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Discrezionalità della P.A. nella scelta tra la prosecuzione del procedimento disciplinare in pendenza del processo penale per i medesimi fatti e la sospensione del procedimento disciplinare

28 Aprile 2024|

Rapporti tra procedimento penale e procedimento disciplinare

L’art.55-ter del d.lgs. n. 165/2001, introdotto dalla c.d. riforma Brunetta (d.lgs. n. 150 del 2009), disciplina il rapporto tra procedimento disciplinare e procedimento penale: il procedimento disciplinare che abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti in relazione ai quali procede l’autorità giudiziaria è di regola proseguito e concluso, anche in pendenza del procedimento penale: si è così rovesciato l’assetto risalente al d.P.R. n.3 del 1957, in cui la pendenza del procedimento penale comportava la sospensione dell’azione disciplinare fino all’esito della decisione giudiziale sul reato: tale effetto sospensivo era ancorato al rinvio a giudizio del dipendente; nel regime contrattuale iniziale del pubblico impiego privatizzato l’effetto sospensivo scattava addirittura ben prima del rinvio a giudizio.

La regola generale dell’autonomia del processo penale e del procedimento disciplinare costituisce, in forza dell’art. 55, comma 1, del medesimo d.lgs. n. 165, norma imperativa ai sensi e per gli effetti degli artt.1339 e 1419 c.c., sicché, peraltro, non è derogabile ad opera della contrattazione collettiva (Cass., n. 6 del 2020).

La sospensione del procedimento disciplinare, debitamente motivata, è ammessa per le infrazioni per le quali è applicabile una sanzione superiore alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per un periodo fino a dieci giorni e questo fino al termine del procedimento penale qualora l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari(UPD) abbia a trattare casi di particolare complessità o non disponga all’esito dell’istruttoria di elementi sufficienti a motivare l’irrogazione della sanzione, salva sempre la possibilità di adottare la sospensione o altri strumenti cautelari nei confronti del dipendente.

Se il procedimento disciplinare, non sospeso, si conclude con l’irrogazione di una sanzione e, successivamente, il procedimento penale viene definito con una sentenza irrevocabile di assoluzione che riconosce che il fatto addebitato al dipendente non sussiste o non costituisce illecito penale o che il dipendente medesimo non lo ha commesso, l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari, ad istanza di parte da proporsi entro il termine di decadenza di sei mesi(e dunque perentorio) dall’irrevocabilità della pronuncia penale, riapre il procedimento disciplinare per modificarne o confermarne l’atto conclusivo in relazione all’esito del giudizio penale: il lavoratore deve, pertanto, farsi parte diligente per verificare il passaggio in giudicato della sentenza.

Se il procedimento disciplinare si conclude con l’archiviazione ed il processo penale con una sentenza irrevocabile di condanna, l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari riapre il procedimento disciplinare per adeguare le determinazioni conclusive all’esito del giudizio penale. Il procedimento disciplinare è riaperto, altresì, se dalla sentenza irrevocabile di condanna risulta che il fatto addebitabile al dipendente in sede disciplinare comporta la sanzione del licenziamento, mentre ne è stata applicata una diversa.

Dalla conoscenza piena del testo integrale della sentenza penale decorrono i termini per l’attivazione o riattivazione del procedimento disciplinare dopo la sentenza ex art. 55-ter, comma 4, d.lgs. n. 165 del 2001: irrilevante è, dunque, la conoscenza da parte del difensore, occorrendo conoscenza certa da parte della P.A., o una conoscenza anche da altra fonte, ma dell’intera sentenza.

Il procedimento disciplinare è ripreso o riaperto, mediante rinnovo della contestazione dell’addebito, entro sessanta giorni dalla comunicazione della sentenza, da parte della cancelleria del giudice, all’amministrazione di appartenenza del dipendente, avvero dal ricevimento dell’istanza di riapertura.

La vicenda giudiziaria

Un dipendente comunale venne licenziato, all’esito di un procedimento disciplinare che era stato precedentemente sospeso in pendenza di un processo penale per il reato di abuso d’ufficio, commesso nell’esercizio delle funzioni di giudice onorario del Tribunale, e che era stato riavviato dopo che la condanna del lavoratore, confermata in appello, era divenuta irrevocabile.

