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Ancora sull’utilizzo della codatorialità “atipica” in una prospettiva rimediale

7 Giugno 2024|

La sentenza  in commento (Trib. Roma, 22 febbraio 2024, n. 2233) si caratterizza per l’innovativo impiego dello strumento della codatorialità al di là, non solo, delle reti di imprese (codatorialità tipizzata), ma anche, dei gruppi societari (codatorialità atipica) tanto da approdare al suo utilizzo in una fattispecie ove la parte datoriale è costituita da una pluralità di persone fisiche.

Per comprendere a pieno la portata della sentenza resa dal Tribunale di Roma è opportuno prendere le mosse dal caso concreto sottoposto al giudice di prime cure: con ricorso ritualmente notificato la ricorrente chiedeva al Tribunale il riconoscimento di un rapporto di lavoro in codatorialità o, in subordine, la sussistenza di una ipotesi di interposizione illecita di manodopera, motivando la sua domanda sulla base dell’esercizio dei poteri direttivi da parte, tanto, del datore di lavoro formale, quanto, dei figli di quest’ultimo con conseguenze sia in ordine alla legittimità dell’atto di recesso operato dal datore di lavoro formale sia in relazione alla legittimità dei contratti a termine intercorsi con lo stesso.

In dettaglio, la lavoratrice deduceva di aver prestato la propria attività lavorativa, senza soluzione di continuità, in forza di una pluralità di contratti a tempo determinato, svolgendo la mansione di amministratrice dei beni di famiglia, con modalità e in un luogo differente rispetto a quelli espressamente concordati, e ricevendo altresì le direttive da parte di una pluralità di soggetti.

Sulla base delle risultanze documentali e della escussione dei testimoni, il giudice romano, nell’ accogliere il ricorso della lavoratrice, dichiarava la sussistenza, da un lato, di un rapporto di lavoro in codatorialità tra la madre (datrice di lavoro formale) ed i due figli e, dall’altro, di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con conseguente dichiarazione di inefficacia del licenziamento irrogato dal solo datore di lavoro formale in spregio anche della procedura ex art. 7 della l. 20 maggio 1970 n. 300.

La principale motivazione addotta dal Tribunale romano trae origine dalla giurisprudenza intervenuta in materia di individuazione degli elementi caratterizzanti il rapporto di lavoro subordinato in codatorialità, quali il contemporaneo svolgimento della prestazione lavorativa in favore di più datori di lavoro e l’impossibilità di individuare il soggetto nel cui interesse questa attività viene prestata, da cui deriverebbe, ai sensi dell’art. 1294 c.c., la responsabilità solidale di tutti i fruitori della prestazione lavorativa (cfr. ex multis App. Roma, 25 luglio 2022, n. 3046, in www.bdp.giustizia.it).

Tralasciando in questa sede le questioni relative al corretto inquadramento della prestazione resa dalla lavoratrice, alla legittimità dei contratti a termine e dell’atto di recesso, è opportuno soffermarsi preliminarmente sulle tematiche attinenti alla individuazione del datore di lavoro, con particolare focus circa la compatibilità dell’art. 2094 c.c. con la codatorialità ed i conseguenti effetti sul rapporto di lavoro.

Per tale ragione l’analisi deve anzitutto muovere dalle teorizzazioni operate dalla dottrina e dalla giurisprudenza nel contesto dei gruppi di imprese per poi calarle nelle ipotesi in cui la parte datoriale sia costituita da una pluralità di persone fisiche. In effetti, il superamento della relazione bilaterale tra il lavoratore ed un solo datore di lavoro, quale tratto caratterizzante il contratto di lavoro subordinato, rappresenta la principale conseguenza della crisi del modello organizzativo classico in favore dello sviluppo di modelli organizzativi frammentari e multidatoriali (per una più ampia ricostruzione del fenomeno si rinvia a Pizzuti, Codatorialità tipica e atipica nel rapporto di lavoro, in MGL, 4, 2019, pp. 877 e ss.).

