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Brevi profili ricostruttivi in tema di domanda di ammissione al passivo fallimentare: tra crediti a titolo di TFR e par condicio creditorum e onus probandi nel giudizio di opposizione

2 Giugno 2024|

La Corte di Cassazione, con la pronuncia in commento (ordinanza, 18 marzo 2024, n. 7186), ha sancito il principio per cui le buste paga ed il CUD (c.d. certificato unico dipendente), in mancanza di un atto di quietanza del lavoratore-creditore, non costituiscono prova del pagamento del credito in essi documentato, in quanto provenienti dalla stessa parte interessata ad opporre il fatto estintivo (Cfr. M. Marazza – D. Garofalo, Insolvenza del datore di lavoro e tutele del lavoratore, Giappichelli, 2015, XIV).

La dipendente ha chiesto di essere ammessa al passivo del fallimento, in via privilegiata, per la somma complessiva di euro 39.245,52, oltre interessi, di cui euro 32.104,93 per trattamento di fine rapporto, indennità sostitutiva del preavviso e retribuzione e il residuo importo per spese di giustizia.

Avverso il decreto del giudice delegato, che ha ammesso solo in parte i crediti vantati dalla lavoratrice (esattamente per euro 4.996,39 a titolo di indennità sostitutiva del preavviso), quest’ultima ha proposto opposizione. Il Tribunale di Macerata ha respinto, tuttavia, quest’ultima.

Il Tribunale, nella contumacia della curatela, ha dato atto del giudicato endofallimentare formatosi sull’importo ammesso al passivo per l’indennità sostitutiva del preavviso; ha ritenuto che la lavoratrice, onerata, non avesse fornito prove sufficienti a dimostrare il quantum alla stessa dovuto; che per il credito relativo alla retribuzione di settembre 2013 aveva prodotto la busta paga priva, però, di sottoscrizione, timbro o sigla del datore di lavoro; si precisa che per il trattamento di fine rapporto aveva prodotto la busta paga di novembre 2013, anch’essa priva di sottoscrizione, timbro o sigla di parte datoriale, nonché il CUD dell’anno 2014; quest’ultimo documento, munito di timbro e firma della società, recava al punto 410 l’indicazione dell’importo del t.f.r. spettante alla lavoratrice, ma al punto 401 l’annotazione dell’avvenuta erogazione di tale importo nell’anno.

Il ricorrente ha anche affermato che il contenuto contraddittorio e non scindibile del documento CUD, se pure non valeva a dimostrare l’avvenuto pagamento del t.f.r., tuttavia portava a considerare non sufficientemente dimostrata l’esistenza di un credito per t.f.r. di quella entità, in assenza di altri elementi di prova; che, nella prima fase dinanzi al giudice delegato, la curatela aveva rilevato come in base al CUD l’importo preteso a titolo di t.f.r. risultasse già corrisposto (Sul punto v. A. Corrado – D. Corrado, Crisi d’impresa e rapporti di lavoro, Giuffrè, 2016, 463 ss.).

Avverso tale decreto il dipendente medesimo ha proposto ricorso per cassazione.

Con il primo motivo di ricorso si è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione o falsa applicazione degli artt. 2709, 2733 e 2735 c.c. e del decreto-legge n. 112 del 2008 e della legge n. 4 del 1953, nonché l’omessa e contraddittoria motivazione.

La lavoratrice afferma che le buste paga, quali documenti provenienti da parte datoriale, fanno piena prova contro la parte che li ha emessi, ai sensi degli artt. 2709 e 2735 c.c., ed hanno valore confessorio; che rappresentano la copia, consegnata al lavoratore, del libro unico del lavoro istituito dal decreto-legge n. 112 del 2008 in sostituzione dei precedenti libri obbligatori; che nel caso di specie, nessuna contestazione è stata fatta dalla curatela, rimasta contumace nel giudizio di opposizione; che i cedolini di settembre e novembre 2013 recano, nella parte in altro a sinistra, la sigla o il timbro della società e, in altro a destra, il timbro Inail con il numero di autorizzazione alla numerazione unitaria; che l’istanza di ammissione al passivo era corredata anche da due decreti ingiuntivi immediatamente esecutivi, ritualmente notificati e non opposti, divenuti definitivi (sebbene prodotti senza il decreto di esecutorietà), che il tribunale ha considerato irrilevanti ai fini della prova.

