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La Consulta: è costituzionalmente legittima la normativa del Jobs Act in materia di licenziamenti collettivi

11 Aprile 2024|

Chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 10, unitariamente considerato, e in combinato disposto con l’art. 3, comma 1, del D. Lgs. 4 marzo 2015, n. 23, nel testo anteriore alle modifiche apportate dall’art. 3, comma 1, del D.L. 12 luglio 2018, n. 87, convertito, con modificazioni, nella L. 9 agosto 2018, n. 96, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 7 del 22 gennaio 2024, dichiara in parte inammissibili ed in parte infondate le censure sollevate dall’ordinanza di rimessione pubblicata dalla Corte d’Appello di Napoli in data 16 aprile 2023.

In sostanza, secondo la valutazione dei giudici partenopei la sanzione prevista dall’art. 3, comma 1, del D. Lgs. n. 23 del 2015, richiamato dall’art. 10 del medesimo decreto  risulterebbe, nella versione antecedente alle modifiche apportatevi dal D.L. n. 87 del 2018 “manifestamente disomogenea sia rispetto a quella ripristinatoria applicabile per il medesimo tipo di invalidità del recesso ai rapporti di lavoro costituiti ante 7 marzo 2015, sia rispetto a quella applicabile ai rapporti costituiti dopo il 7 marzo 2015, ma risolti dopo la novella del 2018, che ha aumentato l’indennizzo, nel minimo da quattro a sei e nel massimo da ventiquattro a trentasei mensilità”.

Le questioni di legittimità costituzionale delle norme sopra menzionate erano state sollevate dalla Corte d’appello di Napoli, sezione lavoro, che in precedenza già aveva proposto in riferimento alle medesime questioni un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea (dichiaratasi, con ordinanza del 4 giugno 2020, manifestamente incompetente per l’estraneità della controversia del procedimento principale agli obblighi imposti dalla direttiva 98/59/CE del Consiglio) ed eccezioni di illegittimità costituzionale (dichiarate inammissibili dalla Consulta con sentenza n. 254 del 2020 per insufficiente individuazione dei vizi del licenziamento collettivo e per incertezza sul tipo di intervento richiesto). Con ordinanza n. 72 del 16 aprile 2023 (sulla quale si veda il commento di V. A. Poso, Il Jobs Act e i licenziamenti collettivi illegittimi per violazione dei criteri di scelta nuovamente all’attenzione della Consulta, in Labor, 28 maggio 2023, e gli ampi riferimenti di dottrina e giurisprudenza ivi indicati), infatti, la Corte partenopea aveva sollevato dubbi sulla conformità di esse agli artt. 3, 4, 10, 24, 35, 38, 41, 111, 76 e 117, primo comma, della Costituzione (questi ultimi due in relazione alla delega conferita al Governo, con Legge 10 dicembre 2014, n. 183, per il riordino, fra l’altro della disciplina dei rapporti di lavoro) e all’art. 24 della Carta Sociale Europea.

A fondamento della questione la Corte remittente aveva segnalato di aver dichiarato con sentenza parziale l’illegittimità, per violazione dei criteri di scelta, del licenziamento intimato a seguito della procedura avviata ai sensi della L 223/1991 ed impugnato in sede giudiziale, e di aver disposto la prosecuzione del giudizio ai soli fini dell’individuazione delle conseguenze sanzionatorie. In tale contesto, aveva evidenziato la circostanza secondo la quale ad un licenziamento collettivo illegittimo per violazione dei criteri di scelta, intimato nei confronti di un dipendente assunto dopo il 7 marzo 2015, trova applicazione il regime sanzionatorio previsto dall’art. 3, comma 1, del D. Lgs. n. 23 del 2015, richiamato dall’art. 10 del medesimo decreto, anziché la tutela approntata per la medesima fattispecie, a tutela dei lavoratori assunti fino al 7 marzo 2015, dall’art. 18, comma 4, L. 300/1970, richiamato dall’art. 5, comma 3, della L. 223/1991.