Multidatorialità che va ad integrare una vera e propria ipotesi di codatorialità al ricorrere di due concorrenti condizioni: l’esercizio contemporaneo ed indistinto di tutti i poteri datoriali da parte di più soggetti e lo svolgimento della prestazione lavorativa nell’interesse condiviso di soggetti tra di loro distinti (cfr. Razzolini, Impresa di gruppo, interesse di gruppo e codatorialità nell’era della flexicurity, in RGL, 1, 2013, pp. 29 e ss.).

Da suddette preliminari considerazioni genera la problematica relativa alla imputazione del rapporto di lavoro e, dunque, alla verifica della persistente centralità della nozione di datore di lavoro quale soggetto su cui gravano le responsabilità che derivano dall’esercizio dei tipici poteri datoriali nei confronti del lavoratore subordinato (per una più ampia analisi della problematica v. per tutti Barbera, Trasformazioni della figura del datore di lavoro e flessibilizzazione delle regole del diritto, in DLRI, 2010, pp. 203 e ss.).

L’iniziale impostazione assunta dalla giurisprudenza in materia di gruppi di impresa, che aveva operato una distinzione tra unicità di impresa dal punto di vista economico e pluralità di soggetti dal punto di vista giuridico, non può che rappresentare il principio delle seguenti riflessioni (v. Cass., 20 dicembre 2016, n. 26346, in DeJure, 2017; in dottrina si rinvia a Greco, Dal “centro unitario di interessi” alla codatorialità nei gruppi di imprese. Il lento percorso della giurisprudenza, in GC.com, 27 maggio 2020). Anzitutto la più risalente giurisprudenza in materia di gruppi societari si era concentrata, almeno in una fase iniziale, sulla verifica delle frammentazioni fraudolente fra più società il cui preminente fine era quello della elusione delle norme imperative anche in materia di rapporti di lavoro (per una ricostruzione della evoluzione giurisprudenziale intervenuta in materia v. Cass., 9 gennaio 2019, n. 267).

La chiave di volta del sistema era rappresentata, in virtù della menzionata finalità fraudolenta, dall’esame dei comportamenti dei soggetti collegati non essendo sufficiente il solo collegamento economico-funzionale delle società del gruppo a far venir meno l’autonomia delle singole società dotate di distinta personalità giuridica. In dettaglio, per potersi realizzare l’estensione degli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro anche nei confronti di altre società del medesimo gruppo era necessaria, non solo, la verifica circa il collegamento economico-funzionale tra le società, ma anche, la simulazione o la preordinazione in frode alla legge del frazionamento di una sola attività tra una pluralità di soggetti. La positiva analisi dei due caratteri aveva quale conseguenza il riconoscimento di un unitario centro di imputazione del rapporto di lavoro (cfr. Cass., 6 aprile 2004, n. 6707).

Solo successivamente la giurisprudenza, ampliando il proprio raggio di indagine, aveva delineato i tratti caratterizzanti l’unitario centro di imputazione, senza scomodare la prova relativa all’elemento soggettivo dell’intento fraudolento, tra cui: 1) presenza di una unica struttura organizzativa e produttiva; 2) integrazione tra interesse comune del gruppo e attività esercitata dalle varie società facenti parte dello stesso; 3) coordinamento economico e funzionale tra le società da cui potesse evincersi la presenza di un unico soggetto direttivo in grado di indirizzare le attività esercitate dalle singole società verso la realizzazione dell’interesse comune del gruppo; 4) utilizzazione contemporanea e indistinta della prestazione lavorativa da parte delle varie società (v. ex multis Cass., 15 maggio 2006, n. 11107, in Dir. lav., 2006, III, 2, pp. 169 e ss., con nota di Timellini).

Dalla breve ricognizione effettuata emerge ictu oculi come le prime prospettazioni di derivazione giurisprudenziale avessero ad oggetto i soli gruppi di imprese non genuini in cui il rapporto di lavoro era, in realtà, imputabile ad un solo effettivo datore di lavoro e la creazione del gruppo era unicamente diretta ad escludere l’applicazione di norme imperative di legge.

