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Patto di non concorrenza post contrattuale: tra nullità, forma di protezione e clausole vessatorie

5 Aprile 2024|

La sentenza del Tribunale di Verona, qui commentata (n. 691 del 4 gennaio 2024) ripercorre le tecniche di tutela, conservative e demolitorie (sub specie di nullità di protezione), in caso di patto di non concorrenza post contrattuale non specificatamente approvato per iscritto dalle parti.

Il rapporto contrattuale si caratterizza, infatti, in considerazione della peculiare asimmetria informativa in essere tra le parti.

I giudici ribadiscono che la previsione di un patto di non concorrenza post contrattuale, nei termini previsti dalle parti, si configura come una espressa limitazione alla libertà contrattuale che avrebbe dovuto essere specificamente approvata per iscritto ai sensi dell’art. 1341 comma 2 c.c.

Sostiene al riguardo parte ricorrente che il contratto in questione esula dal perimetro applicativo di cui all’art. 1341 c.c., non essendo stato predisposto dalla preponente; invero, la qualità delle parti e, soprattutto l’espressa previsione in calce al contratto della volontà di “approvare specificatamente le condizioni e le obbligazioni previste nel contratto (cui pero non fa seguito alcuna ulteriore sottoscrizione) è chiaramente indicativa della volontà delle parti di qualificare tale clausola come vessatoria, di tal che essendo la vicenda in esame riconducibile all’integrale disciplina dell’art, 1313 c.c. ne consegue sotto tale profilo l’inefficacia della clausola contrattuale (G. Pera, Professione (libertà di), in Enc dir, p. 1040; si veda anche P. Fabris, Il patto di non concorrenza, Giuffrè, 1976, p. 43.

Per P. Ichino, Il contratto di lavoro, III, Trattato di Diritto Civile e Commerciale a cura di Cicu Messineo, 2003, p. 306, la valorizzazione del corrispettivo potrebbe portare «all’azzeramento totale delle possibilità effettive di occupazione del lavoratore, quando tale azzeramento sia compensato in maniera pari all’intero reddito che egli perde». Vedasi anche V. Pagliaro, Il patto di non concorrenza del prestatore di lavoro, in RDI, 1960, p. 218).

Di notevole pregio ricostruttivo e sistematico, invero, è la pronuncia in commento.

Essa sancisce che la facoltà di esercitare ad libitum la facoltà di avvalersi del patto post contrattuale e la soggezione della parte vincolata al rispetto di un obbligo, cui corrisponde la volontà meramente potestativa della preponente configura, inoltre, un accordo soggetto appunto ad una condizione meramente potestativa come tale nullo ai sensi dell’art. 1355 c.c.
Secondo i giudici, pare, infatti, chiaro che nel caso di specie le parti hanno voluto condizionare l’operatività del patto di non concorrenza post contrattuale alla manifestazione di volontà di una parte, la preponente, a cui stata lasciata la facoltà di valutare se avvalersi della stessa, secondo lo schema “lo farò se vorrò” facendo scattare t’obbligo di non compiere atti di concorrenza a fronte della corresponsione del compenso stabilito (A. Zoppini, Il contratto asimmetrico tra parte generale, contratti di impresa e disciplina della concorrenza, in RDC, 2008, I, 516).
L’art. 1751 bis c.c. sancisce la validità dei patti di non concorrenza a precise condizioni che ne determinano anche precisi effetti.

È l’accettazione del patto di non concorrenza da parte dell’agente che comporta, in occasione dalia cassazione del rapporto, la corresponsione dell’indennità. Come sopra rilevato, invece, nel caso di specie, l’accettazione dell’agente di fatto è stata posta nel nulla, fasciandosi alla libera della preponente la decisione di avvalersi o meno del patto in questione.
Prima di analizzare, brevemente, le problematiche pratico –applicative del caso sottoposto alla Corte, occorre vagliare la disciplina del patto di non concorrenza, con riguardo al perimetro limitativo dell’autonomia privata.

Un primo elemento che occorre valutare è quello relativo al perimetro applicativo della disciplina di cui all’art 2125 e 2596 c.c.

In particolare, gli artt. 2125 e 2596 c.c. delimitano due campi di disciplina del patto di non concorrenza tra loro antitetici quanto all’elemento dell’onerosità: ciò che è richiesto a pena di nullità ai sensi dell’art. 2125 non lo è invece agli effetti dell’art. 2596 (L. Delli Priscoli, La portata giuridica del patto di non concorrenza di cui all’art. 2596 c.c., in GComm, 2004, p. 3, p. 382).

