa di settore, ponendo sempre in primo piano la necessità di potenziare gli strumenti finalizzati a garantire la vita indipendente alle persone con disabilità.

La pubblicazione del decreto in commento – ponendo le basi giuridiche necessarie per procedere con i successivi passaggi regolamentari, di sperimentazione e di formazione, fondamentali per la piena implementazione del nuovo sistema giuridico – segna la conclusione della prima fase del percorso normativo definito comunemente “riforma della disabilità”.

Il provvedimento si compone di quaranta articoli suddivisi in quattro capi, rispettivamente dedicati: 1) all’individuazione delle finalità e delle definizioni generali; 2) al procedimento valutativo di base e agli accomodamenti ragionevoli; 3) alla valutazione multidimensionale e al progetto di vita individuale personalizzato e partecipato; 4) alle disposizioni finanziarie, transitorie e finali.

La struttura del decreto, nonché i principali temi cui sono dedicati i diversi capi che lo compongono, rende evidente, già ad una prima lettura, come l’intento perseguito dal legislatore sia quello di porre la persona con disabilità al centro del sistema, superando alcuni dei limiti che da sempre affliggono il contesto italiano.

In particolare, rinnovando metodi, strumenti di tutela e terminologia, il progetto è quello di abbandonare la molteplicità dei processi di accertamento e valutazione della disabilità, di incrementare e semplificare la collaborazione fra i diversi servizi (sanitari, sociali, lavorativi ecc.) e di supplire alla mancanza di una normativa unitaria di settore.

Pertanto, l’art.1 del d.lgs. 62/2024 è estremamente chiaro nel delineare le principali finalità della Riforma ossia «assicurare alla persona il riconoscimento della propria condizione di disabilità, (per) rimuovere gli ostacoli e (per) attivare i sostegni utili al pieno esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, delle libertà e dei diritti civili e sociali nei vari contesti di vita, liberamente scelti» (art. 1, comma 1, d.lgs. 3 maggio 2024, n.62, disponibile su: https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:decreto.legislativo:2024-05-03;62).

La nuova definizione della condizione di disabilità

Il concetto di disabilità non è nuovo all’ordinamento giuridico italiano. Infatti, con la legge 3 marzo 2009, n.18, l’Italia ha dato piena ed intera esecuzione alla Convenzione Onu sui diritti della persona con disabilità del 2006, introducendo, seppur in modo “frammentario”, tale nozione all’interno del nostro sistema giuridico.

Infatti, la Convenzione, pur non dettando una vera e propria definizione della disabilità, riconosce (Preambolo, lett.e) «che la disabilità è un concetto in evoluzione e che la disabilità è il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con altri».

Tuttavia, sino all’intervento del decreto in esame, sono sopravvissute all’interno del nostro ordinamento da un lato, una nozione giuridica di disabilità non conforme all’evoluzione giurisprudenziale e normativa europea; dall’altro, l’utilizzo di un «linguaggio da considerarsi ormai obsoleto» (con specifico riferimento all’art.38 della Costituzione v. Ferri, La giurisprudenza costituzionale sui diritti delle persone con disabilità e lo Human Rights Model of Disability: “convergenze parallele” tra Corte costituzionale e Comitato ONU sui diritti delle persone con disabilità, in Dirittifondamentali.it, 2020, 1, pp. 523 ss.) e di una  grande varietà di soluzioni lessicali per riferirsi alla nozione di disabilità, frutto della stratificazione degli interventi normativi in materia (per un approfondimento sugli effetti della revisione del linguaggio giuridico della disabilità v. Arconzo, Leone, Disabilità e lessico giuridico. Il mutamento di prospettiva nell’ordinamento italiano, in Brambilla, D’Amico, Crestani, Nardocci, (a cura di), Genere, Disabilità, linguaggio: Progetti e prospettive a Milano, Franco Angeli, 2021, pp. 157 ss.).

Nell’ottica di “lasciarsi alle spalle” tali criticità, il d.lgs. 62/2024 interviene con due distinte operazioni: una di carattere “definitorio”, un’altra di correzione terminologica.

Sotto il primo profilo, sulla scorta di quanto previsto dalla legge delega n. 227/2021 (nello specifico, dall’art.1, comma 5, lett. a), il decreto in commento interviene con una novità estremamente significativa: l’introduzione di una definizione uniforme ed “aggiornata” della «condizione di disabilità».

In particolare, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. a), quest’ultima è definita come la «duratura compromissione fisica, mentale, intellettiva, del neurosviluppo o sensoriale che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione nei diversi contesti di vita su base di uguaglianza con gli altri».