Contro il licenziamento il ricorrente si rivolse al Tribunale, in funzione di giudice del lavoro, il quale però, nell’instaurato contradditorio con il datore di lavoro, respinse la domanda.

Il lavoratore impugnò, quindi, la sentenza di primo grado, davanti alla Corte d’Appello, la quale rigettò l’appello e confermò la decisione del Tribunale.

Contro la sentenza della Corte territoriale il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, sostenendo, tra l’altro:

  • che non ci fossero i presupposti per la sospensione del procedimento disciplinare in attesa dell’esito del processo penale;
  • che per la decorrenza del termine per il riavvio, dopo la definizione del processo penale, del procedimento disciplinare, sarebbe rilevante e sufficiente qualsiasi conoscenza della sentenza penale da parte della pubblica amministrazione, a prescindere dalla comunicazione della cancelleria del giudice che ha pronunciato quella sentenza;
  • che nella rinnovazione della contestazione dopo la definizione del processo penale e nell’atto di irrogazione della sanzione erano state indicate norme disciplinari ulteriori e diverse rispetto a quelle menzionate nell’incolpazione originaria;
  • che dell’ufficio per i procedimenti disciplinari che gli aveva inflitto la sanzione espulsiva faceva parte un dirigente del Comune con cui aveva grave inimicizia;
  • che la Corte territoriale, ai fini del giudizio sulla sussistenza della giusta causa di licenziamento, aveva tenuto conto di condotte estranee alla prestazione lavorativa;
  • che la Corte d’Appello non aveva effettuato la valutazione autonoma dei fatti al fine di verificarne l’idoneità a giustificare la sanzione espulsiva, al di là della loro rilevanza penale;
  • che la Corte territoriale non aveva effettuato la necessaria verifica della proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto alla gravità dell’illecito contestato.

La sentenza della Sezione Lavoro della Cassazione n. 7267 del 19 marzo 2024

Con la sentenza che qui si segnala, la Sezione Lavoro della Cassazione ha rigettato il ricorso del dipendente comunale.

La Cassazione ha affermato, con la pronuncia in questione, che l’art. 55-ter, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001 conferisce alla pubblica amministrazione un’ampia facoltà discrezionale nella scelta tra la prosecuzione del procedimento disciplinare in pendenza del processo penale per i medesimi fatti (così facendo valere il principio della tendenziale autonomia tra i due procedimenti) e la sospensione del procedimento disciplinare. La sospensione può essere disposta sia nell’interesse della pubblica amministrazione a recepire tutte le prove che saranno raccolte e formate nel processo penale, sia nell’interesse del lavoratore di poter beneficiare dell’eventuale assoluzione in sede penale e delle evidenze a discarico emesse in quel processo.

Per quanto riguarda il termine entro cui il procedimento disciplinare deve essere riavviato, dopo la definizione del processo penale,  la Cassazione, nella pronuncia de qua, condivide la decisione della Corte territoriale,  laddove ha ritenuto che è necessario ancorare il dies a quo per la decorrenza del termine ad un evento certo, quale la  comunicazione della sentenza da parte della cancelleria del giudice: per i giudici di legittimità, la tesi secondo cui il dies a quo dovrebbe in ogni caso essere individuato nella scadenza del termine assegnato alla cancelleria del giudice penale per comunicare la sentenza alla pubblica amministrazione, oltre ad essere smentita dal tenore letterale dell’art. 55-ter, comma 4, d.lgs. n. 165 del 2001(che fa chiaramente riferimento alla comunicazione della sentenza e non al termine per la sua comunicazione), è anche irrazionale , perché pretende di far decorrere un termine perentorio fissato per un adempimento della pubblica amministrazione datrice di lavoro dalla scadenza di un termine fissato ad altra e diversa amministrazione.