La prospettiva di indagine supra delineata si è in parte modificata a partire dalla nota pronuncia resa dalla Corte di Cassazione nel 2003 (Cass., 24 marzo 2003, n. 4274) che, recuperando un suo risalente orientamento (Cass., 6 novembre 1982, n. 5825, in OGL, 1983, pp. 1255 e ss.), ha ritenuto possibile la sussistenza di un unico rapporto di lavoro – tanto nell’alveo dei gruppi di imprese genuini che al di fuori dei gruppi – benché imputabile a due distinti datori di lavoro in presenza di una prestazione indivisibile sia in relazione ai profili attinenti all’orario di lavoro quanto a quelli relativi alle altre modalità di esecuzione dell’attività lavorativa tale che non fosse possibile individuare il soggetto nel cui interesse questa attività fosse prestata. Con la citata pronuncia (Cass., 24 marzo 2003, n. 4274, cit.), in realtà, la giurisprudenza di legittimità ha compiuto un ulteriore passo in avanti, impiegando per la prima volta il termine codatorialità per identificare le ipotesi di contitolarità del contratto di lavoro a cui conseguiva il riconoscimento della responsabilità solidale tra tutti i datori di lavoro.

Infine, un ultimo tassello è rappresentato dalle recenti sentenze intervenute in materia di licenziamento (Cass., 9 gennaio 2019, n. 267, cit. e Cass., 3 dicembre 2019, n. 31519, in GC.com, 27 maggio 2020, con nota di Greco) ove, andando oltre il concetto di unitario centro di imputazione dei rapporti di lavoro, è stata formulata una definizione di codatorialità da intendersi quale inserimento del lavoratore nell’organizzazione del datore di lavoro nonché la condivisione dello stesso al fine di soddisfare l’interesse del gruppo mediante l’esercizio, da parte di ognuna società del gruppo, dei poteri datoriali.

Da ciò si evince come, mentre i primi tre indici sintomatici della frode così come individuati dalla giurisprudenza – quali l’unicità della struttura organizzativa e produttiva; la direzione alla realizzazione del comune interesse del gruppo; il coordinamento tecnico e amministrativo finanziario –, concorrono ancora oggi ad integrare la nozione di direzione e coordinamento di cui all’art. 2497 c.c., così come interpretata anche alla luce della giurisprudenza europea (v. ex multis C. giust., 10 aprile 2014, in cause riunite C-247/11 P e C-253/11, Areva Sa et al., in FI, 2014, 11, IV, pp. 534 e ss., con nota di Casoria, Romano; C. giust., 18 luglio 2013, causa C-501/11, Schindler Holding Ltd, in GC, 2013, 9, I, pp. 1619 e ss.), solo l’ultimo elemento – l’utilizzazione contemporanea e promiscua del lavoratore da parte di più società – consente di qualificare le diverse società del gruppo quali codatrici del medesimo lavoratore.

La delineata giurisprudenza in materia di gruppi societari e codatorialità si era già formata nel periodo antecedente all’entrata in vigore del d.l. 28 giugno 2013, n. 76, convertito con modificazioni dalla l. 9 agosto 2013, n. 99, mediante cui è stato aggiunto all’art. 30 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, il comma 4-ter ove, nella sua seconda parte, viene chiarito che tra le aziende che abbiano sottoscritto un contratto di rete è ammessa la codatorialità dei dipendenti «ingaggiati con regole stabilite attraverso il contratto di rete stesso» (in materia si rinvia a Alvino, Il lavoro nelle reti di imprese: profili giuridici, Giuffrè Editore, 2014, pp. 56 e ss.).

Pertanto, nell’ordinamento sono attualmente presenti due distinte nozioni di codatorialità: la prima, atipica, che affonda le sue radici nella alluvionale giurisprudenza intervenuta in materia di gruppi societari, la seconda, di derivazione legislativa ed ancorata alle vicende delle reti di imprese.