Tale definizione, valorizzando il carattere “relazionale” della disabilità (v. Alifano, Dalla Sega, De Falco, Di Gioia, Maini, La nuova definizione della “condizione di disabilità”: implicazioni e procedure ex D.lgs. n.62/2024, in Boll. Adapt, 2024, 3, pp.1 e ss.) chiarisce che, affinché essa si configuri, non sia sufficiente uno stato limitante della persona considerata nella sua individualità ma sia necessario mettere in stretta relazione tale condizione con una serie di barriere esterne, aventi natura variabile ma accumunate dall’essere idonee ad incidere sulla vita della persona, ostacolandone la partecipazione attiva e consapevole alla vita economica e sociale della comunità di appartenenza.

Senza alcun dubbio, l’introduzione della nuova nozione segna il definitivo transitare da una concezione meramente medica della disabilità, intesa tradizionalmente quale sinonimo di menomazione, ad una visione più ampia, in grado di abbracciare sfumature diverse e di valorizzare i molteplici fattori culturali e sociali presenti nell’ambiente circostante.

Trattasi di un notevole passo avanti nel complesso percorso di inclusione delle persone disabili, poiché, come la dottrina ha opportunamente messo in luce, per diversi anni la disabilità è stata percepita come una anormalità fisiologica o psicologica tale da incidere sulla capacità dell’individuo di compiere le attività della vita quotidiana «nella maniera considerata normale per un essere umano» (cfr. Medeghini, Valtellina, Quale disabilità? Culture, modelli e processi di inclusione, Franco Angeli, 2006, p.87).

Rifacendosi alle categorie giuridiche teoriche della capacità e della idoneità, l’impostazione tradizionale tendeva, dunque, ad escludere le persone con disabilità e a relegarle in un mondo a sé stante e separato, in quanto non aderenti al modello base di normalità comunemente accolto e, di conseguenza, “afflitti” da una «insuperabile diversità» (v. Buoso, op.cit., p.86).

Tale approccio prendeva le mosse dall’iniziale sistema classificatorio elaborato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1980 (trattasi dell’International classification of impairments, disabilities and handicaps), che aveva dato un’interpretazione restrittiva della disabilità, evidenziando esclusivamente la sua attitudine ad incidere negativamente sulla vita della persona, senza tenere debito conto delle barriere ambientali, architettoniche, sociali e culturali che influiscono direttamente sull’esperienza di disabilità.

Del resto, tale orientamento interpretativo, in assenza di una definizione di disabilità nella legislazione comunitaria (né la Carta dei Diritti dell’Unione Europea né la Direttiva 2000/78/CE ne contengono una), era stato inizialmente sposato anche dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che aveva affermato come per “handicap” dovesse intendersi «un limite che deriva, in particolare, da minorazioni fisiche, mentali o psichiche (…)» (C. giust., 11 luglio 2006, causa C-13/05, Chacon Navas, in eur-lex.europa.eu), in questo modo confermando l’enfasi data alle limitazioni sofferte dalla persona disabile e concependo tale stato come un problema personale, da risolvere esclusivamente tramite interventi medici e riabilitativi.

Tuttavia, come brevemente anticipato, con l’approvazione della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità del 2006, si è avuto un effettivo cambio di rotta, quanto meno nell’ordinamento multilivello, grazie al definitivo abbandono del c.d. “modello medico”, in favore del c.d. “modello bio-psicosociale”, già recepito dall’OMS nel 2001 con l’elaborazione dell’International classification of functioning, disability and health (ICF), sostitutivo della precedente classificazione (ICIDH) (v. Delogu, “Adeguare il lavoro all’uomo”: l’adattamento dell’ambiente di lavoro alle esigenze della persona disabile attraverso l’adozione di ragionevoli accomodamenti, in AmbienteDiritto, 2024, 1, pp. 6-9).

La stessa Corte di Giustizia, non potendo certamente ignorare un simile cambiamento, ha fornito un’interpretazione evolutiva della nozione di disabilità, ampliandone significativamente il perimetro. In particolare, nella nota pronuncia HK Denmark, l’ha definita come «una condizione patologica causata da una malattia diagnostica come curabile o incurabile qualora tale malattia comporti una limitazione risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di eguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata» (C. giust., 11 aprile 2013, causa C-335/11 e C-337/11, HK Denmark).