Gli Ermellini,  osservano anche, con la sentenza qui in esame, con riferimento alla nuova contestazione dopo la definizione del processo penale, che la Corte d’Appello aveva applicato il consolidato principio secondo cui la contestazione disciplinare deve contenere le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, la condotta addebitata, con la precisazione che l’accertamento relativo al requisito della specificità, riservato al giudice di merito, va condotto considerando che in sede disciplinare la contestazione non obbedisce ai rigidi canoni che presiedono alla formulazione dell’accusa nel processo penale né si ispira ad uno schema precostituito, ma si modella in relazione ai principi di correttezza che informano il rapporto esistente fra le parti , sicché ciò che rileva è l’idoneità dell’atto a soddisfare l’interesse dell’incolpato  ad esercitare pienamente il diritto di difesa(Cass. 23771/2018; che cita, a sua volta, Cass. nn. 6099/2017; 4622/2017;3737/2017; 619/2017; 6898/2016; 10662/2014; 27842/2009): il giudice d’appello, evidenzia il Collegio, aveva osservato che il fatto addebitato era rimasto immutato e saldamente ancorato alla descrizione desunta dall’imputazione penale e che il ricorrente si era compiutamente difeso nel corso del procedimento disciplinare, senza lamentare la mancanza di specificità dell’incolpazione e dimostrando di averne ben compreso il contenuto.

I giudici della Corte Suprema, inoltre, precisano nella sentenza de qua, con riferimento al motivo di ricorso con il quale il lavoratore si duole del fatto che dell’ufficio per i procedimenti disciplinari che gli aveva inflitto la sanzione espulsiva faceva parte un dirigente comunale con cui egli aveva grave inimicizia, che l’art.51 c.p.c. non è applicabile al procedimento disciplinare, il quale è regolato dalle disposizioni imperative dell’art.55-bis del d.lgs. n. 165 del 2001, in forza delle quali il principio di terzietà postula solo la distinzione, sul piano organizzativo , fra l’ufficio per i procedimenti disciplinari e la struttura nella quale opera il dipendente incolpato e non va confuso con la imparzialità dell’organo giudicante , che solo un soggetto terzo rispetto al lavoratore ed alla amministrazione potrebbe assicurare. Il giudizio disciplinare, infatti, sebbene connotato da plurime garanzie poste a difesa del dipendente, è comunque condotto dal datore di lavoro, ossia da una delle parti del rapporto che, in quanto tale, non può certo essere imparziale, nel senso di essere assolutamente estraneo alle due tesi che si pongono (Cass. n. 1753/2017; conformi, ex multis, Cass. nn. 29461/2023; 20721/2019).

Il ricorrente, è il caso di precisarlo, nella veste di giudice onorario, aveva commesso il reato di abuso d’ufficio, poiché, invece, di astenersi in un processo di opposizione all’esecuzione promosso dal Comune (presso il quale prestava servizio) e con un procedimento disciplinare in corso per violazione del segreto d’ufficio, abusò di tale occasione, per chiedere informazioni e svolgere indagini, del tutto avulse rispetto al processo assegnatogli, sulla regolarità dell’incarico conferito dal Comune al suo difensore e sulla congruità delle spese legali affrontate dall’ente pubblico.

La Corte d’Appello, facendo un’autonoma valutazione della vicenda penale ai fini disciplinari, era giunta alla conclusione che le condotte accertate erano in grado di ledere in modo irreversibile l’elemento fiduciario al rapporto di lavoro, perché si trattava di fatti commessi in violazione del dovere di fedeltà ex art. 2105 c.c. e riconducibili alla nozione di giusta causa ex art. 2119 c.c.; secondo il Collegio, la decisione della Corte d’Appello, laddove ha considerato legittima la risoluzione del rapporto di lavoro, motivata dal Comune con l’irreversibile lesione del rapporto fiduciario con il dipendente, che, mosso da sentimenti di rancore, non aveva esitato a strumentalizzare, addirittura, la funzione giurisdizionale, volgendola in danno dell’immagine e della reputazione del suo datore di lavoro.

Gli Ermellini ritengono, infine, con riferimento al motivo di ricorso con cui il lavoratore evidenzia che  il giudice di secondo grado non avrebbe effettuato la doverosa valutazione autonoma dei fatti al fine di verificarne l’idoneità a giustificare la sanzione espulsiva, al di là della loro rilevanza penale, che il giudice d’appello ha effettivamente svolto una autonoma valutazione dei fatti ai fini della verifica della legittimità e proporzionalità della sanzione espulsiva adottata dal Comune: la gravità dei fatti aveva fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore, da non consentire la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto.

Dionisio Serra, cultore di diritto del lavoro nell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”

Visualizza il documento: Cass., 19 marzo 2024, n. 7267

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