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Ancora sul periodo di comporto dei lavoratori con disabilità: questioni aperte in attesa di una contrattazione collettiva specifica

15 Febbraio 2025|

1. Orientamenti giurisprudenziali in tema di comporto del lavoratore con disabilità. 2. Conoscenza o conoscibilità dello status di disabilità: onere di cooperazione tra le parti. 3. La necessaria disciplina “esplicita” dei contratti collettivi in merito al comporto del disabile, al preavviso della scadenza del comporto e alla previsione dell’aspettativa non retribuita.

1. Orientamenti giurisprudenziali in tema di comporto del lavoratore con disabilità

Le pronunce in commento (Cass., ordinanza, 7 gennaio 2025, n. 170 e Trib. Roma, 3 dicembre 2024, n. 12377) si segnalano per confermare e approfondire quell’indirizzo interpretativo in base al quale l’applicazione del periodo di comporto ordinario al lavoratore con disabilità costituisce una forma di discriminazione indiretta.

In particolare, la Cassazione, in riferimento alla tematica già evidenziata in dottrina relativa alla difficoltà per il datore di lavoro di avere contezza dello status di salute del proprio dipendente e quindi di stabilire una connessione tra l’assenza per malattia e l’eventuale disabilità del lavoratore, afferma un “onere datoriale” di acquisire informazioni al fine di individuare possibili accorgimenti ragionevoli.

I casi di specie attengono a due lavoratori malati oncologici con disabilità accertata e certificata, il cui licenziamento per superamento del periodo di comporto uguale a quello di un lavoratore non disabile è stato dichiarato nullo per discriminazione indiretta.

Tali sentenze si inseriscono nel solco della giurisprudenza di legittimità (Cass. 21 novembre 2024, n. 30095; Cass. 6 settembre 2024, n. 24052; Cass. 5 giugno 2024, n. 15723, in Riv. Giur. lav., 2024, p. 397 con nota di M.D. FERRARA, Disabilità e comporto, dalla conservazione alla protezione del posto di lavoro: spunti per un ragionevole bilanciamento; Cass. 31 maggio 2024, n. 15282; Cass. 23 maggio 2024, n. 14402; Cass, 22 maggio 2024, n. 14316; Cass. 2 maggio 2024, n. 1742; Cass. 21 dicembre 2023, n. 35747, in www.rivistalabor.it, 22 febbraio 2024, con nota di da M. SALVAGNI, Corte di Cassazione 21 dicembre 2023 n. 35747: malattia collegata all’handicap, discriminazione indiretta e nullità del licenziamento del disabile per superamento del comporto; Cass. 31 marzo 2023, n. 566 in Lav. prev. oggi News, 22 gennaio 2024, con nota di M. DIANA, Il superamento del periodo di comporto e la discriminazione indiretta del lavoratore disabile: spunti interpretativi ed ipotesi alternative) inaugurato con la Cass. n. 9095 del 2023 (Cass. 31 marzo 2023, n. 9095 in Riv. it. dir. lav., 2023, II, p. 254 con nota di A. DONINI, L’applicazione indistinta del comporto è discriminatoria se la malattia è riconducibile a disabilità), decisione con un’evidente finalità nomofilattica.

Secondo questo orientamento costituisce discriminazione indiretta, ai sensi dell’art. 2, comma 2, lett. b) della Direttiva 2000/78/CE, applicare il medesimo periodo di comporto dei lavoratori non disabili ai lavoratori disabili, in quanto quest’ultimi sarebbero statisticamente più esposti al rischio di maggiore morbilità, senza contare che buona parte delle loro assenze potrebbero proprio essere conseguenti a malattie connesse allo stato di disabilità. Il che trasmuta il criterio, apparentemente neutro, dell’identico comporto, in una prassi discriminatoria nei confronti di soggetti in posizione di particolare svantaggio (per una ricostruzione degli orientamenti giurisprudenziali, v. M. SALVAGNI, Il “prisma” delle soluzioni giurisprudenziali in tema di licenziamento del disabile per superamento del comporto: discriminazione indiretta, clausole contrattuali nulle, onere della prova e accomodamenti ragionevoli, in Lav. prev. oggi, 2023, n. 3-4, pp. 215-242; v. anche F. RAVELLI, Licenziamento di lavoratori disabili per superamento del periodo di comporto e diritto antidiscriminatorio, in Labor, 2023, 3, p. 312 ss.).