La Corte partenopea aveva quindi individuato tre diversi profili di (ritenuto) contrasto con le norme costituzionali: (i) violazione dei principi e dei criteri direttivi della delega di cui all’art. 1, comma 7, lettera c), della legge delega n. 183 del 2014, nella misura in cui essa, demandando al Governo il compito di adottare una disciplina normativa che attribuisse tutele crescenti con l’anzianità di servizio del lavoratore e che escludesse la possibilità della reintegrazione di esso “per i licenziamenti economici”, non avrebbe consentito al Governo di procedere anche alla rimodulazione della disciplina sanzionatoria del licenziamento collettivo, in quanto corpo normativo unitario e completo, autonomamente disciplinato; (ii) contrasto dell’art. 3, comma 1, del D. Lgs. n. 23 del 2015, in combinato disposto con l’art. 10 dello stesso decreto, con gli artt. 3, 4, 24, 35 e 111 Cost., nella parte in cui, in caso di violazione dei criteri di scelta nell’ambito della stessa procedura di licenziamento collettivo e per rapporti di lavoro omogenei, dispone (irragionevolmente, secondo la prospettazione del Giudice remittente), “una sanzione priva di efficacia deterrente e inidonea ad assicurare un ristoro personalizzato ed effettivo del danno per i soli lavoratori assunti a tempo indeterminato successivamente al 7 marzo 2015”, con ciò attribuendo ad essi, sulla base del mero dato temporale costituito dalla data di assunzione, un trattamento deteriore rispetto ai colleghi assunti fino al 7 marzo 2015; (iii)  contrasto delle norme censurate con le disposizioni di cui agli artt. 3, 4, 24, 35, 38, 41, 111 e 117 Cost. nella misura in cui, con disposizioni asseritamente irragionevoli, in presenza di una violazione dei criteri di scelta individuati dall’art. 5, comma 1, della L. 223/1991 “derogherebbero ad un sistema sanzionatorio efficace e adeguato determinando, con il sistema forfettizzato di danno, un affievolimento del ristoro del pregiudizio causato tanto da non garantire una sanzione efficace ed effettiva in caso di violazione dei criteri di scelta”.

Sulla base di tali argomentazioni la Corte d’Appello di Napoli ha prospettato ai Giudici della Consulta i possibili contenuti del provvedimento decisorio: una pronuncia di illegittimità costituzionale dell’intero art. 10 del D. Lgs. n. 23 del 2015 o, quantomeno, della locuzione “o dei criteri di scelta di cui all’articolo 5, comma 1, della L. n. 223 del 1991” (il che determinerebbe, nella prospettazione del Giudice remittente, l’applicazione, in caso di illegittimità del licenziamento per violazione dei criteri di scelta, del regime previgente approntato dall’art. 5, comma 3, della L. 223/1991 e dall’art. 118, comma 4, L. 300/11970 per tutti i lavoratori coinvolti, a prescindere dalla data di assunzione); oppure, in alternativa, una sentenza interpretativa di accoglimento di tipo caducatorio dell’art. 3, comma 1, del D. Lgs. n. 23 del 2015, riferita alla locuzione “e non superiore a ventiquattro” (poi elevata a trentasei per effetto del D.L. 12 luglio 2018, n. 87, convertito, con modificazioni, nella L. 9 agosto 2018, n. 9), limitatamente al caso di illegittimità del licenziamento collettivo per violazione dei criteri di scelta di cui all’art. 5, comma 3, della L. n. 223 del 1991, con ciò ottenendo l’effetto di eliminare il limite massimo dell’indennità forfettaria, che nella prospettazione della Corte partenopea rende la sanzione priva di efficacia deterrente.