Del resto, anche la giurisprudenza interna, in anticipo rispetto al legislatore, ha recepito da alcuni anni tale nozione “ampliata” di disabilità, con una serie di pronunce fondamentali in materia di licenziamento (v., per tutte, Cass., 21 maggio 2019, n. 13649, in GI, 2019, 11, pp.2472 ss., con nota di Pasquarella; Bono, La giurisprudenza nazionale a tutela del lavoratore disabile tra divieti di discriminazioni e obbligo di soluzioni ragionevoli, in Del Punta, Gottardi, Nunin, Tiraboschi (a cura di), Salute e benessere dei lavoratori: profili giuslavoristici e di relazioni industriali, Adapt University Press, pp. 67-81).

Non deve sorprendere, alla luce di quanto sinteticamente esposto, l’entusiasmo con il quale è stato accolto l’intervento riformatore a pochi giorni dalla sua entrata in vigore.

Ad esso va infatti riconosciuto il grande merito di aver rotto la staticità del sistema normativo italiano, introducendo finalmente una definizione di disabilità incentrata sulla valorizzazione del contesto sociale in cui la persona svolge la propria vita e sui meccanismi di esclusione causati dall’interazione con i numerosi ostacoli e con le molteplici barriere presenti nell’ambiente circostante (per un approfondimento circa l’iniziale reticenza del legislatore italiano all’adozione del c.d. modello bio-psicosociale v. Buoso, op.cit., p.91 ss.).

Un radicale mutamento di prospettiva grazie al quale la collettività si fa finalmente carico dell’inclusione sociale e lavorativa delle persone con disabilità, dando piena attuazione non solo a quanto auspicato dall’ordinamento sovranazionale ma anche, e soprattutto, a quanto previsto dalla nostra Carta costituzionale.

A ben vedere, la tutela dei diritti delle persone con disabilità trova il proprio fondamento proprio nell’art. 3, comma 2, della Costituzione che, come noto, impegna la Repubblica a «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori alla vita politica, economica e sociale del Paese».

Abbracciando il principio di uguaglianza in senso sostanziale, e rifuggendo invece da una sua concezione meramente formale, lo Stato prende atto della diversa situazione di partenza e delle peculiari difficoltà che le persone affette da menomazioni durature sono tenute ad affrontare e, ben lontano dal rimanere un semplice spettatore, interviene attivamente per adattare il contesto di vita e di lavoro alle necessità della persona.

In definitiva, con il d.lgs. n.62/2024, la condizione di disabilità cessa di indicare un assoluto della persona e, di conseguenza, non può più essere misurata aprioristicamente in base alle condizioni fisiche o funzionali dell’interessato, ma solo ed esclusivamente nel corso del tempo e a posteriori, in funzione del rapporto concreto che quest’ultimo crea con il contesto ambientale in cui sviluppa la propria personalità.

Non è tuttavia questo l’unico ambito sul quale il legislatore è intervenuto in modo determinante.

Pienamente consapevole del fatto che «il nome che si dà ai fenomeni attiene strettamente alla rappresentazione sociale che degli stessi si vuole dare» (Sanlorenzo, Introduzione. Persone con disabilità: diritti e strumenti di tutela, in Questione Giustizia, 2018,3), egli ha scelto di dare esplicito riconoscimento alla nuova concezione della condizione di disabilità, anche attraverso una modifica sostanziale del linguaggio impiegato per descriverla.

A norma dell’art. 4 del d.lgs. n. 62/2024, rubricato «terminologia in materia di disabilità», da ora in avanti la parola «handicap», ovunque ricorra, è sostituita da: «condizione di disabilità»; così come le espressioni «persona handicappata», «portatore di handicap», «disabile» e «diversamente abile» sono sostituite da: «persona con disabilità».

Ben lontana dal poter essere considerata una semplice finezza linguistica, l’operazione in esame rappresenta senz’altro una scelta “culturale” e di sostanza: parlare di «persona con disabilità» significa scindere la persona dalla sua condizione e smettere di identificarla con essa, ponendo, viceversa, l’accento sulla dignità umana (v. Fiore, Massagli, La trasformazione del linguaggio e dei modelli inclusivi nel d.lgs. 62/2024: una nuova definizione di disabilità, in Boll. Adapt, 2024,3, pp.1 e ss.).

La nuova terminologia, che ha il pregio di aver semplificato il sistema sostituendosi alla pluralità di espressioni impiegate nel corso del tempo per far riferimento alla condizione di disabilità, altro non è che il portato della progressiva presa di coscienza da parte dell’ordinamento giuridico circa l’importanza delle parole e l’esigenza di evitare che la disabilità possa prevalere concettualmente «sull’identità e sulla dignità della persona» limitandone «i diritti e le aspettative di partecipazione e di crescita» (v. Arconzo, I diritti delle persone con disabilità, 2020, FrancoAngeli, p. 135).