La ricorrente deduce di aver adempiuto al proprio onere probatorio. In particolare, ciò sarebbe avvenuto attraverso la documentazione prodotta, quali lettere di assunzione e di cessazione del rapporto, decreti ingiuntivi non opposti, cedolini paga e c.u.d. La lavoratrice specifica che tali prove non sono mai state contestate dalla curatela, sia quanto alla esistenza del rapporto di lavoro e sia riguardo agli importi risultanti dai prospetti paga, né la curatela ha fornito prove contrarie.

Dunque, il tribunale sarebbe incorso nella violazione dell’art. 112 c.p.c. per essersi pronunciato sulla inadeguatezza delle prove fornite dalla lavoratrice in mancanza di una eccezione di controparte; parimenti,  si sarebbe violato l’art. 115 c.p.c. per non aver considerato pacifici i dati emergenti dai documenti (buste paga e c.u.d.) in quanto non specificamente contestati dalla curatela, sia nella prima fase del giudizio e sia in sede di opposizione; pur in mancanza della firma, il tribunale avrebbe dovuto giudicare detti documenti prova idonea dell’an e del quantum debeatur in base alle nozioni di comune esperienza, come dimostrato dalla emissione dei decreti ingiuntivi sulla base degli stessi; secondo la medesima ricostruzione, il  tribunale ha violato l’art. 116 c.p.c. nell’apprezzamento delle prove e non ha tenuto conto del fatto che il giudice delegato aveva ammesso al passivo il credito per l’indennità sostitutiva del preavviso sulla base unicamente della relativa busta paga, ora contraddittoriamente giudicata prova inidonea per gli altri crediti. Si deduce, altresì, la violazione dell’art. 215 c.p.c. poiché il tribunale avrebbe dovuto considerare la documentazione tacitamente riconosciuta perché non contestata.

La ricorrente assume che il c.u.d. 2014 rilasciato dalla società riporta informazioni integranti i requisiti di una confessione stragiudiziale limitatamente ai fatti sfavorevoli alla parte da cui promana e favorevoli all’altra parte; che nella specie doveva considerarsi dotata di rilievo probatorio solo la parte del c.u.d. relativa alla quantificazione del t.f.r. in quanto favorevole alla lavoratrice; che ha errato il tribunale nell’assegnare valore probatorio alla parte del c.u.d. favorevole al datore e concernente il presunto avvenuto versamento del t.f.r.; che tale circostanza è sempre stata contestata dalla lavoratrice, anche in sede processuale e mediante la produzione degli estratti conto mensili bancari atti a provare la mancanza di accredito di somme a titolo di t.f.r. negli anni 2013 e 2014 da parte della società.

Secondo la ricostruzione operata dalla lavoratrice, le fatture emesse dai legali comprovano l’avvenuto esborso da parte della lavoratrice e che si tratta di documento fiscale mai contestato dalla curatela; che le spese sostenute per la custodia dei beni pignorati hanno certamente comportato un beneficio per la massa dei creditori in quanto i beni (custoditi prima del fallimento a spese della Conti) sono confluiti nella massa fallimentare (G. Bozza, La facoltatività della formazione delle classi nel concordato preventivo, in Fall., 2009, 424 ss.; M. Sandulli, Art. 160, in Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, a cura di A. Nigro – M. Sandulli – V. Santoro, Giappichelli, 2014, 19 ss.).

