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Corte Costituzionale n. 44/2024: continua l’esegesi del Decreto Legislativo n. 23/2015

20 Giugno 2024|

Poche settimane dopo essersi pronunciata sulla legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, e 10 del D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23 con la sentenza n. 7 del 22 gennaio 2024 (in Labor, 11 aprile 2024, con osservazioni del sottoscritto, La Consulta: è costituzionalmente legittima la normativa del Jobs Act in materia di licenziamenti collettivi) e, su ordinanza di remissione della Corte di Cassazione (in Labor, 18 maggio 2023, con nota di V. A. Poso, La Corte di Cassazione si rivolge alla Consulta per sapere se è costituzionalmente legittimo l’art. 2, comma 1, d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23), sulla legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, del medesimo provvedimento normativo con la sentenza n. 22 del 22 febbraio 2024 (che si può leggere sempre in Labor, 31 marzo 2024, con nota di C. Musella, 2024: Odissea del Jobs act. Seconda tappa, licenziamento nullo), la Consulta prosegue il suo percorso di valutazione della legittimità costituzionale delle disposizioni del D.Lgs. 23/2015: un percorso che sta assumendo sempre più i connotati di una vera e propria riscrittura del tessuto normativo per renderlo conforme (secondo la valutazione di Giudici della Consulta, ovviamente) alle disposizioni della nostra Carta costituzionale.

Interviene infatti, nuovamente, la Corte Costituzionale a dirimere la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 3, del D.Lgs. n. 23 del 2015 sollevata dal Tribunale di Lecce con ordinanza del 20 aprile 2023 (reg. ord. n. 71 del 2023) nella parte in cui esso prevede l’applicazione della nuova disciplina anche ai lavoratori assunti in data antecedente all’entrata in vigore di essa “nel caso in cui il datore di lavoro, in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all’entrata in vigore del presente decreto, integri il requisito occupazionale di cui all’articolo 18, ottavo e nono comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni”.

Al fine di comprendere quanto l’opera di valutazione, da parte della Corte Costituzionale, della conformità del corpus normativo di cui al Decreto Legislativo 23/2015 al dettato costituzionale sia profonda e pervasiva è utile ripercorrere sinteticamente, prima di commentare la più recente pronuncia n. 44 del 19.3.2024, il susseguirsi di decisioni che hanno avuto ad oggetto tale provvedimento normativo.

Già tre anni dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 23/2015 la Corte costituzionale è stata chiamata ad affrontare le prime questioni di costituzionalità sollevate con riferimento ad esso.

Con la sentenza 26 settembre – 8 novembre 2018, n. 194 (rinvenibile, fra l’altro, in Foro it. 2019, I, 70, con nota di S. Giubboni; in Lavoro giur. 2019, 153, con nota di C. Cester; in Nuova giur. civ. 2019, 462, con nota di M. De Luca; in Riv. it. dir. lav. 2018, II, 1031, con nota di P. Ichino e F. Carinci; in ADL 2/19, con note di D. Dalfino, “L’incostituzionalità del contratto a tutele crescenti: gli effetti sui giudizi pendenti” e di M. Persiani, “La sentenza della corte costituzionale n. 194 del 2018: parturiunt montes”), infatti, ha dichiarato:

(i) l’illegittimità costituzionale del comma 1 dell’art. 3 D.Lgs. 23/2015, sia nel testo originario sia nel testo modificato dall’art. 3, comma 1, D.L. 12 luglio 2018, n. 87, convertito, con modificazioni, nella L. 9 agosto 2018, n. 96, limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”;

(ii)  inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, sollevata in riferimento agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 10 della Convenzione OIL n. 158 del 1982 sul licenziamento;

(iii) non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, sollevata in riferimento agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 30 CDFUE;

(iv) inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 2, 3, commi 2 e 3, e 4, sollevate in riferimento agli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, 76 e 117, primo comma, della Costituzione;

(v) inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 2, 3, commi 2 e 3, e 4, sollevate in riferimento agli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, 76 e 117, primo comma, della Costituzione;

(vi) inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, sollevata in riferimento agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 10 della Convenzione OIL n. 158 del 1982 sul licenziamento;

(vii) non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, sollevata in riferimento agli artt. 76 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 30 CDFUE.