Siffatta impostazione non ha mancato di suscitare dubbi interpretativi soprattutto in riferimento alla disabilità “di fatto”, (sia consentito rinviare a G. DELLA ROCCA, Determinazione del periodo di comporto del disabile “di fatto”: contrattazione collettiva carente e giurisprudenza allo sbaraglio, in Riv. It. Dir. Lav., 2024, n. 1, pp. 127-155) ossia non preventivamente certificata ma accertata successivamente in sede giudiziale. Non mancano infatti sentenze in cui la disabilità viene riconosciuta ex post al lavoratore in quanto affetto da una patologia di lunga durata che comporta una minorazione psicofisica idonea a ostacolare la sua partecipazione in condizioni di parità alla vita professionale.

A ben vedere la nozione di disabilità ha subito una vis espansiva grazie all’elaborazione del modello “bio-psico-sociale” da parte della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, nell’interpretazione della Direttiva 2000/78/CE, che pone in rilevo la condizione patologica di lunga durata in relazione alla limitazione alla vita socio-professionale che ne consegue (per i casi di malattie gravi, di lunga durata, invalidanti, assimilate al concetto di disabilità euro-unitario cfr. per un carcinoma alla mammella, Cass. 5 giugno 2024, n. 15723, per un caso di doppia neoplasia linfoproliferativa cronica, Cass. 2 maggio 2024, n. 11731, in www.rivistalabor.it, 26 luglio 2024, con nota di G. ZAMPIERI, Comporto, disabilità, accomodamenti ragionevoli. Due “nuovi” casi di licenziamento del lavoratore con disabilità per superamento del periodo di comporto ordinario, per un caso di gonalgia bilaterale, Trib. Rovereto 30 novembre 2023 n. 44, in Arg. Dir. Lav., 2024, p. 623, con nota di V. MIRAGLIA, Le certezze non appartengono a questo mondo: il comporto e la disabilità).

La Corte di Giustizia ha, infatti, nel tempo cambiato la sua posizione sul concetto di malattia e disabilità a partire dalla sentenza Chacon Navas, (11 luglio 2006, causa C-13/05) che, basandosi su un modello c.d. biomedico escludeva la possibilità di assimilare i due concetti, fino alle sentenze HK Danmark (11 aprile 2013, cause C-335/11 e C-337/11), Kaltoft (18 dicembre 2014, causa C-354/13)  Daouidi (1 dicembre 2016, causa C-395/2015) e Ruiz Conejero, (18 gennaio 2018, causa C-270/16) in cui, avvalendosi di un modello c.d. bio-psico-sociale, tendono ad equiparare le malattie con limitazioni a lungo termine con la disabilità (per una ricostruzione sistematica del concetto giuridico di disabilità attraverso le posizioni della Corte di Giustizia si a consentito rinviare a G. DELLA ROCCA, La malattia del lavoratore subordinato tra vecchie e nuove tutele, Giappichelli, 2024, p. 14 e ivi per riferimenti).

Nozione, questa, ora accolta dal nostro legislatore nel d.lgs. 62/2024, all’art. 2, comma 1, lett. a), terzo decreto attuativo della legge delega sulla disabilità n. 227/2021 (cfr. M. DE FALCO, Ragionando attorno alla legge delega in materia di disabilità: una prospettiva giuslavoristica, in Resp. Civ. prev., 2022, n. 5, p. 1738 ss.; M.G. ELMO, Condizione di disabilità e stato di salute del lavoratore alla luce del decreto legislativo n. 62 del 2024, in Dir. Sic. Lav., 2025, n. 1, p. 58), che ricomprende ormai qualsiasi compromissione fisica, psicologica, mentale o sensoriale di lunga durata che comporti delle limitazioni rispetto all’ambiente in cui il lavoratore è inserito.