Le modifiche all’art. 3 della legge 5 febbraio 1992, n.104

A completamento del quadro, le definizioni generali dettate dall’art. 2 del d.lgs. n. 62/2024, sono seguite dall’art. 3 che delinea la nozione di «persona con disabilità», introducendo diverse modifiche all’articolo 3 della Legge 5 febbraio 1992, n. 104.

In particolare, oltre ad aggiornare la rubrica della norma, non più «persona handicappata» ma «persona con disabilità», e ad introdurre una definizione di quest’ultima coerente con gli ultimi sviluppi sul tema, il decreto in commento si occupa di revisionare le condizioni di accesso alle prestazioni assistenziali previste dalla legislazione vigente.

A differenza di quanto avveniva in passato, la persona con disabilità si vede attribuito il diritto alle prestazioni previste in suo favore, non sulla base della gravità della menomazione, ma in relazione alla necessità di sostegno nel caso concreto.

Secondo le nuove norme, la necessità di sostegno può essere di livello non intensivo (e quindi lieve o medio) oppure intensivo (e quindi elevato o molto elevato), con la precisazione che «qualora la compromissione, singola o plurima, abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo tale da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione, il sostegno è intensivo e determina priorità nei programmi e negli interventi dei servizi pubblici» (art.3, comma 3, d.lgs. 3 maggio 2024, n.62).

Trattasi di un cambio di approccio che, ancora una volta, ha il merito di eliminare qualsiasi tentativo di connotare la persona con disabilità esclusivamente in base alle sue limitazioni funzionali e di promuovere una visione più inclusiva, graduando, dunque, la tutela in base al livello di sostegno necessario per consentire alla persona di partecipare in condizione di uguaglianza con gli altri ai vari ambiti della società.

La ratio di tali modifiche appare piuttosto evidente: «non ancorando l’intervento dell’ordinamento alla condizione personale del soggetto e alla relativa gravità della menomazione, si consente una maggiore discrezionalità, che permette anche un ampliamento della tutela e una sua proporzionalità e adeguatezza al caso concreto» (v. Alifano, Dalla Sega, De Falco, Di Gioia, Maini, op.cit., pp. 4-5).

A proposito di «ampliamento della tutela», il nuovo art. 3 della legge n.104/1992 non si limita ad introdurre una modifica puramente formalistica, ma ha un enorme impatto su tutte quelle disposizioni sparse all’interno dell’ordinamento giuridico che, al fine di riconoscere determinate tutele alle persone con disabilità e ai c.d. caregivers (ai sensi dell’art. 1, comma 255, legge n. 205/2017, il caregiver è «la persona che assiste e si prende cura del coniuge, dell’altra parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso o del convivente di fatto ai sensi della legge 20 maggio 2016, n.76, di un familiare o di un affine entro il secondo grado, ovvero nei soli casi indicati dall’art.33, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n.104, di un familiare entro il terzo grado che, a causa di malattia, infermità o disabilità, anche croniche o degenerative, non sia autosufficiente e in grado di prendersi cura di sé, sia riconosciuto invalido in quanto bisognoso di assistenza globale e continua di lunga durata ai sensi dell’art.3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n.104, o sia titolare di indennità di accompagnamento ai sensi della legge 11 febbraio 1980, n.18»), fanno espresso riferimento proprio a tale nozione.

Per citarne qualcuna, la nuova definizione di persona con disabilità potrebbe, ad esempio, avere l’effetto di ampliare il novero dei soggetti che, in base alla disciplina prevista dall’art. 33, comma 3, della legge n.104/1992, hanno diritto a ricevere i permessi retribuiti.

Come noto, la norma in questione, in attuazione dell’art. 38 della Costituzione, attribuiva tale agevolazione al lavoratore disabile e al lavoratore impegnato nell’assistenza di una persona con disabilità, purché quest’ultima versasse in condizione di gravità a norma dell’art.3, comma 3 della medesima legge.

Come anticipato, prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n.62/2024, l’art. 3, comma 3 stabiliva che: «Qualora la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione, la situazione assume connotazione di gravità. Le situazioni riconosciute di gravità determinano priorità nei programmi e negli interventi dei servizi pubblici».

Essa collegava, dunque, alla gravità della situazione, il riconoscimento di determinati diritti in capo alla persona con disabilità.

Dal momento che, come sopra evidenziato, con l’effettiva entrata a regime del nuovo sistema di tutele (prevista per l’intero territorio nazionale a decorrere dal 1°gennaio 2026) , tale comma  non presenterà più alcun riferimento alla gravità della menomazione ma sarà incentrato esclusivamente sulla necessità di sostegno della persona con disabilità, è verosimile pensare che i permessi saranno accordati ad una serie di lavoratori che, sotto la previgente disciplina, non rientravano nel perimetro dell’art.3, comma 3, legge n. 104/1992.