La Corte Costituzionale ha, quindi, inciso in modo determinante, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, su uno degli aspetti ritenuti più incisivi e qualificanti del nuovo sistema di tutele apprestato dal D.Lgs. 23/2015, vale a dire la predeterminazione, sulla base di un mero calcolo aritmetico ancorato agli anni di anzianità di servizio maturati dal lavoratore, dell’indennità che gli spetta in caso di licenziamento ingiustificato.

Di lì a due anni la Consulta è tornata ad occuparsi della legittimità costituzionale del provvedimento normativo con la sentenza 24 giugno-16 luglio 2020, n. 150 (pubblicata fra l’altro in Labor 2021, 85, con nota di Megna; in Foro it. 2020, I, 2982, con nota di Giubboni; in Riv. it. dir. lav. 2020, II, 725, con nota di Topo).

In tale occasione, su eccezioni di incostituzionalità sollevate dai Tribunali di Bari e di Roma e ritenendo che “le ragioni su cui questa Corte ha fondato la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 3 del D.Lgs. n. 23 del 2015 devono essere ripercorse lungo una linea di continuità, al fine di esaminare la disciplina dell’indennità dovuta per il licenziamento affetto da vizi formali e procedurali”, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 D.Lgs. 23/2015 limitatamente alle parole “di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”, con ciò confermando il proprio orientamento secondo il quale il meccanismo di quantificazione automatica dell’indennità dovuta in caso di licenziamento illegittimo è contrario al dettato costituzionale.

Solo pochi mesi dopo la Corte si è nuovamente pronunciata con la sentenza 4 – 26 novembre 2020, n. 254 (pubblicata fra l’altro in ADL n. 2/2021, con nota di C. Pareo, “Sull’adeguatezza della tutela economica nel licenziamento collettivo illegittimo: riflessioni a partire da corte costituzionale n. 254/2020” e in Riv. giur. lav. 2021, II, 205 (m), con nota di F. Aiello); con tale decisione ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, 3 e 10, nella versione antecedente alle modifiche dettate dall’art. 3, comma 1, del decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87, convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96, sollevate in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 35, 38, 41, 76, 111, 10 e 117, primo comma, della Costituzione, questi ultimi due in relazione agli artt. 20, 21, 30 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e all’art. 24 della Carta sociale europea.

Passano ancora pochi mesi e la Consulta è di nuovo chiamata a pronunciarsi, questa volta sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, sollevata in riferimento agli artt. 3, 4, primo comma, e 35, primo comma, della Costituzione; questione della quale, con ordinanza 14 aprile – 7 maggio 2021, n. 93 (rinvenibile in Notiziario giurisprudenza lav. 2021, 481), la Corte ha dichiarato la manifesta inammissibilità.

Il percorso di verifica della legittimità costituzionale è proseguito con la sentenza 23 giugno – 22 luglio 2022, n. 183 (in Dir. relazioni ind. 2022, 1135 (m), n. C. Zoli; in ADL n. 6/2022, con nota di G. Bolego, “Licenziamento ingiustificato nelle piccole imprese: la corte costituzionale censura, non decide e sollecita l’intervento del legislatore”; in Dir. relazioni ind. 2022, 1135 (m), n. C. Zoli; in  Giur. cost., 2022, 2015, n. M. Verzaro), con la quale la Consulta ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1, sollevate in riferimento agli artt. 3, primo comma, 4, 35, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea.

È  però importante evidenziare che con tale pronuncia la Corte, pur dichiarando inammissibili le censure sollevate, che avevano ad oggetto sostanzialmente la (ritenuta) illegittimità costituzionale della distinzione di tutela applicabile in considerazione del numero di dipendenti occupati dal datore di lavoro, ha emesso un vero e proprio monito al Legislatore.

