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Contratti di lavoro a termine legittimi solo per le attività agricole strettamente stagionali

30 Maggio 2024|

La recente ordinanza della Corte di cassazione, Sez. Lavoro, del 22 maggio 2024 n. 14236, afferma che la deroga al divieto di superamento del limite massimo di trentasei mesi di durata dei contratti di lavoro a tempo determinato è applicabile, anche nel settore dell’agricoltura, solamente quando i contratti riguardino le attività stagionali indicate normativamente.

Si deve, infatti distinguere tra le attività effettivamente stagionali e quelle invece che devono comunque essere svolte per tutto l’anno, come per esempio i servizi di custodia e manutenzione.

Ebbene in questa seconda ipotesi i contratti non possono essere a termine ma a tempo indeterminato. “Neppure la ciclicità dell’attività agricola – spiega la Corte – consente eccezioni alla disciplina dei contratti a termine, dovendosi ritenere che i lavori adibiti stabilmente a mansioni che rispondono ad esigenze permanenti dell’attività stagionale debbano essere dipendenti a tempo indeterminato”.

È stato così accolto il ricorso di un dipendente dell’Ente sviluppo agricolo (di seguito E.S.A.) contro la decisione della Corte d’appello di Palermo.

Il lavoratore lamentava che dal 1987 al 2017 il suo rapporto di lavoro era stato regolato da una serie di contratti a termine reiterati più e più volte in maniera ritenuta illegittima.

Per il giudice di secondo grado, tuttavia, il criterio della stagionalità giustificava la deroga alla normativa sul lavoro a termine nel settore dell’agricoltura.

La Corte d’appello di Palermo, ribaltando la decisione di primo grado, riteneva non meritevole di accoglimento la domanda di un lavoratore, dipendente dell’Ente sviluppo agricolo (E.S.A.), volta ad ottenere la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno derivante dall’utilizzo abusivo del contratto a tempo determinato.

Il lavoratore esponeva di aver lavorato come operatore agricolo a tempo determinato, dal 1987 e sino al 2017, sulla base di una serie di contratti a termine  reiterati più volte in maniera ritenuta illegittima.
La Corte territoriale, richiamata la disciplina generale in materia di lavoro a termine, ratione temporis applicabile, poneva a fondamento della sua decisione l’assunto secondo cui il criterio della stagionalità configuri una ragione valida a giustificare la deroga all’applicazione della normativa sul lavoro a termine nel settore dell’agricoltura, e che pertanto le caratteristiche dell’attività agricola permettano di ritenere compatibile con la disciplina in tema di contratti termine e deroghe per lavoro stagionale tipologie di rapporti non necessariamente coincidenti con la durata delle stagioni.

La Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto fondate le doglianze del lavoratore ricorrente, evidenziando che neppure la ciclicità dell’attività agricola consente eccezioni alla disciplina dei contratti a termine, dovendosi invece ritenere che i lavori adibiti stabilmente a mansioni che rispondono ad esigenze permanenti dell’attività stagionale debbano essere dipendenti a tempo indeterminato.

Il medesimo Collegio, in particolare, ha affermato che la deroga prevista dagli artt. 5, comma 4 ter, D. Lgs. n. 368 del 2001 e 21, comma 2, D. Lgs n. 81 del 2015 al divieto di superamento del limite massimo di trentasei mesi di durata dei contratti di lavoro a tempo determinato è applicabile, anche nel settore dell’agricoltura, solamente quando tali contratti riguardino attività stagionali indicate dalla predette disposizioni.

In tema di contratti di lavoro a tempo determinato, non è, di per sé, qualificabile come attività agricola stagionale quella, idonea a perpetuarsi nel tempo, che non dipenda dall’ordinaria scansione temporale delle comuni incombenze attinenti alla detta attività agricola; infatti, nell’ambito di attività imprenditoriali di carattere stagionale, esistono necessità operative, sia pure di dimensioni limitate, che proseguono per tutto il corso dell’anno, come quelle di custodia, riparazione e manutenzione degli impianti e dei macchinari e, in genere, di preparazione alla nuova stagione piena, con la conseguenza che i lavoratori addetti stabilmente a simili attività devono essere dipendenti a tempo indeterminato e non lavoratori stagionali, anche quando l’attività produttiva come tale, considerata nei suo complesso, abbia carattere stagionale.