Sebbene, quantomeno in relazione alla seconda, sia arduo parlare di una vera e propria nozione di codatorialità data la scarna normativa di riferimento, la presenza di due distinte basi giuridiche ed elementi caratterizzanti, rende necessaria una sommaria analisi dell’istituto della codatorialità nell’alveo delle reti di imprese al fine di individuare eventuali profili di continuità e/o discontinuità rispetto agli approdi giurisprudenziali in materia di gruppi di società e, infine, alle ipotesi di codatorialità in cui il datore di lavoro sia costituito da una pluralità di persone fisiche.

Ancora una volta il ragionamento non può che muovere dai criteri di individuazione del centro di imputazione dei rapporti di lavoro nell’alveo, questa volta, delle reti di imprese. Recuperando i risultati raggiunti dalla giurisprudenza in materia di rapporto di lavoro multidatoriale e realizzando una sintesi tra le differenti linee interpretative prospettate, possiamo constatare come il preminente elemento che ci consente di individuare le figure datoriali è rappresentato dalla verifica dell’esercizio dei relativi poteri in presenza di una genuina interdipendenza tra le differenti organizzazioni per il raggiungimento di un risultato comune. Interdipendenza che nei gruppi di imprese si realizza mediante la valorizzazione della direzione e coordinamento ex art. 2497 c.c. e nelle reti di imprese attraverso il programma comune di rete (art. 3, comma 4-ter, del d.l. 10 febbraio 2009, n. 5 convertito con modificazioni dalla l. 9 aprile 2009, n. 33).

Bisogna, però, procedere con ordine.

La mancata regolamentazione della codatorialità e, dunque, l’assenza di precise indicazioni circa le sue principali caratteristiche anche all’interno della menzionata normativa del 2013 ne rende ardua la sua qualificazione con non poche conseguenze in ordine alla ripartizione dell’esercizio dei poteri e dei conseguenti obblighi derivanti dal contratto di lavoro (Greco, Il rapporto di lavoro nell’impresa multidatoriale, Giappichelli, 2017). Una risposta a questa problematica si rinviene dalla lettura sistematica della disciplina in materia di contratti di rete.

La valorizzazione del programma comune di rete, quale «ragione di esistenza e modello di sviluppo della rete» (Pizzuti, Codatorialità tipica e atipica nel rapporto di lavoro, cit., p. 893), sembrerebbe consentire l’accoglimento delle due dicotomiche teorizzazioni circa la qualificazione della codatorialità di cui all’art. 30, comma 4-ter, d.lgs. 276/2003.

La prima da intendersi quale pluralità di rapporti obbligatori scaturenti dall’esercizio dei poteri datoriali: tante sono le imprese retiste che esercitano i poteri quanti sono i rapporti obbligatori accessori collegati al rapporto principale in virtù della presenza del contratto di rete. Sulla base di questa lettura la codatorialità dovrebbe qualificarsi come impiego, da parte di tutte le retiste che esercitano i poteri datoriali, del lavoratore per il raggiungimento del programma di rete pur in assenza di una contitolarità del rapporto (Maio, Contratto di rete e rapporto di lavoro: responsabilità disgiunta, derogabilità dello statuto protettivo e frode alla legge, in ADL, 2016, pp. 780 e ss.).

La seconda, invece, volta a identificare nella codatorialità una vera e propria ipotesi di contitolarità dei rapporti lavorativi con conseguente applicazione della disciplina in materia di obbligazioni solidali di cui all’art. 1294 c.c. (M.T. Carinci-Emiliani, Interposizione nei rapporti di lavoro, in EGT, 2017).