E quindi, secondo l’orientamento prevalente, in linea con la Corte di Giustizia, non rileva che la disabilità non sia stata riconosciuta formalmente a monte (ai sensi della l. 104/1992 e della l. 68/1999, come modificate dal d.lgs. n. 62 del 2024), attraverso un procedimento di valutazione affidato all’Inps o, ancora, non rientri nelle varie definizioni di inidoneità o inabilità dettate da discipline settoriali di diritto interno, ma le viene riconosciuta una rilevanza obiettiva per il sol fatto della ricorrenza di un’effettiva menomazione psico-fisica di lunga durata, che può essere acclarata anche ex post attraverso le certificazioni mediche prodotte dal lavoratore in giudizio, una sorta di “disabilità di fatto giudiziale”.

2. Conoscenza o conoscibilità dello status di disabilità: onere di cooperazione tra le parti

Così posta, la questione solleva non poche problematiche per una corretta gestione del rapporto di lavoro da parte del datore di lavoro. È noto, infatti, che il datore di lavoro non sempre è a conoscenza dello status di disabilità del proprio dipendente, in particolare se la disabilità è dovuta ad patologia cronica che causa l’assenza dal lavoro, poiché nel certificato di malattia a lui diretto viene generalmente indicata solo la prognosi, mentre della diagnosi ne è a conoscenza solo l’Inps (v. F. NARDELLI, Il difficile bilanciamento tra tutela della disabilità e della privacy, in Var. temi dir. lav., 2023, n. 4, pp. 1051-1067; G. DELLA ROCCA, La malattia del lavoratore subordinato tra vecchie e nuove tutele, cit., p. 138).

Tale circostanza assume rilievo sotto un duplice aspetto: non solo riguardo all’applicazione di un periodo di comporto differenziato ma anche per quanto attiene all’adempimento dell’obbligo di accomodamenti ragionevoli ex art. 3, comma 3 bis, del d.lgs. n. 216/2003 (in generale, v. D. GAROFALO, La tutela del lavoratore disabile nel prisma degli accomodamenti ragionevoli, in Arg. dir. lav., 2019, p. 1211-1247) e da ultimo disciplinati anche all’art. 17 del d.lgs. n. 62/2024 (su cui, F. PACIFICO, Accomodamenti ragionevoli per il lavoro delle persone con disabilità: innovazioni legislative e orientamenti giurisprudenziali, in Dir. merc. lav., 2024, p. 557).

E’ evidente che, anche qualora il contratto collettivo preveda un comporto prolungato o lo scomputo delle assenze collegate alla patologia cronica sottesa alla disabilità, affinché il datore sia in grado di effettuare un calcolo corretto delle assenze, deve essere messo al corrente della patologia da cui è affetto il lavoratore, configurandosi, pertanto, a carico del lavoratore, l’onere, finalizzato al conseguimento di un trattamento a lui favorevole, di condividere l’informazione relativa alla diagnosi della sua patologia. I datori di lavoro, quindi, devono ora porsi domande che non si sarebbero mai posti con riferimento ai propri dipendenti assenti per malattia. Prima bastava solo fare bene i conti. Ora hanno bisogno di una “diagnosi” o quanto meno di essere informati sullo status di salute del proprio dipendente assente per malattia (A. PILEGGI, Relazione Aidlass su Diritto antidiscriminatorio e trasformazioni del lavoro, Messina, 23-25 maggio 2024, datt.).

Lo stesso problema si pone per quanto riguarda l’obbligo che grava sul datore di lavoro di predisporre accomodamenti ragionevoli nei casi di disabilità non “certificata” ma “di fatto”, conseguente quindi a patologie croniche, che creino delle limitazioni alla vita sociale e professionale del lavoratore (in tal senso, cfr. Trib. Bologna 19 maggio 2022, n. 230; Trib. Vicenza 27 aprile 2022, n. 181; Trib. Rovereto 8 marzo 2022, n. 16; App. Palermo 14 febbraio 2022, n. 111; Trib. Venezia ord. 7 dicembre 2021, n. 6273; App. Torino 3 novembre 2021, n. 604. Sul punto, v. F. AVANZI, Il licenziamento discriminatorio per superamento del “comporto”: la nozione di handicap e la “conoscenza” del datore di lavoro, in www.rivistalabor.it, 27 giugno 2022; F. NARDELLI, Il difficile bilanciamento tra tutela della disabilità e della privacy, in Var. temi dir. lav., 2023, n. 4, pp. 1051-1067).