La valutazione di base

La Riforma, accanto alle modifiche di carattere definitorio, introduce una serie di novità con riferimento alle procedure di accertamento e, in particolare, in attuazione di quanto previsto dalla legge delega n.227/2021, «al fine di semplificare gli aspetti procedurali e organizzativi in modo da assicurare tempestività, efficienza, trasparenza e tutela della persona con disabilità», realizza la «razionalizzazione e unificazione in un’unica procedura del processo valutativo di base» (art.2, comma 2, lett. b), n.2).

La nuova disciplina individua nella valutazione di base il procedimento unitario volto al riconoscimento della condizione di disabilità che comprende ogni accertamento dell’invalidità civile previsto dalla normativa vigente in materia.

La valutazione di base, dunque, ha la finalità essenziale non solo di riconoscere alla persona la propria condizione di disabilità (con tutte le conseguenze che ne derivano), ma anche di individuare dettagliatamente i sostegni di cui il soggetto sottoposto alla procedura ha bisogno.

La nuova valutazione, unifica e sostituisce tutte le diverse forme di riconoscimento della disabilità  che si erano andate a sovrapporre nel corso del tempo, a partire da quelle generali, per finire con quelle mirate, quali ad esempio: l’accertamento dell’invalidità civile, della cecità e sordità civile, della sordocecità, della condizione di disabilità in età evolutiva ai fini dell’inclusione scolastica o ai fini di quella lavorativa, l’individuazione dei presupposti per la concessione di assistenza protesica, sanitaria e riabilitativa ovvero degli elementi utili alla definizione della condizione di non autosufficienza nonché l’individuazione dei requisiti necessari per l’accesso ad agevolazioni fiscali, tributarie e relative alla mobilità (v. Biancotti, Persona con disabilità, in Pratica Lavoro, 2024,15, pp. 2 e ss.).

Con specifico riferimento alla riconduzione all’interno della valutazione di base dell’accertamento della condizione di disabilità ai fini dell’inclusione lavorativa (ai sensi della legge 12 marzo 1999, n.68) sono state sollevate delle perplessità.

Alcuni studiosi hanno messo in luce il rischio di una collisione con le regole recentemente dettate dalle «Linee guida in materia di collocamento mirato delle persone con disabilità» volte alla promozione di «una rete integrata dei servizi (sociali, sanitari, istruzione/formazione, lavoro) per la continuità nell’accompagnamento dei progetti personalizzati, anche mediante la presenza di équipe multidisciplinari» (v. De Falco, op.cit., p. 1745).

Ad ogni modo, la concentrazione delle numerose procedure di accertamento oggi vigenti in un’unica valutazione di base, risponde sicuramente all’istanza di semplificazione sollevata da più parti, che, non da ultimo, trova ulteriore conferma nell’affidamento dell’intera procedura valutativa all’INPS quale «soggetto unico accertatore».

A tal proposito, poiché a norma dell’art. 5, comma 3, lett. a), del d.lgs. n.62/2024, l’intera procedura valutativa medico-legale sarà informata alle Classificazioni ICD e ICF (rispettivamente International Classification of Diseases e International Classification of Functioning, Disability and Health), è auspicabile che, prima dell’effettiva operatività della valutazione di base, venga impartita agli operatori un’opportuna formazione al riguardo.

Anche in questo caso, infatti, il legislatore, consapevole delle difficoltà nell’implementazione della Riforma, ha previsto un’entrata in vigore graduale delle nuove norme, che verranno applicate in via sperimentale solo in alcune province a partire dal 2025, per poi stabilizzarsi sull’intero territorio nazionale a decorrere dal 1° gennaio 2026.

Il riconoscimento della condizione di disabilità determina l’acquisizione di una tutela proporzionata al livello di disabilità, nonché la tutela dell’accomodamento ragionevole e la possibilità di chiedere l’avvio del procedimento di valutazione multidimensionale per l’elaborazione del progetto di vita.

Le novità in materia di accomodamenti ragionevoli

Il Capo II si chiude con l’art. 17, che inserisce nella legge n. 104/1992 l’art. 5-bis, contenente la definizione di accomodamento ragionevole.

In particolare, riprendendo le parole del legislatore, con tale locuzione si intende far riferimento a tutte «le misure e gli adattamenti necessari, pertinenti, appropriati e adeguati, che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo al soggetto obbligato», la cui adozione è necessaria per assicurare alle persone con disabilità «il godimento e l’effettivo e tempestivo esercizio su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali».

