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Conflitto capitale-lavoro, sciopero e dovere di neutralità del datore di lavoro

24 Giugno 2024|

L’antefatto e i primi due gradi di giudizio

La decisione che si annota (Cass., ordinanza, 14 marzo 2024, n. 6787) fornisce lo spunto per effettuare una ricognizione in tema sciopero che è stato qualificato diritto, per la prima volta nella storia dell’umanità, proprio dalla Costituzione italiana.

Il caso di specie origina dallo sciopero di alcuni dipendenti indetto per protestare contro il rifiuto opposto dall’azienda alla loro richiesta di trasferire un collega ritenuto responsabile di aggressione. Sulla base della supposta illegittimità dell’indizione dello (e partecipazione allo) sciopero, riqualificato come abbandono ingiustificato del lavoro, il datore di lavoro ha irrogato una sorta di punizione collettiva licenziando una trentina di lavoratori “colpevoli” di aver esercitato un loro diritto costituzionale.

In maniera che si fatica a comprendere, il Tribunale di Vicenza, interessato della vicenda in ragione del ricorso di alcuni fra i lavoratori coinvolti, ha confermato la legittimità della decisione datoriale.

In secondo grado, la Corte d’Appello di Bologna, in maniera condivisibile, ha mutato indirizzo dichiarando l’illegittimità dei licenziamenti comminati in quanto ingiustificati per insussistenza della giusta causa o del giustificato motivo con la conseguente applicazione della cosiddetta tutela reintegratoria attenuata (ovverosia, reintegrazione e riconoscimento di un’indennità risarcitoria commisurata in dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto).

Non spetta, infatti, alla parte datoriale valutare la fondatezza, la ragionevolezza e l’importanza delle rivendicazioni a cui l’autotutela collettiva è finalizzata. Pertanto, ogni eventuale indagine sulla legittimità di uno sciopero – quale diritto individuale ad esercizio collettivo – deve essere orientata a fare luce sul rispetto, o no, dei cosiddetti limiti esterni (Cass. 30 gennaio 1980, n. 711) fra cui, come vedremo, si annovera anche il diritto dell’imprenditore alla continuazione dell’attività e dunque all’integrità del patrimonio aziendale.

Dalla teoria del “danno ingiusto” a quella dei “limiti esterni”

Sebbene sul tema esista una letteratura sconfinata, è opportuno richiamare in questa sede il processo di evoluzione dottrinaria e giurisprudenziale che, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, si è sviluppato per circa quattro decenni.

Ed infatti, a partire dai primi anni ’50, una parte della dottrina e la giurisprudenza maggioritaria avevano incominciato ad etichettare come illegittime alcune forme “articolate” di sciopero (a singhiozzo, a scacchiera etc.) in quanto caratterizzate da una sospensione irregolare della prestazione lavorativa e da un astensione discontinua dal lavoro che, si diceva, arrecavano all’imprenditore un danno maggiore rispetto a quello che ipoteticamente avrebbe arrecato l’astensione totale dal lavoro (Cass., 4 marzo 1952, n. 584).

Di conseguenza, secondo questa prospettazione, nel caso di sciopero articolato sarebbe venuta meno la “corrispettività dei sacrifici” delle parti secondo cui ad una sospensione collettiva dal lavoro che procura danno all’imprenditore corrisponde la mancata erogazione della retribuzione agli scioperanti.

Il danno procurato era ritenuto più grave di quello generato attraverso uno sciopero “ordinario”, in termini di disorganizzazione aziendale, spreco di energie e materie prime, danneggiamento degli impianti, scarti di produzione etc. e, dunque, ingiusto in quanto idoneo ad arrecare uno sconvolgimento e una disarticolazione dell’organizzazione produttiva (Cass. 3 marzo 1967, n. 512). Tale effetto era ritenuto capace (in dottrina V. SIMI, Il diritto di sciopero, Giuffrè, Milano, 1956, p. 243) di violare i principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione della prestazione dovuta (artt. 1175 e 1375 c.c.) e gli obblighi di collaborazione e di diligenza gravanti sul lavoratore subordinato (artt. 2094 e 2104 c.c.).