A ben vedere, il presupposto per qualsivoglia accomodamento ragionevole dovuto dal datore di lavoro, inteso quale “comportamento attivo di modifica dello status quo (v. M. BARBERA, Le discriminazioni basate sulla disabilità, in ID. (a cura di), Il nuovo diritto antidiscriminatorio, Milano, 2007, pp. 80-81) che implica un facere, un obbligo di contenuto positivo, è senza dubbio la conoscenza o conoscibilità dello stato di disabilità del proprio dipendente (cfr. Cass. 22 maggio 2024, n. 14316, in Riv. Giur. lav., 2024, p. 397; Trib. Bologna 19 maggio 2022, n. 230; Trib. Vicenza 27 aprile 2022, n. 181, in Riv. it. dir. lav., 4, 2022, p. 595, con nota di F. COPPOLA, La natura discriminatoria del licenziamento del dipendente disabile per superamento del comporto: una questione tutt’altro che risolta; App. Torino 3 novembre 2021, n. 604, in Bollettino Adapt, 10 gennaio 2022, n.1, con nota di F. UBERTIS, Licenziamento per superamento del comporto: trattamento differenziato per il dipendente invalido, , che qualifica l’onere di comunicazione “un principio di civiltà giuridica”, p. 2.

Su questo tema, cfr. A. CHIES, Il licenziamento della persona con disabilità per superamento del comporto. Riflessioni civilistiche in tema di conoscenza della condizione di disabilità, in Dir. lav. Rel. Ind., 2024, p. 299), “altrimenti l’operatività di quest’ultimo verrebbe vanificata e gli accomodamenti ragionevoli verrebbero ad assumere rilievo solo ed esclusivamente nella fase patologica della loro mancata adozione (così, R. BONO, Disabilità e licenziamento discriminatorio per superamento del periodo di comporto, in Lav. giur., 2023, n. 1, p. 30).

Una tale “soluzione non contrasta con la natura necessariamente obiettiva” (Cass. 5 aprile 2016, n. 6575, Cass. 31 marzo 2023, n. 9095) dei divieti di discriminazione, giacché la conoscibilità delle cause dell’assenza è requisito che appartiene, non all’apprezzamento dell’elemento soggettivo dell’agire datoriale, quanto piuttosto al piano della esigibilità obiettiva della condotta lecita”. Ed infatti, “una cosa è esonerare il lavoratore dalla difficile prova della altrui volontà di discriminarlo, altro è imputare al datore di lavoro la responsabilità per l’illeceità di un atto derivante da un fatto che ignora (v. G. FRANZA, Quando l’effettività genera paradossi. Sull’esclusione del periodo di comporto della malattia imputabile a disabilità, in Lav. giur., 2022, p. 65).

In termini di certezza del diritto, la disabilità è nota quando sia evidente e riconoscibile ovvero sia stata accertata e valutata nelle sedi competenti (ex L. 104 del 1992 e L. n. 68 del 1999, come modificate dal d.lgs. n. 62 del 2024), altrimenti in altre situazioni di disabilità “di fatto” (legate per lo più a malattie croniche), in cui la disabilità non sia stata acclarata, è condivisibile l’opinione di chi ritiene “improcrastinabile un intervento legislativo o delle parti sociali nell’individuare il punto di equilibrio tra tutela della privacy del lavoratore e tutela delle ragioni dell’impresa, entrambe rilette nel prisma delle clausole generali di correttezza e buona fede” (in tal senso, V. FILI’, Superamento del comporto di malattia e rischio di discriminazione indiretta per disabilità, in Giust. it., 2023, n. 10, p. 2150).

Se da una parte, nei casi di patologie connesse ad una situazione di invalidità riconosciuta, è stato sostenuto l’onere a carico del lavoratore di condividere l’informazione relativa allo status di disabilità collegata alla sua patologia col datore di lavoro semplicemente barrando la relativa casella presente nei certificati medici, (Trib. Vicenza 27 aprile 2022, n. 181; Corte app. Torino 3 novembre 2021, n. 604), dall’altra, in presenza di una disabilità non certificata ma “di fatto”, condivisibilmente (A. MARESCA, Disabilità e licenziamento per superamento del periodo di comporto, in Lav. dir. eur., n. 2, 2024, p. 7), si è ritenuto che sia sufficiente indicare nel certificato medico che si tratta genericamente di “malattia dovuta a disabilità”, senza necessità di diagnosi, per rispettare la privacy del lavoratore in ordine alla patologia di cui è affetto.