Ha, infatti, evidenziato che “in un quadro dominato dall’incessante evoluzione della tecnologia e dalla trasformazione dei processi produttivi, al contenuto numero di occupati possono fare riscontro cospicui investimenti in capitali e un consistente volume di affari. Il criterio incentrato sul solo numero degli occupati non risponde, dunque, all’esigenza di non gravare di costi sproporzionati realtà produttive e organizzative che siano effettivamente inidonee a sostenerli. Il limite uniforme e invalicabile di sei mensilità, che si applica a datori di lavoro imprenditori e non, opera in riferimento ad attività tra loro eterogenee, accomunate dal dato del numero dei dipendenti occupati, sprovvisto di per sé di una significativa valenza. 5.3.- In conclusione, un sistema siffatto non attua quell’equilibrato componimento tra i contrapposti interessi, che rappresenta la funzione primaria di un’efficace tutela indennitaria contro i licenziamenti illegittimi. 6.- Si deve riconoscere, pertanto, l’effettiva sussistenza del vulnus denunciato dal rimettente e si deve affermare la necessità che l’ordinamento si doti di rimedi adeguati per i licenziamenti illegittimi intimati dai datori di lavoro che hanno in comune il dato numerico dei dipendenti. Al vulnus riscontrato, tuttavia, non può porre rimedio questa Corte”.

È  quindi legittimo attendersi che, ove non intervenga tempestivamente il Legislatore (e, a dire il vero, sembra improbabile che nell’attuale contesto politico ed istituzionale quest’ultimo si assuma la responsabilità di un intervento normativo che, comunque sia declinato, è destinato ad avere un impatto molto profondo), qualora la questione dovesse ritornare all’attenzione della Consulta quest’ultima si orienti verso una declaratoria di incostituzionalità della norma (o delle norme) che ancorano la distinzione di tutele applicabili in caso di illegittimità del licenziamento al mero requisito del numero di dipendenti occupati dal datore di lavoro.

Successivamente la Corte costituzionale è intervenuta con la sentenza 5 dicembre 2023 – 22 gennaio 2024, n. 7, sopra richiamata e riferita alle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, e 10, nonché, di lì a poco, con la sentenza 23 gennaio-22 febbraio 2024, n. 22 (anch’essa sopra richiamata), con la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, limitatamente alla parola “espressamente”.

Da ultimo, con la sentenza in commento (C. Cost. 22 febbraio – 19 marzo 2024, n. 44), la Corte ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 3, sollevate in riferimento agli artt. 76 e 77, primo comma, della Costituzione.

In questa circostanza l’intervento dei giudici della legittimità costituzionale è stato invocato dal Tribunale di Lecce, Sezione Lavoro, che con ordinanza del 20 aprile 2023 (reg. ord. n. 71 del 2023) ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 3, del D.Lgs. n. 23 del 2015, censurato per difformità rispetto al criterio di delega dettato dall’art. 1, comma 7, lettera c), della L. n. 183 del 2014 (cosiddetto Jobs Act) in riferimento agli artt. 76 e 77, primo comma, Cost.

Il Tribunale salentino ha ritenuto infatti ravvisabile la violazione dei criteri stabiliti dal Legislatore conferendo la delega al Governo nella misura in cui “il citato art. 1, comma 3, decreto legislativo n. 23/2015 nell’attuare la delega ha esteso la «nuova disciplina» sui licenziamenti anche a coloro che, assunti precedentemente, si siano trovati a operare in una realtà lavorativa che ha superato determinate soglie numeriche dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo n. 23/2015”.

Nel caso sottoposto al Tribunale di Lecce il ricorrente aveva impugnato il licenziamento intimatogli dal datore di lavoro per asseriti vizi nell’applicazione dei criteri di scelta, per mancato adempimento dell’onere di repêchage e per l’omesso espletamento della procedura prevista dall’art. 7 della L. 15 luglio 1966, n. 604. In considerazione del fatto che il datore di lavoro occupava, alla data del licenziamento, un organico superiore alle soglie di cui all’art. 18, commi ottavo e nono, dello Statuto dei Lavoratori, aveva quindi domandato, in via principale, la tutela reintegratoria attenuata di cui al quarto comma dell’art. 18 S.L., in via subordinata la tutela indennitaria forte di cui ai commi quinto e settimo dello stesso articolo, ed in via ulteriormente gradata la tutela indennitaria ridotta di cui al comma sesto.