Chiamata a pronunciarsi sulle questioni così prospettate, la Corte Costituzionale dichiara, preliminarmente, l’inammissibilità delle censure di illegittimità costituzionale sollevate in riferimento agli artt. 10, 24 e 111 Cost.; rileva infatti la sentenza in commento che, a tale proposito, la prospettazione della Corte remittente risulta priva di “specifica ed adeguata illustrazione dei motivi di censura in punto di non manifesta infondatezza” e che l’ordinanza di rimessione non fornisce elementi “che consentano di valutare il dedotto contrasto delle disposizioni censurate con tali parametri genericamente evocati”.

Non emergendo ulteriori profili di illegittimità con riferimento alle censure sollevate dall’ordinanza di rimessione, la Corte passa dunque all’esame del merito delle questioni sottoposte al suo vaglio.

Il nucleo centrale di esse, secondo quanto individuato dagli stessi giudici della legittimità costituzionale, è costituito dal regime sanzionatorio del licenziamento collettivo illegittimo per violazione dei criteri di scelta intimato a lavoratori assunti dopo la data di entrata in vigore del Jobs Act, che ha soppresso la reintegrazione come conseguenza dell’illegittimità di tale fattispecie di licenziamento; rilevano infatti che “L’eliminazione della tutela reintegratoria nel posto di lavoro – la quale, invece, permane ancora per i lavoratori assunti prima di tale data, ove destinatari dello stesso licenziamento collettivo illegittimo – e la limitazione delle conseguenze del recesso datoriale alla sola compensazione monetaria costituiscono il tratto comune delle censure mosse dalla Corte d’appello, dirette tutte a reintrodurre la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato anche nella fattispecie oggetto del giudizio principale”.

Ciò premesso, la decisione in commento ripercorre la storia delle modifiche che hanno condotto all’attuale quadro normativo in materia di conseguenze del licenziamento illegittimo, evidenziando come si sia passati “dal regime ampio ed uniforme della tutela reintegratoria, in vigore per molti anni (dal 1970 fino al 2012), ad uno differenziato secondo la “gravità”, in senso lato, della violazione che inficia la legittimità del licenziamento (intimato dopo il 18 luglio 2012) e, per i lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015, ulteriormente differenziato con un maggiore restringimento dell’area della tutela reale e ampliamento di quella indennitaria, quest’ultima poi rinforzata in termini quantitativi dal d.l. n. 87 del 2018, come convertito (e quindi a partire dal 12 agosto 2018)”. Un percorso articolato e complesso che, sottolineano i giudici, “segna la difficoltà di un processo riformatore in un ambito – quello dei licenziamenti individuali e collettivi – di elevato impatto sociale”.

Esaurita la ricostruzione del quadro normativo nel quale si inserisce la disciplina oggetto di censura da parte del giudice remittente, la sentenza passa ad affrontare i profili specifici di ritenuto contrasto con le norme della Costituzione.

Il primo profilo affrontato è quello del contrasto con l’art. 76 Cost. per ritenuta violazione della legge delega; ha ritenuto infatti la Corte partenopea che la delega espressa dal Parlamento con l’art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014, avesse previsto l’eliminazione della tutela reintegratoria esclusivamente con riferimento ai «licenziamenti economici», fra i quali (sempre secondo la prospettazione della Corte rimettente) rientrano quelli individuali dettati da motivi economici (e quindi quelli intimati per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della L.  604/1966) ma non anche i licenziamenti collettivi per riduzione di personale.

La questione così sollevata dall’ordinanza di rimessione è giudicata infondata dalla Consulta con una motivazione che prende le mosse dal tenore della legge delega, ove si conferisce al Governo la delega per l’emanazione di una normativa, applicabile a coloro che vengono assunti dopo l’entrata in vigore di essa, che escluda “per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento”.

Per affrontare il tema sollevato dall’ordinanza di rimessione la Corte prende le mosse dalla considerazione secondo la quale il sintagma “licenziamenti economici” non sia proprio del linguaggio giuridico in materia di risoluzione del rapporto di lavoro, che ruota invece tradizionalmente sulle distinzioni fra licenziamenti collettivi e licenziamenti individuali e, nell’ambito di questi ultimi, fra licenziamenti per ragioni soggettive (giusta causa e giustificato motivo soggettivo) e per ragioni oggettive (giustificato motivo oggettivo).