Orientamento, questo, a ben vedere, già applicato a determinati fini  nella Pubblica Amministrazione. Infatti, la Circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri n. 2 del 28/09/2010, sulla trasmissione telematica dei certificati e degli attestati medici per la giustificazione delle assenze per malattia, rileva che “esistono però alcune situazioni particolari in cui il datore ha necessità di conoscere la diagnosi” (nelle ipotesi di esenzione dalla decurtazione della retribuzione e dal regime della reperibilità ai fini della visita fiscale). “In queste situazioni, l’amministrazione è tenuta ad applicare il regime generale a meno che non abbia la documentazione che consenta di derogarvi ed è innanzitutto interesse del dipendente che si assenta che l’amministrazione abbia tutti gli atti necessari per applicare in maniera corretta la normativa di riferimento”.

Non si può, infine, non tenere in conto quanto previsto dall’art. 17 del d.lgs. n. 62/2024 in riferimento all’accomodamento ragionevole che è attivabile su istanza dello stesso lavoratore disabile, il quale partecipa alla sua individuazione, il che sottintende quanto meno l’elemento fondamentale della cooperazione tra le parti. Infatti, l’art. 17 del d.lgs. n. 62/2024, di attuazione della legge delega n. 227/2021, stabilisce che “la persona con disabilità (…) ha facoltà di richiedere, con apposita istanza scritta, (tra gli altri) ai soggetti privati l’adozione di un accomodamento ragionevole, anche formulando una proposta” e “partecipando al procedimento dell’individuazione dell’accomodamento ragionevole”.

Ciò trova riscontro nella sentenza della Cassazione in commento che si allinea al recente orientamento (Cass. 31 maggio 2024, n. 15282; Cass. 23 maggio 2024, n. 14402, in Riv. It. Dir. Lav. 2024, II, p. 376, con nota di S. BUOSO, Conferme sull’auspicata differenziazione collettiva del comporto del disabile e sull’”ineludibile” interlocuzione alla base degli accomodamenti ragionevoli; Cass. 22 maggio 2024, n. 14316) che riconosce proprio nel dialogo, nell’ “interlocuzione e il confronto tra le parti” una “fase ineludibile” della fattispecie complessa del licenziamento per superamento del comporto e il presupposto essenziale per adottare gli accomodamenti ragionevoli.

Viene inoltre affermato che il datore di lavoro può avere contezza della disabilità con l’ordinaria diligenza, in particolare, secondo Cass. n. 14402/2024, attraverso la sorveglianza sanitaria ex art. 41 del d.lgs. n. 81/2008 ovvero desumendola attraverso le certificazioni mediche e/o documentazione inviate dal dipendente in quanto sintomatiche di un particolare stato di salute costituente una situazione di handicap.

Tuttavia, come puntualmente osservato da Voza (R. VOZA, Eguaglianza e discriminazioni nel diritto del lavoro. Un profilo teorico, Relazione Aidlass, Messina, 23-25 maggio 2024, p. 55 datt.),  il fatto che si possa “fondatamente presumere che una malattia di lunga durata sia già di per sé sintomo rivelatore della sussistenza di una patologia duratura, tale da giustificare, secondo i canoni di correttezza e buona fede, l’attivazione del datore al fine di verificare se sussistano le condizioni in relazione alle quali sorge l’obbligo di accomodamento ragionevole (…)” è una mera presunzione “posto che non tutti i lavoratori che superano il periodo di comporto sono disabili”.

In definitiva, il recente indirizzo giurisprudenziale qui in commento, si evidenzia per aver messo in luce un onere di attivazione in capo al datore di lavoro il quale, prima di licenziare in applicazione dell’ordinario periodo di comporto, deve “interpellare” il lavoratore, “chiedere chiarimenti” (secondo il Trib. Roma 3 dicembre 2024, n. 12377) e “acquisire informazioni” sulla possibile connessione tra assenze per malattia e l’eventuale stato di disabilità del proprio dipendente. Da altra parte, il lavoratore non potrà adottare un “comportamento ostruzionistico” che impedirebbe il confronto necessario per la corretta gestione del rapporto di lavoro da parte del datore di lavoro.