Nel giudizio radicatosi sulle domande del lavoratore si era costituito il datore di lavoro eccependo in via pregiudiziale di rito l’inapplicabilità del c.d. Rito Fornero di cui all’art. 1, commi 47 e seguenti, della L. 28 giugno 2012, n. 92, ed in via preliminare di merito l’inapplicabilità della disciplina sostanziale di cui all’art. 18 L. 300/1970 in considerazione del fatto che la soglia numerica prevista da tale norma era stata superata solo dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 23 del 2015, con la conseguenza che alla fattispecie doveva applicarsi, secondo quanto disposto dall’art. 1, comma 3, del D.Lgs. 23/2015, la disciplina sanzionatoria prevista da quest’ultimo provvedimento normativo.

In tale contesto il Tribunale salentino, rilevato che l’art. 1, comma 7, lettera c) della legge 10 dicembre 2014, n. 183 ha conferito al Governo la delega per il riordino della disciplina in materia di licenziamenti con “previsione,  per  le  nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della  reintegrazione  del  lavoratore  nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con  l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare  ingiustificato (…)”, ha ritenuto incontestabile che il Legislatore delegante abbia inteso fare riferimento, con riguardo alla nuova  disciplina sui licenziamenti, solo alle “nuove assunzioni”.

Sostiene quindi che prevedere l’applicazione della disciplina sanzionatoria di cui al D.Lgs. 23/2015 anche a lavoratori assunti prima di tale data, in considerazione del fatto che la soglia numerica prevista dall’art. 18 S.L. sia stata superata solo dopo l’entrata in vigore di tale provvedimento, è una soluzione giuridica “che in alcun modo appare riconducibile – sotto il profilo dell’interpretazione letterale e sistematica – al concetto di «nuova assunzione» previsto dal legislatore delegante”, posto che “L’art. 1, comma 7, legge n. 183/2014 non contiene (sotto il profilo della disciplina del licenziamento) alcuna indicazione rispetto ai rapporti di lavoro già in essere né – nell’intero corpo delle deleghe di cui al citato art. 1 – vi è alcun richiamo (…) alle situazioni lavorative in essere. Nel caso di specie si estende al lavoratore «precedentemente assunto» (nel 2011, nel caso di specie) la disciplina dei nuovi assunti post decreto 23 cit.”.

Verificata l’assenza di ragioni di inammissibilità e di irrilevanza della questione così sollevata, e rilevato che il giudice remittente ha congruamente motivato in merito alla non manifesta infondatezza della questione sollevata ed alla impossibilità di accedere ad una interpretazione costituzionalmente orientata delle norme oggetto di censura, la Corte Costituzionale passa all’esame del merito della questione, procedendo preliminarmente ad una sintetica ricostruzione del quadro normativo in cui esse si collocano.

L’iter argomentativo prende dunque le mosse dalla constatazione del fatto che, nella disciplina riguardante i licenziamenti e le conseguenze della eventuale illegittimità di essi, già dall’entrata in vigore della Legge 604/1966 assume rilievo decisivo, pur con diverse declinazioni, il requisito dimensionale del datore di lavoro, declinato sotto il segno del numero dei lavoratori dipendenti occupati in un determinato ambito territoriale o sull’intero territorio nazionale.

Osservano, in particolare, i giudici della Consulta (a tal fine richiamando i propri recenti precedenti costituiti dalle sentenze n. 7 e n. 22 del 2024) che il requisito dimensionale ha mantenuto invariata la propria rilevanza ai fini di determinare le conseguenze di un licenziamento illegittimo anche a seguito dell’entrata in vigore della c.d. Legge Fornero (L. 92/2012, che infatti è intervenuta incisivamente modificando le tutele, ma non ha modificato il tessuto normativo riferito ai requisiti dimensionali) ed è rimasto invariato anche quando “in un contesto riformatore finanche più ampio che ha toccato plurimi aspetti della materia del lavoro (il cosiddetto Jobs Act: L. n. 183 del 2014 ), a questa disciplina, novellata nel 2012, si è affiancata – senza sostituirla – la regolamentazione di quello che, nelle intenzioni del legislatore, era un nuovo tipo di contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato – cosiddetto a tutele crescenti – che si sovrappone a quello ordinario precedente”, e che esso non è mutato nemmeno con l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 23/2015.