Non si tratta dell’unica differenza: nell’art. 2596 i limiti di zona e attività, pur formalmente alternativi, incontrano solo il limite di formule generiche o onnicomprensive, impeditive di ogni attività professionale (secondo la formula usata dall’art. 2557,2 comma, c.c.); nell’art. 2125 l’oggetto e il luogo si cumulano e la loro valutazione congiunta serve a tutelare la possibilità del lavoratore di ricollocarsi sul mercato impiegando il proprio bagaglio professionale, secondo un criterio di contemperamento degli opposti interessi.

Si dice anche che, rispetto all’art. 2596, la portata dell’oggetto e del luogo nell’art. 2125 ha natura “differenziale”; riguarda la stessa attività del datore di lavoro, non attività analoghe o affini.

Questi due campi di disciplina dovrebbero corrispondere, dal punto di vista della qualificazione del soggetto obbligato, a ciò che sta entro il perimetro del lavoro subordinato e a ciò che ne sta fuori: tendenzialmente, ma non solo, nel campo dell’impresa.

Nell’art. 2596 c.c. la libertà di impresa è riconosciuta, pur entro certi limiti, come disponibile anche senza corrispettivo, supponendo che il sinallagma che giustifica il sacrificio sia insito nella valutazione di interesse che le parti ne fanno; non così la libertà di cedere la propria forza lavoro, che è sì disponibile, ma solo a titolo oneroso. Si può dire che l’art. 2125 c.c. sanziona l’assenza o l’inadeguatezza del corrispettivo con una nullità di protezione ante litteram, posta nell’interesse di una sola parte del rapporto.

La norma sostituisce il precedente divieto legislativo (art. 8 r.d. 13.11.24 n. 1825, legge sull’impiego privato) e si pone in continuazione dell’obbligo di fedeltà, che vincola il dipendente durante la vigenza del rapporto (L. Montuschi, Patto di non concorrenza concluso dopo l’estinzione del rapporto di lavoro, in RDPC, 1965, p. 808).

In tale complessa prospettiva, accanto ad una funzione di difesa avanzata da condotte di concorrenza sleale dell’ex dipendente e quindi di tutela del patrimonio dell’impresa, se ne può intravvedere un’altra, di fidelizzazione del lavoratore, che limita, già durante il rapporto, la libertà di scelta del lavoro, a fronte di un di più che la giurisprudenza ha talora ritenuto adeguato quando solo non fosse meramente simbolico, o manifestamente iniquo o sproporzionato

Sull’altro versante, i limiti alla libertà negoziale previsti dall’art. 2596 c.c. segnano il confine sino al quale si può spingere la libertà delle parti, ma senza che venga in primaria considerazione né l’interesse del mercato, né la tutela del consumatore, né i motivi dell’atto di disposizione per le parti. Si può dire che la libertà di impresa e quella di concorrenza vengono assunte qui nella dimensione individuale, di libertà anche negativa, spettante a soggetti formalmente uguali e liberi di determinarsi; e in questo modo ha mostrato di intenderla anche la Corte costituzionale.

Si può anche ritenere che, in tale prospettiva,  la libertà del singolo è una libertà contro il mercato, essendo semmai i limiti ad essere funzionali al mercato o, per usare il linguaggio del codice, all’interesse unitario dell’economia nazionale.
Sarà la disciplina antitrust (e in particolare l’art. 2, l. 287/90) a restringere il campo di applicazione dell’art. 2596 c.c., quando il patto abbia per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante.

Con la restrizione del campo di applicazione, cessa anche la possibilità di elevare a regola generale quella libertà formale delle parti di impegnarsi a un obbligo negativo di non facere.

Occorre evidenziare, peraltro, che il patto di non concorrenza di cui all’art. 2596 c.c. rientra tra le clausole per le quali si richiede la specifica approvazione scritta, ai sensi dell’art. 1341, co. 2, c.c.; non così invece per il patto di non concorrenza del lavoratore subordinato, se si tratti di pattuizione individuale conclusa senza l’utilizzazione di moduli o formulari. Il confine tra i due campi di disciplina corrisponde dunque all’alternativa tra tutela di carattere formale e tutela sostanziale. Il patto di non concorrenza del lavoratore subordinato non è assimilabile ad una clausola vessatoria.
Entrambe le norme, infine, quando vi sia stato un precedente rapporto tra le parti, si applicano a rapporto concluso.

