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Il complesso atteggiarsi della recidiva nelle ipotesi di licenziamento disciplinare

9 Giugno 2024|

Premessa

La sentenza della Corte di Cassazione qui annotata (28 febbraio 2024, n. 5304) si inserisce in un contesto di dibattito giuridico relativo alla corretta interpretazione delle clausole contrattuali nei CCNL, in particolare riguardo alle condizioni che regolano la possibilità di procedere con un licenziamento per ragioni soggettive (disciplinari). La questione centrale esaminata dalla Cassazione prende spunto dal giudizio della Corte d’Appello, che aveva precedentemente interpretato la clausola contrattuale riguardante la necessità di due precedenti sanzioni disciplinari prima di procedere al licenziamento.

La Corte d’Appello aveva sostenuto che, per essere conforme ai principi di proporzionalità e correttezza, il licenziamento per giusta causa richiedeva la verifica di un comportamento reiterato e contrattualmente rilevante del lavoratore. Tale interpretazione mirava a proteggere il lavoratore da decisioni eccessivamente punitive non supportate da un adeguato processo disciplinare.

La Cassazione ribadisce l’importanza di seguire scrupolosamente le procedure disciplinari stabilite nei contratti, sottolineando che ogni sanzione deve essere giustificata e proporzionale alla violazione.

La Cassazione esamina in modo critico l’interpretazione data dalla Corte d’Appello alle clausole contrattuali, insistendo sul fatto che tali clausole devono essere interpretate in maniera chiara e univoca per garantire certezza del diritto.

Il punto nodale riguarda l’interpretazione del requisito di recidività nel comportamento sanzionatorio. La Cassazione dettaglia come il concetto di recidività debba essere inteso in senso stretto, cioè che le violazioni che giustificano le sanzioni devono essere dello stesso tipo e gravità, per non cadere in una interpretazione eccessivamente elastica e potenzialmente ingiusta.

La sentenza approfondisce le implicazioni pratiche della decisione per i datori di lavoro, indicando la necessità di documentare accuratamente e sistematicamente tutte le fasi del processo disciplinare.

Nelle conclusioni, la Cassazione delinea le ramificazioni della sua sentenza per la prassi giuridica e gestionale, evidenziando come la decisione influenzi l’equilibrio tra la necessità di disciplina nel posto di lavoro e la protezione dei diritti dei lavoratori. Sottolinea l’importanza di una gestione umana delle risorse umane che consideri il contesto complessivo del rapporto di lavoro, piuttosto che focalizzarsi su singoli episodi.

Infine, il commento può esaminare come questa sentenza possa influenzare le future decisioni relative alle dispute lavorative, particolarmente in termini di applicazione e interpretazione delle norme contrattuali nei CCNL, offrendo un precedente importante per casi simili.

I fatti di causa

La lavoratrice aveva lavorato alle dipendenze della società convenuta in forza di un contratto di lavoro a tempo indeterminato con mansioni di addetta alle pulizie, fino al 18/05/2018, quando era stata licenziata (con preavviso) per ragioni disciplinari.

Il Tribunale di Napoli, all’esito della fase c.d. sommaria (rito Fornero) accoglieva la domanda principale della lavoratrice, ovvero la reintegrazione nel posto di lavoro per l’insussistenza del fatto addebitato ovvero per la sanzionabilità del fatto in via conservativa.

Escusso un testimone, il Tribunale, in parziale accoglimento dell’opposizione proposta dalla società, dichiarava illegittimo il licenziamento per violazione del procedimento disciplinare di cui all’art. 7 statuto lavoratori, quindi dichiarava risolto il rapporto e condannava la società al pagamento dell’indennità risarcitoria omnicomprensiva in misura pari a 10 mensilità dell’ultima retribuzione e, infine, dichiarava la lavoratrice non tenuta a restituire quanto percepito in esecuzione dell’ordinanza della fase sommaria.

La Corte motivava la propria decisione su svariati punti:

1. Non può dubitarsi della sussistenza del fatto storico, consistente nell’essersi allontanata – la lavoratrice – dal posto di lavoro per tutto il mese di aprile 2018 prima della fine del turno lavorativo.

2. La società ha altresì contestato la recidiva correttamente, riportando i precedenti.

3. Non vi è alcuna prassi aziendale secondo cui i lavoratori possano decidere liberamente di uscire prima della fine del turno.

4. La lavoratrice è uscita dal lavoro in anticipo reiteratamente e continuativamente.

5. Quindi vi è stato inadempimento contrattuale, e non era il primo.

6. Il CCNL prevede il licenziamento, ma solo se la recidiva riguardi le precedenti ipotesi e solo quando siano stati comminati due provvedimenti di sospensione, il che nella specie non era avvenuto.

7. In ogni caso, invero, il fatto addebitato è punito con sanzione conservativa e non è sussumibile tra le condotte indicate nel CCNL, né sussiste la recidiva.

Il giudizio di legittimità

La società ha proposto ricorso per cassazione, affidandolo a due motivi.

Con il primo motivo (art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.), la società ricorrente lamenta l’omesso esame di due fatti decisivi per il giudizio e oggetto di discussione fra le parti, ossia la non corrispondenza del fatto contestato in via disciplinare alla previsione del CCNL e la mancata applicazione dell’art. 2119 c.c.

Il motivo è stato dichiarato inammissibile in relazione alla mancata applicazione della norma codicistica, che semmai integra la violazione di una norma di diritto e non l’omesso esame di un fatto storico.