Concludono, quindi, affermando, sul punto, che “la disciplina del requisito dimensionale è rimasta quella prevista dalla L. n. 108 del 1990 per i licenziamenti individuali, richiamata dalla disposizione censurata, e quella della L. n. 223 del 1991 per i licenziamenti collettivi”.

Ciò premesso, la disamina affronta il tema centrale sollevato dall’ordinanza di rimessione, e cioè se risulti conforme ai principi indicati dal Parlamento con la Legge 183/2014 (ed in particolare quello indicato all’art. 1 comma 7, lettera c: “previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento”) la disciplina trasfusa nell’esercizio della delega con l’emanazione dell’art. 1, comma 3, del D.Lgs. 23/2015, e quindi se tale disposizione risulti emanata nel rispetto delle regole poste dagli artt. 76 e 77 della Carta Costituzionale.

A tale proposito la motivazione della sentenza individua il nucleo centrale della censura sollevata dal giudice remittente nel fatto che l’oggetto della delega conferita dal Parlamento al Governo risulterebbe limitato alle “nuove assunzioni”, mentre invece il meccanismo giuridico introdotto dall’art. 1, comma 3, del decreto delegato consente (ed anzi impone) l’applicazione della nuova disciplina non solo al personale assunto in data successiva alla sua entrata in vigore, ma anche al personale assunto prima del 7 marzo 2015, qualora il superamento dei limiti dimensionali previsti dall’art. 18, commi ottavo e nono, dello Statuto Lavoratori si verifichi successivamente in conseguenza di ulteriori assunzioni a tempo indeterminato che abbiano come effetto quello, appunto, di superare la fatidica soglia; con la conseguenza, evidenziata dall’ordinanza di rimessione e ritenuta in contrasto con i principi dettati dal Legislatore delegante, che “per tali prestatori di lavoro la decorrenza temporale di applicazione del D.Lgs. n. 23 del 2015 dipende non già dalla data di assunzione, che anzi è antecedente, bensì dalla decisione datoriale di incrementare l’organico in epoca successiva al 7 marzo 2015”.

Così individuato l’oggetto della questione scrutinata, i Giudici della Consulta riconoscono che secondo la volontà espressa nella delega legislativa, la disciplina riguardante le tutele apprestate in caso di illegittimità del licenziamenti avrebbe dovuto essere modificata sotto due diversi profili: dal punto di vista dell’indennità risarcitoria, prevedendo “un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio”; dal punto di vista della tutela reintegratoria, limitandone l’area di applicabilità.

Il risultato, nell’auspicio del Legislatore delegante, avrebbe dovuto essere da un lato quello di rendere maggiormente certe e predeterminabili le conseguenze economiche in caso di licenziamento illegittimo, dall’altro quello di ridurre il campo di applicazione della tutela reintegratoria, con ciò “rassicurando” i datori di lavoro sulle loro scelte di assunzione ed ottenendo quindi il risultato di favorire l’espansione dei livelli occupazionali.

Riconoscono, altresì, che il dettato della norma di delega, secondo il quale il regime “a tutele crescenti” avrebbe potuto e dovuto riguardare soltanto “le nuove assunzioni”, è il frutto del compromesso raggiunto in Parlamento all’esito del confronto fra le varie correnti di pensiero.

Pur riconoscendo quanto sopra, però, la soluzione accolta dalla Consulta è nel senso di ritenere le norme censurate rispettose dei criteri indicati nella Legge Delega, con conseguente infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata nei termini sopra ricordati.

Assume rilievo preminente, nella valutazione della Consulta, il fatto che il quadro normativo delineato dalla legge delega avesse come conseguenza che i lavoratori che già prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina beneficiassero della tutela reintegratoria (come disciplinata dall’art. 18 L. 300/1970 all’esito delle modifiche apportatevi dalla L. 91/2012) in considerazione dei requisiti dimensionali del proprio datore di lavoro non fossero soggetti ad alcune modifica peggiorativa, mentre invece quelli assunti a decorrere dal 7 marzo 2015 sarebbero stato soggetti alla nuova disciplina “a tutele crescenti”.