Il comma 2, coerentemente con quanto previsto dall’art. 5, comma 1, della l. n. 104/1992, specifica che si tratta di una misura sussidiaria che «non sostituisce né limita il diritto al pieno accesso alle prestazioni, ai servizi e ai sostegni riconosciuti dalla legislazione vigente».

La norma, che richiama espressamente l’art. 2 della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, tramite l’introduzione all’interno dell’ordinamento giuridico italiano della nuova definizione di accomodamento ragionevole, costruisce una tutela di tipo trasversale della persona con disabilità, non più limitata esclusivamente al settore occupazionale e iscritta nella cornice del diritto antidiscriminatorio, ma estesa alla sfera relazionale del soggetto e volta a consentire la piena partecipazione del lavoratore alla vita della comunità (v. Delogu, op.cit., pp. 26-27).

Per capire a pieno la portata di tale innovazione, è bene ricostruire sinteticamente il quadro normativo sul quale quest’ultima si inserisce.

Come noto, l’istituto degli accomodamenti ragionevoli trova il proprio fondamento normativo nel diritto sovranazionale.

Esso si configura come un corollario del principio europeo dell’adeguamento del lavoro all’uomo in virtù del quale «alla stessa idea di uguaglianza si ispira l’obbligo di adattare l’ambiente di lavoro alle diverse abilità e alle diverse condizioni di vita dei lavoratori disabili» (v. Barbera, Discriminazioni e pari opportunità (diritto del lavoro), in Enciclopedia del Diritto, 2014, Annali VII, Giuffré, p.385).

I due pilastri su cui l’istituto in esame poggia le proprie basi sono da un lato, la Direttiva 2000/78/CE, che ha imposto ai datori di lavoro l’adozione di «soluzioni ragionevoli» al fine di “sistemare” il posto di lavoro in funzione delle esigenze concrete della persona con disabilità (v. l’ampia ricostruzione di Barbera, Le discriminazioni basate sulla disabilità, in Barbera (a cura di), Il nuovo diritto antidiscriminatorio, Giuffrè, 2007, pp.77 ss.); dall’altro, la Convenzione ONU del 2006 sui diritti delle persone con disabilità, che ha esteso la portata precettiva dell’obbligo stabilito dall’art. 5 della Direttiva comunitaria, stabilendo che «al fine di promuovere l’uguaglianza ed eliminare le discriminazioni, gli Stati Parti adottano tutti i provvedimenti appropriati, per garantire che siano forniti accomodamenti ragionevoli» (art.5, comma 3).

Tuttavia, l’Italia ha recepito tale tecnica di tutela mediante l’aggiunta del comma 3-bis all’art.3 del d.lgs. 9 luglio 2003,n. 216, soltanto a seguito della condanna da parte della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che ha ritenuto carente la trasposizione italiana dell’art. 5 della Direttiva nella parte in cui «non è sufficiente disporre  misure pubbliche di incentivo e di sostegno ma è compito degli Stati membri imporre a tutti i datori di lavoro l’obbligo di adottare provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, a favore dei disabili» (C. giust., 4 luglio 2013, causa C-312/11, Commissione europea vs. Repubblica Italiana).

A ben vedere, la disciplina introdotta dal citato comma 3-bis presentava, comunque, diversi limiti: sia perché adottava una definizione piuttosto vaga degli «accomodamenti ragionevoli», sia perché l’ambito di applicazione della norma era ristretto al contesto lavorativo e al mantenimento dell’occupazione (v. Caneve, Cucchisi, Le novità introdotte dal d.lgs. n.62/2024 in materia di accomodamenti ragionevoli e le loro implicazioni per il diritto del lavoro, in Boll. Adapt, 2024, 3, p. 3).

Con il d.lgs. n. 62/2024, si è passati, invece, ad una tutela “universalistica” della persona con disabilità, che non si limita più alla sola dimensione professionale ma considera anche l’ambito relazionale della persona, con la prospettiva di garantire la sua piena inclusione non solo lavorativa, ma anche sociale.

Il comma 5, dell’art. 17, del d.lgs. n.62/2024, conferma il carattere dinamico e variabile degli accomodamenti ragionevoli, che non a caso sono stati definiti da alcuni autori come una vera e propria

«soluzione su misura» (v. Delogu, op.cit., p. 12), stabilendo che «l’accomodamento ragionevole deve risultare necessario, adeguato, pertinente e appropriato rispetto all’entità della tutela da accordare e alle condizioni di contesto nel caso concreto, nonché compatibile con le risorse effettivamente disponibili allo scopo».