Ciò induce i giudici della legittimità costituzionale a ripercorrere i lavori parlamentari che hanno portato all’emanazione della legge delega (pur ricordando che l’utilizzabilità di essi come criteri ermeneutici non può giungere fino al punto di farli prevalere sul dato letterale e logico di essa, come già affermato da C. Cost. n. 223 del 2019, o di fornirne un’interpretazione autentica, come ricordato da C. Cost. n. 96 del 2020, C. Cost. n. 127 del 2017, C. Cost. n. 250 del 2016 e C. Cost. n. 47 del 2014), al fine di verificare come, e con quale intento e significato, l’espressione “licenziamenti economici” abbia fatto ingresso nel corpus della legge delega.

Il passaggio fondamentale a tal fine viene individuato nell’esame del testo in seconda lettura al Senato, nel corso del quale il relatore ha espresso l’indicazione secondo la quale la reintegrazione “dovrà ora essere esclusa per tutti i licenziamenti non sorretti da contestazione disciplinare (individuali per motivo economico-organizzativo o per scarso rendimento oggettivo, collettivi, temporaneamente inefficaci per mancato superamento del periodo di comporto di malattia) e per la generalità dei licenziamenti disciplinari. L’area in cui essa dovrà applicarsi è soltanto quella dei casi di nullità del licenziamento specificamente previsti dalla legge – matrimonio, maternità e discriminazione o rappresaglia – e in casi particolari di licenziamento disciplinare ingiustificato equiparabili per gravità al licenziamento discriminatorio, pur trattandosi ovviamente di una fattispecie diversa”. All’esito dell’iter parlamentare il testo della legge delega è stato promulgato sulla scorta (anche) di tale considerazione, e quindi considerando ricompresi nella nozione atecnica di “licenziamenti economici” sia quelli individuali per giustificato motivo oggettivo sia quelli collettivi ai sensi della L. 223/1991.

Pur essendo stati espressi (in particolare, da parte della Commissione Lavoro pubblico e privato XI della Camera) pareri contrari ad una formulazione della normativa delegata che prevedesse l’esclusione della tutela reintegratoria (anche) in caso di licenziamento collettivo illegittimo per violazione dei criteri di scelta, il decreto legislativo è stato emanato mantenendo l’art. 10 nella formulazione che prevede, in caso di violazione dei criteri di scelta nell’ambito della procedura di  licenziamento collettivo, la sola tutela indennitaria.

Alla luce del quadro come sopra delineato la Consulta ricorda preliminarmente (a tal fine richiamando i principi espressi dalle proprie decisioni n. 166 del 2023, n. 133 del 2021, n. 84 del 2017, n. 250 del 2016, n. 194 del 2015 e n. 153 del 2014), che l’interpretazione dei criteri forniti dalla legge delega deve essere compiuta tenendo conto in primo luogo del tenore letterale di essa, e poi della ratio legis che emerge dal contesto complessivo della legge di delega e dalle finalità che essa persegue.

Passando quindi all’esame del merito della questione sollevata dalla Corte partenopea, i giudici ritengono che, sebbene dal punto di vista strettamente giuslavoristico la disciplina dei licenziamenti collettivi sia storicamente diversa e distinta rispetto a quella dei licenziamenti individuali, nel linguaggio corrente l’espressione «licenziamenti economici» si presta ad una accezione più ampia, che la sentenza individua come “potenzialmente idonea ad essere adoperata in senso onnicomprensivo per includere, sia la categoria dei licenziamenti individuali «economici», perché per giustificato motivo oggettivo (id est, per ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al suo regolare funzionamento), sia i licenziamenti collettivi con riduzione di personale per “ragioni di impresa”, come tali anch’essi «economici»”; evidenziano altresì che la norma oggetto di censura risulta anche “conforme alla finalità della legge-delega di incentivare le nuove assunzioni e favorire il superamento del precariato sì da costituire un coerente sviluppo e completamento della disciplina, in simmetria, dei licenziamenti economici, sia individuali per giustificato motivo oggettivo, sia collettivi per riduzione di personale”, e che in tale ambito è comprensibile (e ragionevole) la scelta del Legislatore delegante di introdurre un regime omogeneo, quanto alle conseguenze, tanto in caso di illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo per carenza di esso, quanto in caso di illegittimità del licenziamento collettivo per violazione dei criteri di scelta. Giungono quindi alla conclusione che non sussiste il vizio di incostituzionalità denunciato dall’ordinanza di rimessione, evidenziando che l’eliminazione della tutela reintegratoria anche in caso di violazione dei criteri di scelta nell’ambito dei licenziamenti collettivi (anch’essi da considerarsi “economici” perché comunque riconducibili a “ragioni d’impresa”) può correttamente ritenersi ricompreso nel criterio dettato dalla legge di delega.