Per questi ultimi, peraltro, “il carattere più contenuto della tutela reintegratoria non avrebbe significato una modifica in peius, perché il rapporto di lavoro subordinato si sarebbe instaurato ab initio con questo regime di tutela, la cui componente reintegratoria e indennitaria è rimessa alla discrezionalità del legislatore (da ultimo, sentenza n. 7 del 2024)”, della quale la motivazione in commento rimarca la valutazione secondo la quale la tutela reintegratoria prevista dall’art. 5 , comma 3, della L. n. 223 del 1991 è stata conservata per i lavoratori già in servizio alla data di entrata in vigore del D.Lgs. 23/2015, mentre per i lavoratori assunti successivamente la tutela nei confronti dei licenziamenti collettivi, disciplinata dall’art. 10 di tale provvedimento normativo, è prevalentemente indennitaria.

La disciplina normativa introdotta dal Legislatore delegato risulta quindi conforme ai principi dettatati dalla legge delega, secondo la valutazione dei Giudici della costituzionalità, proprio in considerazione delle finalità della delega e della necessità di tenere in considerazione il bilanciamento di interessi preso in considerazione dal Legislatore delegante, che si basava fra l’altro sul principio di “non regresso” dalla tutela reintegratoria ai danni di quei lavoratori che, essendo già in servizio alla data dell’entrata in vigore della nuova disciplina, ne godessero in considerazione della consistenza dimensionale del datore di lavoro a tale data; ma tale situazione di “non regresso” non trovava la medesima necessità, ovviamente, per coloro che già prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. 23/2015 non rientravano nel “perimetro” di applicazione dell’art. 18 S.L., ed erano quindi protetti solo dalla (ben più limitata) tutela indennitaria apprestata dalla L. n. 604 del 1966: per essi non esisteva, con tutta evidenza, la necessità di conservare un regime di tutela reintegratoria del quale comunque non godevano neppure prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina.

Osserva, quindi, la sentenza in rassegna da un lato che “la tutela prevista dal D.Lgs. n. 23 del 2015  è, per il lavoratore già in servizio alla data suddetta, comunque più favorevole del regime ex L. n. 604 del 1966  che gli si applicava in precedenza, prima del superamento della soglia occupazionale, sicché non c’è alcuna regressione in peius”, e dall’atro che “è soddisfatto lo “scopo” della delega nel senso che, se invece fosse stata operante l’acquisizione ex novo (ossia dopo la data di entrata in vigore del decreto legislativo) del regime di tutela dell’art. 18, ciò avrebbe potuto rappresentare una remora, per il datore di lavoro, a fare nuove assunzioni; proprio quelle assunzioni che il legislatore delegante voleva incentivare”.

La conseguenza logico-giuridica (che conduce dunque la Consulta a ritenere la norma censurata rispettosa dei criteri indicati dalla legge delega e, quindi, non in contrasto con gli artt. 76 e 77 Cost.)  è che il legislatore delegato ha fatto buon governo delle proprie prerogative, posto che ai lavoratori che prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. 23/2015 non godevano della tutela reintegratoria non ha tolto nulla (non ne godevano prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina e hanno continuato a non goderne dopo).

Al tempo stesso, per il datore di lavoro che fino al 7 marzo 2015 non occupava più di quindici dipendenti (o sessanta sull’intero territorio nazionale) il superamento della fatidica soglia occupazionale non risulta più foriero di conseguenze così rilevanti ed onerose in ipotesi di intimazione di licenziamenti individuali, posto che la disciplina di questi ultimi risulta la stessa (quella “a tutele crescenti” introdotta appunto del decreto legislativo) per tutti i lavoratori, sia quelli già in servizio sia quelli assunti successivamente.