E pertanto, nelle more di una normativa che è entrata in vigore in via sperimentale da gennaio di quest’anno e a pieno regime dal prossimo anno, datori di lavoro e lavoratori malati cronici con una “disabilità di fatto” avranno un onere di cooperazione e di informazione, onere indispensabile in quanto finalizzato alla corretta gestione del rapporto di lavoro, che sia l’applicazione di un periodo di comporto prolungato o l’adozione di un accomodamento ragionevole.

3. La necessaria disciplina “esplicita” dei contratti collettivi in merito al comporto del disabile, al preavviso della scadenza del comporto e alla previsione dell’aspettativa non retribuita

Ciò premesso, secondo i giudici eventuali norme di un contratto collettivo che prevedano un unico e indifferenziato periodo di comporto, senza distinzioni tra disabili e no, sarebbero nulle in quanto tacciate di discriminazione indiretta considerando che i lavoratori con disabilità sarebbero statisticamente più esposti al rischio di maggiore morbilità e che buona parte delle loro assenze potrebbero proprio essere dovute a malattie connesse allo stato di disabilità. E di conseguenza il licenziamento del lavoratore con disabilità, comminato in ragione del superamento di un periodo di comporto di uguale durata rispetto a quello dei lavoratori non disabili, sarebbe nullo in quanto discriminatorio, con conseguente applicazione del primo comma dell’art. 18 St. Lav. (nella versione aggiornata della l. 92/2012) nonché dell’art. 2 del d.lgs. n. 23/2015.

A ben vedere, sebbene la contrattazione collettiva già preveda dei periodi di comporto differenziati per alcune patologie croniche, tuttavia, le parti sociali, pur mostrando una dose di consapevolezza difronte alla gravità di talune patologie, intervengono ancora in maniera disomogenea e frammentata (v. S. CANAVESE, Lavoratori con patologie croniche e conservazione del posto di lavoro: le soluzioni presenti nella contrattazione collettiva, in Dir. rel. ind., 2, 2023, p. 515 ss.; S. SERVIDIO, Lavoratori disabili e periodo di comporto previsto dal Ccnl, in Dir. prat. lav., 2023, 38, p. 2253).

Infatti, alcuni contratti collettivi talvolta introducono un termine di comporto prolungato per i lavoratori affetti da determinate patologie croniche, altri escludono dal computo le assenze legate alle terapie salvavita o per ricovero connesso a patologie gravi. Inoltre, spesso fanno un riferimento generico a “gravi patologie”, in particolare malattie oncologiche o neurodegenerative, o a “utilizzo di terapie salvavita e assimilabili”, “effetti invalidanti temporanei o permanenti”, day hospital o ricoveri oppure specificano solo alcune patologie (per es. la sclerosi multipla, ictus, Aids conclamato) e non altre.

La Cassazione in commento, conforme ad un recente arresto giurisprudenziale (Cass. 6 settembre 2024, n. 24052), ha sottolineato che la contrattazione collettiva, per sottrarsi al rischio di trattamenti discriminatori a danno dei lavoratori con disabilità, deve disciplinare in “modo esplicito” la posizione di svantaggio del disabile, poiché non è sufficiente ad elidere detto rischio una disciplina negoziale che tenga conto solo del profilo oggettivo dell’astratta gravità o particolarità delle patologie, senza valorizzare anche l’aspetto soggettivo della disabilità.

A ben vedere, così ragionando, si corre il rischio di una iper-protezione del soggetto disabile (V. Filì, Superamento del comporto di malattia e rischio di discriminazione indiretta per disabilità, cit., p. 2150) poiché alla disabilità non si accompagna necessariamente la condizione di malato, neanche sul piano statistico. Sussistono, infatti, casi di disabilità che non hanno alcuna attinenza con una patologia progressiva o cronica del lavoratore, basti pensare ai ciechi o agli ipovedenti, ai sordomuti, ai soggetti privi di arti, ai minorati psichici o affetti da deficit cognitivo (T. Lodi 12 settembre 2022, n. 19 nega la discriminatorietà del licenziamento per superamento del comporto di una disabile ex l. 68/1999 poiché non ritiene che il disabile sia, per ciò stesso, maggiormente soggetto a malattia; Cass. 24 ottobre 2016, n. 21377 che, nel caso del licenziamento per superamento del periodo di comporto di un disabile ex l. 68 del 1999, esclude la natura discriminatoria del recesso).