Con il secondo motivo (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.), la società ricorrente lamenta la violazione degli artt. 2119 e 1362 c.c., 45, 47 e 48 CCNL di categoria, per avere la Corte territoriale ritenuto il fatto disciplinarmente contestato riconducibile a quanto previsto dagli artt. 47 e 48 CCNL.

In particolare, la ricorrente si duole dell’omesso rilievo del fatto che la disciplina collettiva si riferisce ad una sola inadempienza e all’eventuale recidiva e quindi non regola il caso – come invece quello per cui è causa – in cui la dipendente, già sanzionata più volte con provvedimenti conservativi, continui a rendersi inadempiente, anticipando l’uscita dal servizio senza autorizzazione o successiva giustificazione per molti giorni in un mese, nella specie dal 3 al 23 aprile 2018.

Il motivo è stato dichiarato in parte inammissibile e in parte infondato.

L’inammissibilità deriva dalla circostanza che, nel caso concreto, il licenziamento è stato intimato ai sensi dell’art. 48, lett. A) CCNL, che prevede fattispecie punite con licenziamento con preavviso. Dunque, è la stessa società ad aver ritenuto insussistente la giusta causa, che avrebbe esonerato dal preavviso.

Le previsioni contrattual-collettive sulle fattispecie punibili con il licenziamento disciplinare non sono tassative, ma solo esemplificative e quindi non vincolanti per il giudice, poiché la giusta causa è una nozione legale (art. 2119 c.c.).

Viceversa, ai sensi dell’art. 12 legge n. 604/1966 sono tassative e vincolanti per il giudice le previsioni contrattual-collettive sulle fattispecie punibili con sanzioni conservative (Cass., 10 luglio 2020, n.  14811; Cass., 7 maggio 2020, n. 8621).

Per tali ragioni la Suprema Corte ha affermato che “La giusta causa di licenziamento è nozione legale rispetto alla quale non sono vincolanti – al contrario che per le sanzioni disciplinari con effetto conservativo – le previsioni dei contratti collettivi, che hanno valenza esemplificativa e non precludono l’autonoma valutazione del giudice di merito in ordine alla idoneità delle specifiche condotte a compromettere il vincolo fiduciario tra datore e lavoratore, con il solo limite che non può essere irrogato un licenziamento per giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione” (Cass., 16 luglio 2019, n.  19023; Cass., 24 ottobre 2018, n. 27004).

Nel caso di specie si rivela corretta la sussunzione – operata dalla Corte territoriale – della fattispecie concreta nell’art. 47 CCNL, poiché tale clausola si riferisce a varie tipologie di infrazioni identificate mediante specifica descrizione delle condotte, fra le quali vi è l’anticipata cessazione del servizio.

Non è condivisibile la tesi della società ricorrente, secondo cui quella clausola si riferirebbe ad un’unica infrazione e quindi non contemplerebbe il caso di ripetute infrazioni, come quello in esame, in cui le anticipazioni dell’uscita dal lavoro hanno riguardato sostanzialmente tutti i giorni lavorativi di un mese (aprile 2018).

Va infatti ritenuto che, come sostiene la lavoratrice, la pluralità dei giorni in cui è stata ripetuta l’infrazione rileva solo ai fini della gravità ma pur sempre nei limiti delle sanzioni conservative previste dall’art. 47 CCNL, che proprio per questo prevede una graduazione via via crescente della sanzione (l’ammonizione scritta, la multa o la sospensione), tanto è vero che fa espresso riferimento alle “mancanze di minor rilievo” e a “quelle di maggior rilievo”.

Ragioni di carattere letterale e logico inducono quindi a ritenere che oggetto delle sanzioni conservative previste dall’art. 47 CCNL non sia necessariamente una sola condotta.

Basti considerare che sono ivi previste, alla lett. A), la mancata presentazione al lavoro senza giustificato motivo e la mancata giustificazione dell’assenza entro il giorno successivo, condotte che ontologicamente si esauriscono uno actu, ossia non hanno una durata oraria graduabile e variabile.

Quindi la loro maggiore o minore gravità non può che manifestarsi ed essere apprezzata, appunto, in termini di numero di giorni in cui tali infrazioni sono commesse e ripetute.

Ed allora, per ragioni di omogeneità sanzionatoria, in relazione all’anticipata cessazione del servizio senza giustificato motivo (infrazione contestata alla dipendente ed accertata nel giudizio di merito), la graduazione della gravità va apprezzata sia in termini di durata del singolo episodio, sia in termini di numero di episodi, fermo restando che la massima sanzione irrogabile – per un’insindacabile scelta dell’autonomia collettiva – è la sospensione, ossia pur sempre una sanzione conservativa.

Infine, sul piano dell’elemento soggettivo la Corte ha accertato che non era necessaria l’autorizzazione scritta e quindi ha implicitamente ritenuto che il comportamento di fatto tenuto dalla società – che per vari giorni nulla aveva dichiarato alla lavoratrice che anticipava l’uscita – avesse ingenerato un affidamento nella stessa, così dovendo intendersi ridotto il suo grado di colpa.

In via eccezionale l’art. 48, lett. A, punto G) prevede anche per tale condotta la sanzione espulsiva ma solo in caso di recidiva e a condizione che quest’ultima sia integrata da infrazioni per le quali siano stati comminati due provvedimenti di sospensione.

Nel caso concreto tale condizione – secondo l’accertamento in fatto compiuto dalla Corte territoriale e non censurato dalla ricorrente – non si è verificata.

Pasquale Dui, avvocato in Milano

Visualizza il documento: Cass., 28 febbraio 2024, n. 5304

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