Tanto premesso in via generale, occorre ora analizzare la fattispecie concreta. Il caso specifico riguardava un patto di non concorrenza sottoposto ad una condizione risolutiva meramente potestativa a favore di parte datoriale. Il datore di lavoro aveva poi esercitato il diritto di recesso in corso di rapporto.

La lavoratrice aveva richiesto il pagato del corrispettivo previsto in relazione al patto di non concorrenza.

Nella sentenza qui segnalata viene anzitutto ribadito l’orientamento consolidatosi in giurisprudenza, per cui la previsione della risoluzione del patto di non concorrenza rimessa all’arbitrio del datore di lavoro concreta una clausola nulla per contrasto con norme imperative. Viene poi evidenziato che non rileva il momento dell’esercizio da parte del datore di lavoro del diritto di recesso, neppure se collocato in costanza di rapporto di lavoro, poiché le rispettive obbligazioni si sono cristallizzate al momento della sottoscrizione del patto.

Diversamente opinare significherebbe – almeno per il periodo antecedente al recesso – impedire al lavoratore la possibilità di progettare il proprio futuro lavorativo. Una siffatta ricostruzione – secondo i giudici – sarebbe da escludersi ai sensi dell’art. 2125 c.c., in assenza di un corrispettivo da parte del datore di lavoro, che sarebbe appunto escluso ove si consentisse al datore di lavoro di liberarsi ex post dal vincolo di non concorrenza.

In dottrina e in giurisprudenza è presente un acceso dibattito sulla legittimità del diritto di recesso.  Una tesi prevalente la ritiene nulla per violazione di una norma imperativa, individuata attraverso l’interpretazione dell’art. 2125 c.c., alla luce degli artt. 4 e 35 Cost., dai quali conseguirebbe un “diritto alla certezza”, che deve essere riconosciuto al lavoratore, a bilanciamento della “grave ed eccezionale limitazione alla libertà d’impiego delle energie lavorative” (vedasi ex multis Cass., 8 gennaio 2013, n. 212 e analogamente Cass., 2 gennaio 2018, n. 3 e Cass., 4 aprile 2017, n. 8715).

Un profilo parallelo e connesso alla querelle annosa delle clausole di recesso dal patto di non concorrenza – ma non trascurabile – riguarda il patto di opzione regolato dall’art. 1331 c.c.

La norma prevede che: “Quando le parti convengono che una di esse rimanga vincolata alla propria dichiarazione e l’altra abbia facoltà di accettarla o meno, la dichiarazione della prima si considera quale proposta irrevocabile per gli effetti previsti dall’articolo 1329. Se per l’accettazione non è stato fissato un termine, questo può essere stabilito dal giudice.”.

Se applicata al patto di non concorrenza, le parti concordano la facoltà del datore di lavoro di decidere se “perfezionare” o meno il patto di non concorrenza, a seconda delle valutazioni di opportunità che potrà svolgere fino al momento della cessazione del rapporto, così assumendo o meno i relativi oneri economici del corrispettivo (P. Di Tullio – F. Sanna, Sub art. 2596 cod. civ., in Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza, a cura di G. Marchetti – L.C. Ubertazzi, Padova, 2016, p. 2296; Cass., 14 dicembre 1959, n. 3544, in Giust. civ., 1960, I, p. 243, con nota di M. Fabiani, Limiti di tutela delle massime e dei repertori di giurisprudenza e concorrenza sleale. Contra R. Corrado, La somministrazione, in Trattato di diritto civile italiano, fondato da F. Vassalli, VII, 2, Torino, 1963, p. 213).

Secondo una ricostruzione ermeneutica, ricorrerebbe una fattispecie contrattuale a formazione progressiva, costituita inizialmente da un accordo avente ad oggetto la irrevocabilità della proposta del promittente (in questo caso il lavoratore), e, successivamente, dalla eventuale accettazione del promissario (in questo caso il datore di lavoro) che, saldandosi con la precedente proposta, perfeziona il nuovo negozio giuridico.