La Corte passa poi ad esaminare il secondo profilo di violazione della legge delega sollevato dall’ordinanza di rimessione, quello secondo il quale le disposizioni del decreto legislativo oggetto di censura avrebbero disatteso l’art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014 nella misura in cui risultano in contrasto l’art. 24 CSE (che prevede “il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione”), essendo invece imposta dalla legge delega la “coerenza con la regolazione dell’Unione europea e le convenzioni internazionali”.

La sentenza in rassegna rigetta anche tale prospettazione, sottolineando come la richiamata disposizione della CSE non imponga affatto ai legislatori nazionali l’adozione di una normativa interna che preveda necessariamente la reintegrazione in ogni caso di licenziamento illegittimo, potendo risultare conforme ai principi dettati dalla Carta Sociale anche la tutela indennitaria di natura compensativa, ove connotata da elementi sufficienti di  adeguatezza e dissuasività: elementi che la Consulta ritiene rinvenibili nell’attuale formulazione della disciplina sanzionatoria in caso di licenziamento illegittimo, in considerazione dei  più incisivi criteri di determinazione dell’indennizzo oggi in vigore alla luce delle sentenze C. Cost. n. 194 del 2018 e C. Cost. n. 150 del 2020.

È quindi prerogativa del legislatore nazionale individuare il sistema di contrasto dei licenziamenti illegittimi “nella gamma di quelli che, pur in misura diversa e con differente incisività, rispondono tutti, nel loro complesso, al canone costituzionale di adeguatezza e sufficiente dissuasività”.  In tale ottica, ritengono i Giudici della Consulta che il canone di adeguatezza e dissuasività possa essere garantito non solo dalla tutela reintegratoria, ma anche da una appropriata tutela indennitaria, idonea ad attribuire al lavoratore illegittimamente licenziato un adeguato ristoro del pregiudizio complessivamente subito e, al tempo stesso, a costituire un onere per il datore di lavoro tale da indurlo a non procedere con licenziamenti non supportati da idonea giustificazione; caratteristiche, quelle or ora ricordate, che la sentenza in commento ritiene sussistere nell’attuale formulazione dell’art. 3 del D. Lgs. 23/2015, all’esito dell’intervento della Corte stessa con la pronuncia n. 194 del 2018.

Esaurita la trattazione delle censure incentrate sulla dedotta violazione della legge delega, la Corte passa ad affrontare quelle che l’ordinanza di rimessione ha sollevato con riferimento agli artt. 3, 4 e 45 della Carta costituzionale, ed in primis quella che riguarda la disparità di trattamento che l’attuale quadro normativo dispone con riguardo ai lavoratori (illegittimamente) licenziati all’esito della medesima procedura di licenziamento collettivo, a seconda del mero dato temporale della data di instaurazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato. È il tema più delicato e finora meno espressamente affrontato che l’ordinanza di remissione pone, posto che interroga i giudici sulla conformità ai principi costituzionali di una disciplina che prevede conseguenze sanzionatorie diverse, in considerazione del solo elemento temporale costituito dalla data di assunzione, all’esito di un’unica procedura ai sensi della L. 223/1991.