La teoria del danno ingiusto è stata oggetto di molte critiche.

Sul piano metodologico è stato correttamente evidenziato che lo sciopero deve essere inteso come una deroga, prevista dal legislatore, alla disciplina del diritto comune delle obbligazioni e dei contratti per effetto della quale i debitori della prestazione lavorativa vengono esentati dalla responsabilità di inadempimento della prestazione lavorativa (G. GHEZZI, Considerazioni sulla giurisprudenza in tema di sciopero, in Indagine sul sindacato, Giuffrè, Milano, 1970, p. 280).

Per altro verso, si è fatto notare che il principio di correttezza e di buona fede non può essere applicato allo sciopero in quanto questo rappresenta un momento di non esecuzione dell’attività lavorativa (E. GHERA, Considerazioni sulla giurisprudenza in tema di sciopero, in Indagine sul sindacato, Giuffrè, Milano, 1970, p. 403-404).

Pertanto, con un quantomai opportuno revirement, la giurisprudenza di legittimità è finalmente arrivata finalmente a constatare che «il principio della buona fede agisce nel momento del concretizzarsi del contratto di lavoro, per cui non può essere richiamato ai fini della legittimità dello sciopero, al quale è fondamentale l’esecuzione della prestazione» e che «il richiamo al dovere di subordinazione e allo spirito di collaborazione attengono allo svolgimento del rapporto, e quindi non alla sua sospensione che invece rappresenta un effetto tipico dello sciopero» (Cass. n. 711/1980 cit.).

Si può quindi affermare che, su un piano generale ed astratto, lo sciopero non incontra alcun limite se non quello rappresentato dalla necessità di tutelare anche ulteriori interessi o beni giuridici garantiti a livello costituzionale (teoria dei limiti esterni) su cui la giurisprudenza si è soffermata in varie occasioni (C. cost., 8 luglio 1957, n. 110; C. cost., 28 dicembre 1962, n. 124; C. cost., 17 marzo 1969, n. 31; C. cost., 4 gennaio 1977, n. 4). Tra questi, la libertà di iniziativa economica intesa in senso dinamico e, dunque, non come mera libertà di conseguire profitto, ma come un interesse che trova la sua tutela, oltre che nell’art. 41 Cost., anche nell’art. 4 Cost. giacché l’attività produttiva risulta prodromica e necessaria per la concreta attuazione del diritto al lavoro.

In conclusione, l’astensione collettiva dal lavoro è da considerarsi illecita solo laddove attuata senza accorgimenti e cautele così pregiudicando in maniera irreparabile la possibilità per il datore di lavoro di continuare a svolgere la sua iniziativa economica.

Il dovere di neutralità del datore di lavoro

Il datore di lavoro è obbligato a mantenere un profilo neutrale rispetto allo svolgimento del conflitto collettivo, sia quello “tradizionale” fra capitale e lavoro, sia quello “atipico” fra organizzazioni sindacali rappresentative di visioni differenti degli interessi dei lavoratori.

Sicché, in maniera concorde con un precedente arresto (Cass. 27 gennaio 2023, n. 2520), la Suprema Corte, nel confermare la decisione di secondo grado, ha definito il caso di specie evidenziando che l’imprenditore è legittimato a proteggere l’incolumità delle persone o l’integrità dell’azienda ovvero a schierarsi a favore di un sindacato contro un altro, ma gli è precluso il ricorso ai poteri disciplinari e gerarchico-direttivi che la legge gli attribuisce al solo fine del governo delle esigenze produttive dell’azienda e non per comminare punizioni collettive.

Giuseppe Leotta,  docente di diritto dello spettacolo presso il Conservatorio di musica “Santa Cecilia” di Roma, dottore di ricerca e avvocato in Roma

Visualizza il documento: Cass., ordinanza 14 marzo 2024, n. 6787

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