Infatti, in assenza di una precisa qualificazione normativa e muovendo dalla verifica del concreto atteggiarsi dell’esercizio dei poteri nell’alveo del singolo contratto di rete, la centralità del programma comune di rete e le specifiche regole di ingaggio contenute nel contratto consentono di ritenere configurabile ambedue le ipotesi sopra prospettate: pluralità di rapporti obbligatori accessori o contitolarità dei rapporti lavorativi senza dover necessariamente prediligere una delle due prospettazioni.

Pertanto, tre sono gli elementi che caratterizzano la codatorialità tipica: la sua attivazione nell’ambito delle reti di imprese, la presenza di specifiche regole di ingaggio all’interno del contratto di rete, la cui effettiva attuazione ha quale conseguenza la relativa qualificazione in termini di contitolarità o pluralità di distinti rapporti obbligatori, e la accettazione delle regole da parte del lavoratore, quale soggetto terzo rispetto al contratto di rete (v. Biasi, Dal divieto di interposizione alla codatorialità: le trasformazioni dell’impresa e le risposte dell’ordinamento, in Zilio Grandi-Biasi (a cura di), Contratto di rete e diritto del lavoro, Wolters Kluwer, 2014).

Ragionando in questi termini si realizza un mutamento della prospettiva di indagine, in quanto la codatorialità non si limita a rappresentare uno strumento rimediale all’impiego dello stesso lavoratore da parte di una pluralità di datori di datori di lavoro quanto, piuttosto, una facoltà introdotta dal legislatore, nel solo alveo delle reti di imprese, volta a rendere più snella la gestione dei rapporti di lavoro tra una pluralità di soggetti che, sulla base delle regole di ingaggio contenute nel contratto di rete, possono essere qualificati quali veri e propri datori di lavoro sostanziali – sussistendone i presupposti – o, in alternativa, sono legittimati ad impiegare il lavoratore sulla base di una pluralità di distinti rapporti obbligatori.

Da questa sommaria ricostruzione è dunque possibile evincere il principale tratto distintivo tra la codatorialità atipica, di derivazione giurisprudenziale, e la codatorialità tipica di cui al menzionato art. 30, comma 4-ter: la qualificazione unanime della prima fattispecie quale ipotesi di vera e propria contitolarità del rapporto lavorativo con conseguente previsione del principio espresso dall’art. 1294 c.c. in virtù del quale tutti i fruitori della prestazione lavorativa rispondono solidalmente delle obbligazioni scaturenti da quel dato rapporto di lavoro in una prospettiva di stampo prettamente rimediale.

La differente qualificazione della codatorialità nei termini sopra rappresentanti non costituisce del resto un mero esercizio di stile, in quanto ripercuote i suoi concreti effetti sulla gestione e regolamentazione dei rapporti di lavoro dalla stessa interessati. Mentre, infatti, come più volte sottolineato, la qualificazione della codatorialità in termini di contitolarità consente l’applicazione della regola generale della responsabilità solidale, andando a realizzare una obbligazione soggettivamente complessa dal lato datoriale (v. Villa, Codatorialità e (in)certezza del diritto, in VTDL, 2019, 4, pp. 1201 e ss.), il riconoscimento di una pluralità di distinti rapporti lavorativi fa sì che ciascuno dei titolari risponda delle obbligazioni scaturenti dal singolo rapporto di lavoro. Per cui alla presenza di una pluralità di datori di lavoro, che dirigono la prestazione lavorativa, consegue la pluralità di rapporti lavorativi, ciascuno dei quali sarà soggetto alla propria regolamentazione (v. Alvino, La condivisione delle prestazioni di lavoro tra imprese stipulanti il contratto di rete, in q. Riv., 2018, 5, pp. 517 e ss.).

La questione concernente gli effetti della codatorialità sui rapporti di lavoro interessati dalla stessa sembrerebbe ulteriormente complicarsi nelle ipotesi di impiego della codatorialità/contitolarità nell’alveo delle reti di imprese, dal momento che la relativa disciplina è rimessa alle previsioni contenute nel medesimo contratto di rete. Da qui deriva l’interrogativo circa la possibilità di escludere o limitare pattiziamente la regola generale della responsabilità solidale dei codatori.