In relazione ad esso la Consulta mostra di condividere il punto di partenza dal quale prende le mosse il ragionamento della Corte d’appello di Napoli: è infatti vero che la tutela applicabile in caso di licenziamenti collettivi illegittimi per violazione dei criteri di scelta è diversa a seconda della data di costituzione del rapporto di lavoro, e quindi sulla base di un elemento esclusivamente temporale: per coloro che sono stati assunti prima del 7 marzo 2015 risulta applicabile la tutela reintegratoria (ancorché nella forma “attenuata”, all’esito delle modifiche apportate all’art. 18 L. 300/1970 della L. 92/2012), mentre per coloro che sono stati assunti a decorrere da tale data il D. Lgs. 23/2015 appronta la tutela indennitaria.

Pur condividendo tale dato di fatto, però, i giudici della legittimità costituzionale affermano che esso non consente di ritenere le censurate disposizioni del D. Lgs. 23/2015 in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, posto che nell’attribuire un diverso trattamento sanzionatorio per i casi di illegittimità del licenziamento a seconda della data di instaurazione del rapporto di lavoro “non è ravvisabile alcun profilo di manifesta irragionevolezza”. Ricorda, a tal fine, la decisione in commento che sulla ragionevolezza della diversa disciplina normativa sulla base del (solo) criterio temporale della data di assunzione la Consulta si è già pronunciata con la sentenza n. 194/2018, rigettando l’analoga questione di costituzionalità sollevata con riferimento ai licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo.

In tale occasione la Corte aveva affermato che “non contrasta, di per sé, con il principio di eguaglianza un trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti diversi nel tempo, poiché il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche” e che rientra nelle prerogative del Legislatore, nel rispetto del canone di ragionevolezza, il compito di delimitare la sfera temporale di applicazione delle norme. In tale contesto la Consulta era giunta alla conclusione secondo la quale “Il diverso trattamento sanzionatorio modulato dal d.lgs. n. 23 del 2015 per i licenziamenti individuali non viola il principio di uguaglianza, trovando il regime temporale un motivo non irragionevole nella finalità perseguita dal legislatore, «di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione» (art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014)”.

Orbene, la decisione in rassegna ritiene che le considerazioni espresse da C. Cost. 194/2018 con riferimento alle diverse conseguenze sanzionatorie per i licenziamenti individuali in considerazione della data di instaurazione del rapporto di lavoro impongano di giungere alla medesima conclusione anche con riferimento ai licenziamenti collettivi illegittimi per violazione dei criteri di scelta.

Osserva, infatti, che nel prevedere a beneficio dei “nuovi assunti” la tutela indennitaria anziché quella reintegratoria applicabile ai “vecchi assunti” il Legislatore abbia fatto corretto esercizio della propria discrezionalità, in coerenza con la finalità indicata dalla legge delega di incentivare l’occupazione, soprattutto giovanile, o la fuoriuscita dal precariato. E’, quello dello scopo dichiarato dal Legislatore “di favorire l’ingresso nel mondo del lavoro di “nuovi” assunti, accentuandone la flessibilità in uscita con il riconoscimento di una tutela indennitaria predeterminata, risultando indifferente rispetto a tale fine che il recesso sia individuale o collettivo”, un tema sul quale la motivazione della sentenza torna a più riprese, quasi a costituire il filo conduttore della valutazione di ragionevolezza o meno della soluzione normativa adottata e, quindi, della conformità di essa ai canoni di legittimità costituzionale.

Ancora, i giudici costituzionali affrontano il tema (pure sollevato dall’ordinanza di rimessione) che si pone nel caso in cui, all’esito della medesima procedura di licenziamento collettivo, vengano intimati più licenziamenti illegittimi per violazione dei criteri di scelta, alcuni dei quali a lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, altri a lavoratori assunti a decorrere da tale data; in tal caso, pur a fronte dello stesso vizio riferito alla stessa procedura, le conseguenze del licenziamento sono differenziate: tutela reintegratoria per i “vecchi assunti”, tutela indennitaria per i “nuovi assunti”. Ritiene però la Consulta che, sebbene la procedura di licenziamento collettivo costituisca “una fattispecie autonoma e unitaria ad effetti plurisoggettivi che richiede una regolamentazione necessariamente uniforme”, lo stesso non debba necessariamente verificarsi per ciò che riguarda le conseguenze sanzionatorie.