Sottolinea, peraltro, la motivazione della sentenza, che a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, per effetto della sentenza n. 194 del 2018, le differenze tra le due discipline si sono ridotte nella misura in cui è stato dichiarato illegittimo il meccanismo di calcolo automatico dell’indennizzo previsto per i licenziamenti soggetti al D.Lgs. n. 23 del 2015, e che esse risultano ancor meno pregnanti per effetto dell’abrogazione del cd. Rito Fornero, applicabile solo ai licenziamenti la cui illegittimità comporta la tutela reintegratoria, ad opera dell’art. 37, comma 1, lettera e), del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 149.

Aggiungono i Giudici costituzionali, a sostegno del proprio ragionamento, che la disciplina “a tutele crescenti” introdotta dal D.Lgs. 23/2015, essendo destinata a disciplinare le conseguenze del licenziamento illegittimo in relazione a tutti i nuovi assunti, è destinata a divenire progressivamente, con il decorso del tempo, quella di più generalizzata applicazione, mentre quella prevista dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, essendo riservata ai soli lavoratori già in servizio al 7 marzo 2015, è destinata ad essere applicata ad una platea progressivamente più ridotta di lavoratori, “sì da costituire un regime ad esaurimento”; con la conseguenza che, escluso per i motivi sopra indicati il rischio di una modificazione in peius della tutela, “si ha che, anche sotto questo profilo, non è in contrasto con la legge di delega la previsione che l’accesso alla tutela reintegratoria – quella, pur limitata, del D.Lgs. n. 23 del 2015 – avvenga nel regime ordinario – piuttosto che, come vorrebbe il giudice rimettente, in quello congelato ad esaurimento – anche per quei lavoratori già in servizio alla data suddetta, ma privi a quella data di tale tutela”.

Per quanto fondato su ragionamenti in linea di principio condivisibili, il decisum della sentenza in commento non risulta pienamente convincente nella parte in cui confronta con il tenore letterale della legge delega, che (come evidenziato dal giudice remittente) espressamente imponeva l’applicazione della nuova disciplina solo alle “nuove assunzioni”; non a caso i Giudici costituzionali devono dare atto, in motivazione, del fatto che il legislatore delegato ha introdotto un meccanismo normativo che consente l’applicazione della nuova disciplina anche a lavoratori che non sono “nuovi assunti”, e legittimano tale scelta affermando (sulla base di argomentazioni che valorizzano ben più le finalità della legge delega che il tenore letterale di essa) che il Legislatore “poteva completare la disciplina regolando anche questa fattispecie, che non rientrava strettamente nella ipotesi di “nuovi” lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015”.

È  singolare, inoltre, che pur avendo manifestato appieno, con la sentenza 183/2022, il proprio pensiero fortemente critico sulla perdurante legittimità del sistema di distinzione delle tutele sulla base del mero dato numerico dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, in questa occasione la Consulta si sia limitata a richiamarne la perdurante sopravvivenza normativa, senza cogliere l’occasione per ribadirne la sopravvenuta obsolescenza in considerazione del mutato contesto economico-sociale nel quale le attività d’impresa attualmente vengono esercitate.

Certo le questioni poste al vaglio del giudice remittente, e la conseguente ordinanza di rimessione, non avevano ad oggetto specificatamente il tema della legittimità (o meno) del quadro normativo che attribuisce tutele diverse in considerazione del numero di dipendenti occupati dal datore di lavoro, con la conseguenza che tale questione non poteva essere presa in considerazione dalla Consulta.

È altrettanto vero, però, che ben avrebbe potuto la Corte ribadire, ancorché incidentalmente, il proprio pensiero in merito alla necessità che si addivenga, vuoi ad opera del Legislatore vuoi (in caso di inerzia di quest’ultimo) con un intervento della stessa Corte Costituzionale, al superamento della normativa che attribuisce forme di tutela radicalmente diverse (per certi versi quella reintegratoria e quella indennitaria, per altri versi tutele indennitarie che passano da un massimo di sei mensilità ad un massimo di trentasei mensilità) sulla base del solo numero di lavoratori occupati.

Luigi Andrea Cosattini, avvocato in Bologna

Visualizza il documento: Corte cost., 19 marzo 2024, n. 44

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