Esclusione o parziale limitazione che non può trovare accoglimento sul presupposto che le obbligazioni nascenti dal rapporto di lavoro derivano da norme inderogabili di legge e, pertanto, la loro modifica in peius non è consentita neppure in presenza del consenso del lavoratore alle regole di ingaggio contenute nel contratto di rete. Queste regole possono disciplinare le modalità di esercizio dei poteri datoriali da parte delle imprese retiste ma non anche intervenire sulla solidarietà, in quanto principale strumento di tutela del lavoratore in presenza di un rapporto di lavoro multidatoriale (v. Alessi, Contratto di rete e regolazione dei rapporti di lavoro, in M.T. Carinci (a cura di), Dall’impresa a rete alle reti d’impresa. Scelte organizzative e diritto del lavoro, Giuffrè, 2015, pp. 85 e ss.).

Dopo aver passato in rassegna l’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale in materia di codatorialità e prima di interrogarci sull’impiego di questo strumento al di fuori delle reti di imprese e, per quel che ci occupa, in presenza di una pluralità di datori di lavoro persona fisica, è bene soffermarsi sulla compatibilità – o meno – della codatorialità con la nozione di rapporto di lavoro subordinato ex art. 2094 c.c.

Punto di partenza è, dunque, la definizione del sintagma “lavoratore subordinato” offerta dal codice civile, come colui il quale presta la propria attività alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore, da cui si evince la sussistenza del rapporto bilaterale intercorrente tra questi due soggetti. Bilateralità confermata dalle stesse Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. civ., sez. un., 26 ottobre 2006, n. 22910, in DRI, 2007, II, 2, pp. 503 e ss. con nota di Del Punta) che, nel pronunciarsi in una controversia alla quale trovava applicazione ratione temporis la legge 23 ottobre 1960, n. 1369, hanno colto l’occasione per enunciare un principio di diritto compatibile anche con il nuovo sistema di tutele, in virtù del quale nel nostro ordinamento continuano ad essere vietate ipotesi di dissociazione tra datore di lavoro formale e datore di lavoro sostanziale tipiche della interposizione illecita di manodopera (v. Speziale, Il datore di lavoro nell’impresa integrata, in WP D’Antona, It, 2010, 94).

Pur volendo accogliere l’interpretazione resa dalle Sezioni Unite va, da un lato, evidenziato che la nozione di rapporto di lavoro subordinato non può considerarsi ontologicamente incompatibile con quella di codatorialità (sono del resto ammesse dallo stesso codice civile obbligazioni soggettivamente complesse) e, dall’altro, che l’evoluzione normativa in materia ha portato all’introduzione, nel 2013, di una ipotesi di codatorialità che si colloca in una dimensione differente rispetto a quella della interposizione illecita di manodopera. In questa fattispecie sono, infatti, le retiste, sulla base delle prescrizioni contenute nel contratto di rete, a poter ingaggiare lavoratori in codatorialità (pur con tutte le incognite in ordine alla disciplina applicabile a suddetti rapporti di lavoro).

Con ciò non intendo sostenere una incondizionata compatibilità tra la codatorialità e la nozione di cui all’art. 2094 c.c. quanto, piuttosto, che nella valutazione debbano essere tenute distinte le due fattispecie: quella atipica, costruita sulla base delle vicende legate ai gruppi di imprese e difficilmente conciliabile con il modello bilaterale che caratterizza il rapporto di lavoro di derivazione codicistica e quella tipizzata e speciale, introdotta dal legislatore anche al fine di incentivare l’utilizzo dei contratti di rete all’interno dell’ordinamento nazionale. Sebbene ambedue le fattispecie possano essere ricostruite sulla base di una pluralità di rapporti di lavoro intercorrenti tra il singolo lavoratore e la molteplicità dei datori di lavoro, non possono escludersi ipotesi in cui la codatorialità, così come configurata nel contratto di rete, assuma i caratteri di una vera e propria contitolarità dei rapporti lavorativi.