Inoltre le prestazioni da eseguire e il carattere stagionale delle stesse devono risultare dalla causale dei relativi contratti e, in caso di contestazioni sollevate dal lavoratore in ordine alle mansioni in concreto svolte e alla loro stagionalità, il giudice è tenuto ad accertare queste circostanze in concreto; l’onere di provare che il lavoratore fosse addetto esclusivamente a tali attività stagionali o ad altre ad esse strettamente complementari o accessorie grava sul datore di lavoro.

I giudici di legittimità non hanno mancato, poi, di rilevare che l’E.S.A. è un ente pubblico non economico il quale non può essere considerato imprenditore agricolo ai sensi dell’art 2135 c.c., con la conseguenza che ai contratti di lavoro a tempo determinato conclusi da tale ente non è applicabile la disciplina di cui agli artt. 10, comma 2, D. Lgs. n. 368 del 2001 e 29, comma 1, lett. b, D. Lgs. n. 81 del 2015, essendo, invece, esso assoggettato alla disciplina di cui al  D. Lgs. n. 165/2001.

Secondo quanto posto in evidenza dai giudici di legittimità, il concetto di attività stagionale deve essere inteso in senso rigoroso e quindi comprensivo delle sole situazioni aziendali collegate ad attività stagionali in senso stretto, ossia ad attività preordinate ed organizzate per un espletamento temporaneo (limitato ad una stagione), le quali sono aggiuntive rispetto a quelle normalmente svolte dall’impresa.

In definitiva, prosegue la decisione, il concetto di attività stagionale deve essere inteso “in senso rigoroso” e quindi comprensivo delle sole “situazioni aziendali collegate ad attività stagionali in senso stretto, ossia ad attività preordinate ed organizzate per un espletamento temporaneo (limitato ad una stagione)” (ordinanza n. 34561/2023), le quali sono aggiuntive rispetto a quelle normalmente svolte dall’impresa”. Ne deriva che “non solo grava sul datore di lavoro l’onere di dar prova del fatto che l’attività in concreto svolta dal lavoratore costituisca attività aggiuntiva rispetto a quella normalmente svolta e caratterizzata, appunto, dalla stagionalità, ma anche è inibita al datore la possibilità di adibire il lavoratore assunto a termine a mansioni che esorbitino dall’ambito della lavorazione stagionale”.

Pertanto, l’elenco delle attività stagionali di cui al d. P.R, n. 1525/1963 è da considerarsi tassativo e non suscettibile di interpretazione analogica, vincolo, questo, che si riflette anche sulla contrattazione collettiva la quale deve, a propria volta, elencare in modo specifico le attività caratterizzate da stagionalità.
Nel caso di specie la decisione della Corte d’appello risultava essersi ampiamente discostata dai predetti principi, non applicando correttamente le previsioni in tema di contratti a termine.
Sarebbe stato, infatti, compito dei giudici di merito, in virtù delle contestazioni sollevate dal lavoratore in ordine all’effettiva individuazione delle mansioni da lui esercitate e alla loro natura agricola e stagionale, procedere all’accertamento in concreto delle mansioni effettivamente espletate, tenendo peraltro contro degli oneri probatori gravanti sul datore di lavoro ESA, concernenti sia la presenza, nei contratto concluso, di un chiaro riferimento alla stagionalità dell’attività da svolgere, sia il carattere delle prestazioni effettivamente svolte dal dipendente in questione e la riconducibilità delle medesime all’elenco individuato dal d.P.R. n. 1525/1963 o alla contrattazione collettiva.

Nicola Niglio, Consigliere della Presidenza del consiglio dei Ministri-Scuola nazionale dell’amministrazione

Visualizza il documento: Cass., ordinanza 22 maggio 2024, n. 14236

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