Il legislatore della Riforma ha evidentemente fatto propria l’evoluzione giurisprudenziale sul tema, in base alla quale l’obbligo del datore di lavoro di adottare accomodamenti ragionevoli incontra due limiti: per un verso, l’onere finanziario a suo carico deve essere proporzionato alle dimensioni e alle caratteristiche dell’impresa (cfr. ex multis: Cass., 29 dicembre 2019, n.34132; Cass., 19 marzo 2018, n. 6798); per un altro, l’accomodamento deve rispettare il canone della ragionevolezza e, di conseguenza, il datore di lavoro deve effettuare uno sforzo diligente ed esigibile al fine di trovare una soluzione organizzativa caratterizzata dalla «appropriatezza, ovvero per la (loro) idoneità a consentire alla persona svantaggiata di svolgere l’attività lavorativa» (cfr. ex multis, Cass., 9 marzo 2021, n. 6497).

In questo modo, si attribuisce al datore di lavoro prima, al giudice poi, il difficile compito di operare il bilanciamento fra il diritto al lavoro della persona con disabilità e l’interesse dell’impresa ad organizzare liberamente l’attività produttiva.

Tuttavia, è proprio l’esigenza di “calibrare” il tipo di intervento alle esigenze del caso concreto che determina l’onere del datore di lavoro di adottare, ai fini dell’inclusione lavorativa della persona con disabilità, delle azioni positive e dei comportamenti attivi che possono giungere finanche alla modifica dell’organizzazione aziendale, sia pure nei limiti della proporzionalità e ragionevolezza.

Ciò comporta che, almeno su un piano puramente astratto, nessuna modifica dell’organizzazione aziendale è esclusa in quanto tale dalla nozione di accomodamento ragionevole; è, invece, sul piano concreto che si svolgerà la verifica circa la ragionevolezza della misura e l’eventuale sproporzione della stessa.

Accanto all’introduzione della nuova definizione di accomodamento ragionevole, il d.lgs. n. 62/2024 ha previsto delle rilevanti novità con riferimento alla procedura per l’adozione di tali misure.

Il comma 3 del nuovo art. 5-bis stabilisce che «la persona con disabilità, l’esercente la responsabilità genitoriale in caso di minore, il tutore ovvero l’amministratore di sostegno se dotato dei poteri ha la facoltà di richiedere, con apposita istanza scritta, alla pubblica amministrazione, ai concessionari di pubblici servizi e ai soggetti privati l’adozione di un accomodamento ragionevole, anche formulando una proposta».

Segue il comma 4, che specifica come la persona con disabilità (o il richiedente di cui al comma 3, se diverso) partecipino attivamente al procedimento volto all’individuazione dell’accomodamento ragionevole.

Il coinvolgimento della persona con disabilità e la sua partecipazione attiva ai “processi” che la riguardano, sembrano essere i “fari” che guidano l’intervento riformatore.

A ben vedere, alla persona con disabilità viene riconosciuto un ruolo attivo in tutto il processo destinato all’adozione dell’accomodamento ragionevole: nel momento “genetico”, tramite il diritto accordatogli dal comma 3 di attivare il procedimento e di formulare una proposta; in corso di procedimento, in quanto il comma 4 stabilisce espressamente la partecipazione della persona con disabilità alla procedura; in fase “conclusiva”, poiché il comma 7, impone che nel provvedimento finale sia tenuto conto delle esigenze e dei bisogni della persona con disabilità «anche attraverso gli incontri personalizzati e conclude il procedimento con diniego motivato, ove non sia possibile accordare l’accomodamento ragionevole proposto, con l’indicazione dell’accomodamento secondo i principi di cui al comma 5».

In conclusione, il nuovo art. 5-bis della l. n. 104/1992, è perfettamente in linea con le finalità espresse dall’art.1 del d.lgs. n. 62/2024, in quanto attribuisce un ruolo centrale alla persona, tramite la costruzione di un «processo condiviso» che la vede direttamente coinvolta nell’individuazione delle misure più idonee a consentirne l’inclusione.

Tuttavia, l’attribuzione alla persona con disabilità della facoltà di attivare il procedimento volto all’individuazione dell’accomodamento ragionevole, ha sollevato alcune domande circa i possibili effetti di una sua mancata attivazione da parte dell’interessato.

Se da un lato l’art. 17 è chiaro nel conferire una semplice facoltà e non un onere alla persona con disabilità, è vero anche che, laddove la si interpretasse come un’espressione dei principi generali di correttezza e buona fede, il suo mancato esercizio potrebbe assumere un’autonoma rilevanza giuridica (v. Caneve, Cucchisi, op.cit. p.5).