Suddette riflessioni sono funzionali a comprendere l’iter argomentativo seguito dal Tribunale di Roma nelle motivazioni articolate nella sentenza in commento. Va anzitutto segnalato che la pronuncia si caratterizza per aver realizzato un passo indietro rispetto ai recenti approdi giurisprudenziali e normativi dal momento che l’impiego della codatorialità atipica risponde – ancora una volta – all’esigenza di tutela del lavoratore nella patologica ipotesi di impiego della prestazione lavorativa da parte di una pluralità di soggetti. L’utilizzo dello strumento della codatorialità è stato, infatti, funzionale a risolvere a valle il problema della individuazione del centro di imputazione del rapporto lavorativo in presenza dell’esercizio dei poteri datoriali da parte di tre distinti “datori di lavoro”.

Due sono le principali problematiche conseguenti all’impiego della codatorialità atipica nella controversia sottoposta all’attenzione del giudice romano. In primo luogo, pur volendo aderire alla tesi che ritiene compatibile la nozione di rapporto di lavoro subordinato con la codatorialità, nel caso di specie mancherebbe in concreto uno dei due elementi caratterizzanti questo istituto, così come ricostruito ad opera della giurisprudenza: la eterodirezione della prestazione al fine della realizzazione dell’interesse comune di cui dovrebbero essere portatori i datori di lavoro. Interesse che, sebbene non dovrebbe assumere alcuna rilevanza nell’alveo del rapporto di lavoro subordinato – ove l’accertamento circa il corretto adempimento della prestazione lavorativa avviene sulla base del rispetto delle direttive impartite – viene a rappresentare il tratto caratterizzante la codatorialità. In effetti la mera utilizzazione della prestazione lavorativa da parte di una pluralità di datori di lavoro non è sufficiente a configurare una vera e propria codatorialità dello stesso e, ancor meno, una ipotesi di contitolarità.

Come in precedenza chiarito per i gruppi e le reti di imprese la realizzazione dell’interesse comune è in re ipsa derivando, nel primo caso, dalla direzione e coordinamento di cui all’art. 2497 c.c. e, nel secondo, dal programma comune della rete. Nel caso di specie l’unitario interesse non può fondarsi sulla mera gestione di beni intestati ad uno, o più di uno, dei datori di lavoro dal momento che ognuno di questi avrebbe potuto aver a mente un obiettivo “imprenditoriale” differente. Al più al riconoscimento di un rapporto di lavoro in codatorialità sarebbe potuto conseguire, nel caso di specie, l’accertamento di una pluralità di rapporti di lavoro tra loro distinti e intercorrenti tra la lavoratrice e ciascuno dei singoli datori di lavoro sostanziali.

In secondo luogo, il medesimo effetto di tutela si sarebbe potuto realizzare accogliendo la domanda formulata dal ricorrente in via subordinata, relativa al riconoscimento di una ipotesi di interposizione illecita di manodopera dei due fratelli rispetto al datore di lavoro formale. Così ragionando – anche sulla base della previsione di cui all’art. 38 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 18 così come modificato dal d.l. 19 maggio 2020, n. 34 convertito con modificazioni dalla l. 17 luglio 2020, n. 77 – la lavoratrice avrebbe puto, da un lato, richiedere il riconoscimento del rapporto di lavoro subordinato in capo agli effettivi utilizzatori della prestazione a decorrere dalla data di stipulazione del primo contratto a tempo determinato e, dall’altro, la declaratoria di illegittimità del licenziamento nei confronti dell’interposto (sul punto v. Cester, Fenomeni interpositori e imputazione degli atti di gestione del rapporto di lavoro: un recente intervento normativo, in RIDL, 2021, 2, pp. 147 e ss.).

Roberta Rainone, assegnista di ricerca nella Sapienza Università di Roma

Visualizza il documento: Trib. Roma, 22 febbraio 2024, n. 2233

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