La Suprema Corte, per dichiarare infondate talune deduzioni della lavoratrice, prende le mosse da un granitico orientamento di legittimità secondo cui, in tema di accertamento del passivo fallimentare, le copie delle buste paga rilasciate al lavoratore dal datore di lavoro, ove munite, alternativamente, della firma, della sigla o del timbro di quest’ultimo, hanno piena efficacia probatoria del credito insinuato, alla stregua del loro contenuto, obbligatorio e sanzionato (un tempo penalmente e ora in via amministrativa), ferma restando la facoltà del curatore di contestarne le risultanze con altri mezzi di prova, ovvero con specifiche deduzioni e argomentazioni volte a dimostrarne l’inesattezza, la cui valutazione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice.

Sul piano squisitamente processuale, la Corte di Cassazione richiama il principio di non contestazione, che presuppone un “comportamento concludente della parte costituita” (v. Cass. n. 461 del 2015; v. anche Cass. n. 14372 del 2023). I giudici precisano che il Fallimento è rimasto contumace nel giudizio di opposizione, senza considerare che, in tema di verificazione del passivo, il principio di non contestazione, che pure ha rilievo quale tecnica di semplificazione della prova dei fatti dedotti, non comporta affatto l’automatica ammissione del credito allo stato passivo solo perché non sia stato contestato dal curatore, competendo al giudice delegato e al tribunale fallimentare il potere di sollevare, in via ufficiosa, ogni sorta di eccezioni in tema di verificazione dei fatti e delle prove.

Di notevole interesse dogmatico è la ricostruzione operata dalla Suprema Corte per cui  il procedimento di opposizione allo stato passivo del fallimento si configurerebbe come un vero e proprio giudizio ordinario di cognizione in cui trovano applicazione le regole generali in tema di onere della prova (P. Catallozzi, Concordato preventivo: sindacato sulla fattibilità del piano e tecniche di tutela dei creditori “deboli”, in Fall., 2007, 337; M. Fabiani, Brevi riflessioni su omogeneità degli interessi ed obbligatorietà delle classi nei concordati, in Fall., 2009, 440 ss.)

Conseguentemente, l’opponente è tenuto a fornire la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto di credito, mentre grava sulla curatela l’onere di dimostrare l’esistenza di fatti modificativi, impeditivi o estintivi dell’obbligazione (M. Persiani – M. D’Onghia, Fondamenti di diritto della previdenza sociale, Giappichelli, 2018, 44 e 102 ss.).

Nel caso in esame, non sarebbe stato assolto l’onere di prova facente capo alla lavoratrice opponente.

La Corte, pertanto, ribadisce il principio per cui le buste paga ed il C.U. integrano i requisiti di prova documentale richiesti ai fini della opponibilità della prova scritta di un credito nei confronti del fallimento, anche ai sensi dell’articolo 2704 c.c. (v. Cass. n.10123 del 2017; n. 10041 del 2017; n. 17930 del 2016); essi, invece, in mancanza di un atto di quietanza del lavoratore-creditore (nella specie mancante), non costituiscono prova del pagamento del credito in essi documentato, in quanto provenienti dalla stessa parte interessata ad opporre il fatto estintivo (Cass. n. 6220 del 2019).

Più specificamente, i giudici di legittimità chiariscono come il Tribunale abbia riconosciuto rilevanza probatoria del pagamento del t.f.r. a documenti (in particolare il c.u.d. 2014) provenienti dalla stessa parte interessata, in violazione del consolidato principio, secondo cui il documento proveniente dalla parte che voglia giovarsene non può costituire prova in favore della stessa né determina inversione dell’onere probatorio in caso di contestazione (sul punto, vedasi Cass. 23 giugno 1997, n. 5573; 24 giugno 2000, n. 9685; 27 aprile 2016, n. 8290; Cfr. P. Tullini, Tutela del lavoro nella crisi d’impresa e assetto delle procedure concorsuali: prove di dialogo, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2014, 199 ss.).

Giuseppe Maria Marsico, dottorando di ricerca in diritto privato e dell’economia e funzionario giuridico-economico-finanziario

Visualizza il documento: Cass., ordinanza 18 marzo 2024, n. 7186

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