Casi che non presentano un rischio di malattia superiore a quello del lavoratore standard, e non incorrono quindi in assenze per morbilità superiori alla normalità, e sarebbe, quindi, fallace declinare una sorta di aprioristica “fragilità” del lavoratore disabile (A. Maresca, Disabilità e licenziamento per superamento del periodo di comporto, cit., p. 5).

Da un’analisi dei casi giurisprudenziali, si evince che alcuni attengono ad una disabilità certificata ex l. 104/1992 o l. 68/1999, spesso conseguente a infortunio o malattia, altri riguardano ipotesi di disabilità “di fatto” causate da patologie croniche gravi, soprattutto oncologiche. Il discrimine quindi ai fini di una distinta durata del comporto non attiene tanto allo status di disabile in sé considerato ma alla particolarità della malattia (quale che sia, cronica, grave, curabile o incurabile) cui consegue una disabilità, nell’ampia accezione io-psico-sociale suddetta. In tali casi, la previsione di un differente computo delle assenze non è una questione di tutela antidiscriminatoria, ma di tutela della salute, cui è strumentale l’istituto del comporto che le parti sociali già prevedono differenziato per molte patologie gravi.

Inoltre, i periodi di comporto che l’art. 2110 c.c. rimette alla determinazione delle parti sociali sono già consistenti e non destinati certo alle malattie brevi, saltuarie o passeggere. Il Tribunale di Ravenna, infatti, con ordinanza del 4 gennaio 2024, (per un primo commento, L. LA PECCERELLA, Computabilità nel periodo di comporto delle assenze per patologia inabilitante, in Lav. dir. eru., n. 1, 2024) ha sollevato dubbi sulla necessità di stabilire una durata specifica del periodo di comporto per i disabili, rinviando alla Corte di Giustizia la questione in riferimento al CCNL Confcommercio, che prevede un comporto di 180 giorni senza distinguere tra lavoratori disabili e no, per contrasto con la Direttiva 2000/78.

Nonostante tali considerazioni, prendendo atto dell’ormai prevalente e costante orientamento della Cassazione e considerata la moltitudine e varietà di patologie gravi, croniche, esistenti, per evitare di lasciare senza protezione molte posizioni di particolare svantaggio del lavoratore, con conseguente difformità di applicazione in sede giudiziale, appare ormai inevitabile prevedere nei contratti collettivi una differenziazione specifica del periodo di comporto tra lavoratori con disabilità e non.

Una soluzione equilibrata è quella di assicurare il comporto prolungato (quello di durata maggiore già previsto) ai lavoratori con “disabilità” – che ricomprenda quindi ogni sorta di patologia psico-fisica di lunga durata che comporti una limitazione rispetto all’ambiente di lavoro in cui è inserito il lavoratore – cui affiancare un comporto “breve” per le malattie saltuarie e passeggere in cui incorrono la generalità dei lavoratori.

Altra questione attiene all’obbligo, da qualche giudice imputato al datore di lavoro come accomodamento ragionevole per il lavoratore con disabilità, di una comunicazione di altre nell’imminenza della scadenza del comporto allo scopo di pervenire ad un prolungamento dello stesso (Cass. 28 ottobre 2021, n. 30478; A. Roma 5 ottobre 2021, n. 3417 con nota di V. A. POSO, Superamento del periodo di comporto per malattia e buona fede del datore di lavoro, in www.rivistalabor.it, 17 gennaio 2022; T. Santa Maria Capua Vetere, 11 agosto 2019, n. 20012; Cass. 11 novembre 2020, n. 18960; Cass. 17 agosto 2018, n. 20761; Cass. 1° giugno 2015, n. 11314; Cass. 4 giugno 2014, n. 12563; Cass. 21 settembre 2011, n. 19234; Cass. 28 marzo 2011, n. 7037; Cass. 28 giugno 2006, n. 14891; Cass. 10 aprile 1996, n. 3351. Contra, A. Trento 9 marzo 2023, n. 8; T. Rovereto 30 novembre 2023, n. 44; Trib. Santa Maria Capua Vetere 11 agosto 2019) attraverso la fruizione di ferie (Cass. ord. 21 settembre 2023 n. 26997) o la richiesta di un’aspettativa non retribuita (Cass. ord. 17 maggio 2024, n. 13766, in www.rivistalabor.it, 4 settembre 2024, con nota di G. ZAMPIERI, Aspettativa e comporto: l’applicazione del principio di conversione delle cause di assenza dal lavoro nell’interpretazione delle clausole del contratto collettivo; Cass. 29 ottobre 2018 n. 27392; Cass. 4 giugno 2014, n. 12563; Cass. 18 luglio 2013 n. 17580; Cass. 7 giugno 2013 n. 14471).