A tal fine, infatti, ciascun licenziamento assume rilievo autonomo in riferimento al singolo lavoratore, con la conseguenza che risulta non irragionevole (e quindi costituzionalmente corretto) applicare a ciascun lavoratore licenziato un regime sanzionatorio diverso; conclusione, questa, avallata dall’orientamento giurisprudenziale secondo il quale l’illegittimità per violazione dei criteri di scelta ai sensi dell’art. 5 della legge n. 223 del 1991 non può essere fatta valere indistintamente da ciascuno dei lavoratori licenziati, ma soltanto da coloro che, tra essi, abbiano in concreto subito un pregiudizio per effetto della violazione (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanza 22 maggio 2019, n. 13871; sentenza 1° dicembre 2016, n. 24558).

La questione, come si diceva, è delicata, e la valutazione della Consulta secondo la quale è conforme al dettato costituzionale apprestare tutele diverse a fronte di una fattispecie di risoluzione del rapporto omogenea in considerazione del mero elemento temporale costituito dalla data di assunzione lascia senza dubbio spazio anche a considerazioni di senso opposto.

Forse avrebbe potuto, la sentenza in commento, valorizzare maggiormente il fatto che, pur essendo sostanzialmente e formalmente unitaria la procedura di licenziamento collettivo disciplinata dalla L. 223/1991, all’esito di essa il datore di lavoro intima dei licenziamenti che sono comunque “individuali”, nel senso che a ciascun lavoratore licenziato viene inviata una separata e “personale” comunicazione di licenziamento, che ben può essere connotata da specifici profili di illegittimità e, comunque, è riferita ad una particolare persona fisica destinataria del provvedimento espulsivo; una considerazione, quest’ultima, che ove condivisa rafforzerebbe la conclusione della Consulta secondo la quale non necessariamente tutti i licenziamenti intimati a conclusione della procedura di licenziamento collettivo devono condurre alla stessa disciplina sanzionatoria.

La censura risulta infondata, agli occhi della Corte, anche sotto il profilo della dedotta violazione degli artt. 4 e 35 Cost., in considerazione del fatto che la tutela indennitaria apprestata ai “nuovi assunti” dal D. Lgs. 23/2015 risulterebbe inadeguata e priva dei necessari requisiti di deterrenza. In proposito è agevole per i giudici ricordare i principi espressi con le sentenze n. 183 del 2022, n. 150 del 2020, n. 194 del 2018 e n. 46 del 2000, dalle quali emergono con chiarezza da un lato la considerazione secondo la quale la reintegrazione non è l’unico rimedio sanzionatorio che integra i requisiti di adeguatezza e dissuasività, dall’altro il fatto che la tutela indennitaria apprestata dal D. Lgs. 23/2015 risulta, all’esito degli interventi apportatevi dalla Consulta, integrare tali requisiti.

La Corte giunge così all’esame della terza questione di legittimità, sollevata dall’ordinanza di rimessione con riferimento agli artt. 3, 4, 35, 38, 41 e 117 Cost. dubitando del fatto che una tutela meramente indennitaria, e per di più con la previsione di un limite massimo di indennizzo, possa risultare dissuasiva.