Il progetto di vita individuale, personalizzato e partecipato

Strettamente connessa a tale ultima considerazione, è la disciplina introdotta dal d.lgs. n.62/2024 nei successivi artt. 18-32, dedicati alla procedura partecipata che, attraverso una valutazione multidimensionale, conduce alla stesura del «progetto di vita individuale personalizzato e partecipato» che ha la finalità di  «realizzare gli obiettivi della persona con disabilità per migliorare le condizioni personali e di salute nei diversi ambiti di vita, facilitandone l’inclusione sociale e la partecipazione nei diversi contesti di vita su base di uguaglianza con gli altri» (art. 18, comma 1, d.lgs. n. 62/2024).

All’interno del progetto, dovranno trovare collocazione tutte le informazioni sulla persona con disabilità, in modo tale da consentire un efficace coordinamento con i progetti e i piani di intervento previsti per garantire l’inclusione e la partecipazione della persona stessa ad ogni singolo contesto di vita (compreso quello scolastico, educativo, formativo, sociale e lavorativo).

Il decreto, dopo aver introdotto la definizione del progetto di vita e averne delineato gli obiettivi, si concentra sugli aspetti procedurali.

Nello specifico, su richiesta della persona con disabilità viene avviata la valutazione multidimensionale che, attraverso un approccio multidisciplinare basato sul modello bio-psicosociale, garantisce supporto nei processi partecipativi e decisionali. Tale procedura valutativa, affidata alle unità di valutazione multidimensionali, si sviluppa in quattro fasi: rilevamento degli obiettivi della persona e definizione del profilo di funzionamento, nei differenti ambiti di vita liberamente scelti; individuazione di barriere, facilitatori e competenze adattive; valutazione del profilo di salute, dei bisogni e della qualità della vita; definizione degli obiettivi da raggiungere attraverso il progetto di vita.

Al termine della valutazione multidimensionale viene, dunque, elaborato il progetto di vita individuale personalizzato e partecipato, da coloro che hanno preso parte al procedimento. Tale progetto, è uno strumento innovativo che individua le prestazioni, i servizi e gli accomodamenti ragionevoli necessari per rimuovere le barriere e attivare i supporti utili all’inclusione della persona. In fin dei conti, la persona con disabilità è la vera “protagonista” del progetto di vita e, di conseguenza, la titolarità, l’attivazione e il monitoraggio dello stesso, spettano a lei (per una disamina dell’istituto v. Boccoi, Brambilla, Loponte, Negri, Zanoni, Il nuovo Progetto di Vita individuale, personalizzato e partecipato: quale valore aggiunto per le persone con disabilità?, in Boll. Adapt, 2024, 3, pp.1 e ss.).

Al pari di quanto osservato con riferimento al procedimento diretto all’individuazione degli accomodamenti ragionevoli, anche nell’elaborazione del progetto di vita viene in luce il ruolo attivo e centrale della persona con disabilità.

Non stupisce, dunque, che siano stati sollevati quesiti analoghi.

Parte della dottrina ha sagacemente osservato che la natura, almeno apparentemente, non obbligatoria della valutazione multidimensionale – attivabile, come analizzato, su iniziativa della persona con disabilità o di chi la rappresenta – potrebbe avere come conseguenza “collaterale”, un appiattimento degli effetti innovativi della Riforma (v. De Falco, op.cit., p.1744).

In particolare, il rischio è che venga garantito a tutti l’accertamento medico di base volto al riconoscimento della condizione di disabilità, ma che, viceversa, solo chi lo richieda espressamente abbia accesso alla valutazione multidimensionale che, per le sue peculiari caratteristiche, rappresenta uno dei più efficaci strumenti per consentire l’effettiva inclusione delle persone con disabilità.

Cenni conclusivi

L’analisi sin qui effettuata conferma come il d.lgs. n.62/2024 abbia posto le basi per un effettivo cambiamento nel modo di pensare e di “regolare” la disabilità.

Non resta allora che cogliere questa “sfida”, con l’auspicio che con la piena implementazione della Riforma, ispirata alla nuova e ritrovata centralità della persona a prescindere dalle sue limitazioni funzionali, il sistema giuridico italiano possa portare finalmente a compimento il complesso processo di inclusione sociale e lavorativa delle persone con disabilità.

Caterina Giulia Guidetti, dottoranda di ricerca nell’Università degli Studi di Roma La Sapienza

Visualizza il documento: D.lgs. 3 maggio 2024, n. 62

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