Tuttavia, se non è previsto dal contratto collettivo (Cass. 17 maggio 2024, n. 1145; Cass. 15 maggio 2024, n. 13491), il datore di lavoro non ha nessun onere di “rendicontazione” (D. GAROFALO, La risoluzione del rapporto di lavoro per malattia, in Dir. rel. ind., 2023, n. 2, p. 375) sull’approssimarsi del termine del periodo di comporto per dar modo al lavoratore di fruire e beneficiare di regolamentazioni legali o contrattuali che gli consentano di evitare la scadenza del comporto e la risoluzione del rapporto, salvo che non sia il lavoratore a farne espressa richiesta (A. CONTI, Periodo di comporto per malattia e informazioni al lavoratore, in Mass. giur. lav., 2006, p. 672).

Infine, per quanto riguarda l’aspettativa non retribuita, essa è un istituto tipicamente contrattuale, con evidenti finalità di agevolare la conservazione del rapporto di lavoro, che viene disciplinata dalla maggior parte dei contratti collettivi nazionali di lavoro, che ne stabiliscono durata e casistiche di concessione. Spesso è collegata proprio al protrarsi dell’assenza a causa di una patologia grave e continuativa, che comporti terapie salvavita, periodicamente documentata da specialisti del Servizio sanitario nazionale, e può essere richiesta solo ove prevista dal contratto collettivo (A. BORDONE, Scadenza del comporto, diritto all’aspettativa ed esecuzione del contratto secondo correttezza e buona fede, in Riv. crit. dir. lav., 2005, p. 888 e ss.).

Ancora una volta, appare fondamentale la leale collaborazione tra le parti del rapporto, con un comportamento improntato ai principi generali di correttezza e buona fede, nonché determinante il ruolo delle parti sociali tenute ad intervenire in maniera “esplicita” per differenziare la durata del comporto tra lavoratori con disabilità e non, solo qualora la disabilità sia riconducibile ad uno stato patologico tutelato dall’art. 2110 c.c. (sul punto, sia consentito rinviare a G. DELLA ROCCA, La malattia del lavoratore subordinato tra vecchie e nuove tutele, cit., p. 14), e prevedere l’informativa dell’approssimarsi della fine del comporto nonché periodi di aspettativa non retribuita. Sorge un dubbio sulla durata da prevedere per quest’ultima, se anche in questo caso sia opportuno introdurre una durata differente a seconda se venga richiesta da un lavoratore con disabilità oppure no.

In conclusione, solo una contrattazione collettiva omogenea e specifica può arginare il protrarsi di questo orientamento giurisprudenziale teso a convertire il licenziamento per superamento del comporto in un licenziamento discriminatorio, con conseguente nullità e applicazione della cd. tutela reale “forte” con condanna del datore di lavoro a tutte le retribuzioni dovute dal licenziamento alla effettiva reintegrazione, con evidente pregiudizio alla certezza del diritto (R. DE LUCA TAMAJO, Il ruolo della giurisprudenza nel diritto del lavoro: luci ed ombre di un’attitudine creativa, in Lav. Dir., 2016, 4, p. 815).

Giada Della Rocca, ricercatrice nell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”

Visualizza i documenti: Trib. Roma, 3 dicembre 2024, n. 12377; Cass., ordinanza 7 gennaio 2025, n. 170

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