Anch’essa risulta, secondo i giudici della Consulta, infondata, per ragioni in parte sovrapponibili a quelle già affrontate con riferimento alla censura precedente. Anche con riferimento a questo ulteriore profilo, infatti, è agevole per essi richiamare l’articolato percorso della giurisprudenza costituzionale secondo il quale la tutela reintegratoria non è l’unica che integra i requisiti costituzionali di adeguatezza e dissuasività, essendo essi ravvisabili anche in caso di tutela meramente indennitaria, ove quest’ultima risulti sufficientemente incisiva; ed in proposito il richiamo all’ormai più volte citata pronuncia n. 194 del 2018, con la quale la Consulta si è pronunciata proprio sui criteri indennitari approntati dall’art. 3 del D. Lgs. 23/2015, è esaustivo per condurre alla declaratoria di infondatezza della questione.

Il tema ha formato oggetto di attenzione da parte della Consulta anche con la successiva sentenza n. 150 del 2020, ove si è ribadito che i canoni di adeguatezza e dissuasività devono comunque essere valutati “nel contesto di un equilibrato componimento dei diversi interessi in gioco e della specialità dell’apparato di tutele previsto dal diritto del lavoro”. In tale ambito, il limite massimo di ventiquattro mensilità previsto dall’art. 3 del D. Lgs. 23/2015, aumentato a trentasei dal d.l. n. 87 del 2018, non si pone in contrasto con il canone di necessaria adeguatezza del risarcimento, risultando invece idoneo a realizzare un adeguato contemperamento degli interessi in conflitto.

Aggiunge, in proposito, la sentenza in esame, che l’adeguatezza di tale rimedio indennitario emerge anche dalla comparazione con l’indennità sostitutiva della reintegrazione prevista dall’art. 18, comma 3, della legge n. 300 del 1970 e dall’art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 23 del 2015, quantificata in quindici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Consapevoli, evidentemente, del fatto che tale argomentazione sembra non tener conto del fatto che tali norme prevedono a beneficio del lavoratore illegittimamente licenziato, oltre all’indennità sostitutiva del diritto alla reintegrazione, anche una forma di risarcimento del danno conseguente all’estromissione dal posto di lavoro, i giudici aggiungono una chiosa che, come spesso accade con gli obiter dicta, rischia di essere foriera di non pochi interrogativi; affermano infatti, richiamando in tal senso Cass. 1507/2021 (che però sembra esprimere un principio opposto, argomentando che l’indennità risarcitoria di cui ai commi 5 e 7 dell’art. 18 S.L. “è, in relazione alla sua funzione di riparazione per equivalente, onnicomprensiva, nel senso che assorbe qualunque voce di danno, patrimoniale e non patrimoniale, nonché quello previdenziale, salvo quello derivante dal licenziamento ingiurioso o dal fatto costituente reato”), che “comunque l’indennità, pur assorbendo tendenzialmente qualunque voce di danno, patrimoniale e non patrimoniale, non preclude alla giurisprudenza di identificare ipotesi di danno ulteriore risarcibile, come nel caso di danni derivanti dal licenziamento ingiurioso”: quel “tendenzialmente” sembra lasciare aperta la porta per consentire ai giudici di merito di determinare l’indennità risarcitoria anche in misura difforme (e superiore) rispetto ai limiti dettati dalle norme applicabili alla fattispecie concreta.

Da ultimo, la Consulta affronta la censura improntata sulla violazione dell’art. 24 CSE, sotto questo profilo invocata non come parametro di conformità alla legge delega ai sensi dell’art. 76 Cost. ma quale parametro di ragionevolezza a sé stante. In proposito la decisione si limita a richiamare le argomentazioni già espresse con riferimento alla censura riferita all’eccesso di delega, ribandendo che la ragionevolezza e la conformità della norma ai parametri costituzionali devono essere valutate avendo riguardo alla complessiva disciplina che regola le conseguenze del licenziamento illegittimo, che ben può essere improntata a criteri di proporzionalità prevedendo in talune circostanze il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, in altre una tutale meramente indennitaria, purché anch’essa declinata in misura tale da garantire un adeguato livello di soddisfazione a beneficio del lavoratore e di deterrenza a carico del datore di lavoro.

Luigi Andrea Cosattini, avvocato in Bologna

Visualizza il documento: C. cost., 22 gennaio 2024, n. 7

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