Al netto della questione del corrispettivo per il “diritto di uscita”, sarebbe da valutare se ammettere l’opzione e non il recesso sia o meno contraddittorio poiché, indipendentemente dalla struttura concreta dei due istituti, gli effetti sono esattamente gli stessi, sul piano applicativo. Infatti, se un lavoratore riceve un’offerta di lavoro da un concorrente del proprio datore di lavoro, deve poter sapere se poterla accettare o meno. Se la rifiuta a motivo del patto di non concorrenza, dovrebbe essere irrilevante – almeno considerando il quadro richiamato degli artt. 4 e 35 Cost. – che questo rifiuto sia determinato dal fatto che egli “è” o invece che “potrebbe essere” vincolato da un patto di non concorrenza.

In conclusione, clausola di opzione, come nel caso di specie, che accede al patto di non concorrenza post contrattuale contenuto nel contratto di agenzia per cui è causa, comprimendo illegittimamente il potere negoziate dell’agente e creando un ingiustificato squilibrio dei contrapposti interessi delle parti, deve essere dichiarata nulla.

Si ritiene che la nullità in analisi possa rientrare, astrattamente, in quella “di protezione”

La nullità di protezione opera, infatti, come strumento correttivo dell’assetto contrattuale squilibrato, determinato dalla predisposizione unilaterale di clausole vessatorie, tali da pregiudicare l’interesse del consumatore (La mancanza di una definizione di concorrenza a tutela della part debole – quale il lavoratore o il consumatore – è messa in risalto da M.S. Spolidoro, Il concetto di concorrenza nel diritto, cit., pp. 487-488; M. Libertini, Diritto della concorrenza dell’Unione Europea, Milano, 2014, p. 3, il quale ne ricava che « la nozione di concorrenza è implicitamente data per autoevidente »; Id., Concorrenza, in Enc. dir., Annali, III, Milano, 2007, pp. 197-198 e p. 220).

Le “nuove” nullità rispondono, allora, ad opzioni di natura propriamente politica (e pertanto sono necessariamente variegate e multiformi) perché costituiscono lo strumento attraverso il quale il legislatore persegue obiettivi di politica legislativa. La ratio di tali nullità si rinviene, secondo la dottrina maggioritaria, nell’introduzione di un nuovo concetto di ordine pubblico e, quindi, di norma imperativa inderogabile.

Un ordine pubblico di protezione, perché ci sono norme di ordine pubblico che non tutelano un interesse generale della collettività ma che, al contrario, tutelano solo alcuni soggetti giuridici in quanto appartenenti a ceti o a gruppi sociali, caratterizzati da una situazione di particolare debolezza e vulnerabilità e che, conseguentemente, necessitano di una specifica protezione da parte del legislatore.

Ne consegue che se ci sono delle norme di ordine pubblico poste a tutela degli interessi particolari di alcuni gruppi sociali che sono identificati dal legislatore sulla base di una valutazione discrezionale, legittimati a far valere l’eventuale violazione della norma imperativa sono esclusivamente i soggetti da questa protetti e che, analogamente, anche la rilevabilità d’ufficio è preordinata alla tutela degli stessi interessi essendo subordinata al vantaggio che dalla rilevazione ricaverebbe il contraente cd. debole.

L’introduzione nel sistema delle cd. nullità di protezione, testimonia in modo tangibile la crisi della distinzione fra pubblico e privato nella cura degli interessi sottesi alle patologie negoziali. La complessità delle nullità protettive è, difatti, irriducibile alla dicotomia pubblico-privato: «si tratta di patologie tese ad attuare un interesse riferibile al mercato inteso non quale astrazione, ma sintesi delle legittime aspettative degli operatori che quotidianamente ne sono protagonisti (consumatori, utenti, imprese), un interesse destinato ad intrecciarsi inestricabilmente con quello che, a livello macroeconomico, muove il singolo contraente ad invocare la caduta o il riequilibrio della regola contrastante con la comminatoria» (vedasi G. Passagnoli, Codice del Consumo, commentario a cura di G. Vettori, artt. 36- 38, Padova, 2007, p. 223 ss.; M. Nuzzo, Utilità sociale e autonomia privata, Napoli, 2011, p. 33 ss. e p. 62; L. Mengoni, Programmazione e diritto, in Jus, 1966, p. 10 ss.; e N. Irti, I cinquant’anni del Codice Civile, in Riv. dir. civ., 1992, I, p. 227 ss., 233; G.B. Ferri, Ordine pubblico, buon costume e la teoria del contratto, Milano, 1970, p. 241 ss.).

Giuseppe Maria Marsico, dottorando di ricerca in diritto privato e dell’economia e funzionario giuridico-economico-finanziario

Visualizza il documento: Trib. Verona, 4 gennaio 2024, n. 691

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